2.3 Il quartiere dei miracoli e la valle dei rozzi

 

Meretrici, soldataglie e fervidi cristiani

La piazza Provenzano Salvani, sorta all’interno di un’area dove in epoca medievale i Salvani possedevano terre e fabbricati, porta il nome di colui che, della nobile casata, è stato il più celebre. Provenzano, appunto, il condottiero nato a Siena attorno al 1220 e morto in battaglia a Colle di Valdelsa nel 1269. Era figlio di Ildebrandino e nipote di Sapia, gentildonna senese della opposta fazione guelfa.

In epoca cinquecentesca la zona che oggi viene detta semplicemente ‘di Provenzano’, era nota per le molte prostitute che vi esercitavano il mestiere. Ne resta ironica testimonianza anche nei nomi delle strade. Abbiamo, ad esempio, via delle Vergini; oppure un vicolo intitolato a una certa Viola, la cui professionalità deve essere stata così apprezzata da farle meritare la dedicazione di una strada. I suddetti commerci raggiunsero cifre da miracolo economico verso la metà del Cinquecento, all’epoca della dominazione spagnola, grazie ai soldati di don Diego Hurtado di Mendoza, che dal vicino convento di San Francesco, dove erano accasermati, potevano facilmente raggiungere le case delle señoritas.

Va ricordato, a questo proposito, che pure la Repubblica di Siena si ritrovò invischiata nelle Guerre d’Italia francospagnole (14941559). Tant’è che, nel 1551, Carlo V aveva inviato a Siena un suo rappresentante, Don Diego Hurtado de Mendoza, per costituire un protettorato permanente in terra senese. Fu costruita persino una cittadella fortificata, però questa ingerenza non piacque per niente ai Senesi che, con una sollevazione popolare (26 luglio 1552) aprirono le porte ai francesi e, insieme, riuscirono a confinare gli spagnoli nella fortezza che essi stessi avevano edificato, fino a cacciarli dalla città.

Ma è giunto il momento di raccontare come le lucine (rosse) delle catapecchie del quartiere di Provenzano si sarebbero smorzate nello scintillio di un imponente tempio, la collegiata di Santa Maria di Provenzano.

Tra storia e leggenda questo accadde. Nei paraggi dove oggi sorge la collegiata, sulla facciata di una di quelle case tanto malfamate era posta un’edicola raffigurante una piccola Pietà in terracotta. Proprio all’epoca dell’occupazione spagnola, un soldato, ubriaco e in vena di bravate, sparò un’archibugiata contro il tabernacolo. Il colpo frantumò tutta la parte inferiore della statua e l’infame morì per l’implosione dell’arma (secondo altre versioni sopravvisse e ritenne di doversi convertire). Dell’immagine della Vergine restarono dunque il volto e il busto. Quei resti feriti divennero meta di preghiere riparatorie e di richieste di grazie spesso esaudite, al punto che nel 1594 venne decisa la costruzione di una grande chiesa per conservarvi l’immagine sacra che anche l’autorità ecclesiastica aveva decretato ‘miracolosa’. Il 23 ottobre 1611, con una solenne processione attraverso le strade della città, il busto della Madonna fece ingresso nel nuovo santuario a lei dedicato che nel 1634 papa Urbano VIII avrebbe elevato a Insigne Collegiata istituendo un Capitolo di Canonici presieduto da un Proposto. Già nel 1614, il Granduca di Toscana, per gestire l’enorme flusso di pellegrini, aveva fondato l’Opera di Santa Maria in Provenzano, presieduta da un rettore laico, nominato dalle istituzioni cittadine. 

Nella sala capitolare della collegiata si trova ciò che potrebbe definirsi una foto d’epoca. Una tela di Antonio di Taddeo Gregori raffigurante la Processione per la traslazione della Madonna all’interno del santuario. Costituisce, peraltro, una interessante testimonianza topografica della città di allora. 

Con la costruzione del tempio, le meretrici – salvo qualcuna avviatasi verso la redenzione – ritennero opportuno trasferirsi altrove. Una enfatica sintesi delle vicende legate al ‘risanamento’ del rione è scritta in latino sul lato della chiesa lungo via Provenzano Salvani. Sulla lapide, collocata nel 1723 dal cavaliere Alcibiade Lucarini Bellanti, rettore della chiesa di Provenzano, leggiamo: «Sosta un poco viandante, fintanto che qui non passi inosservata la immagine della Beata Vergine Maria. Tutta questa zona di Provenzano fu esposta alle meretrici, ma dopo che rifulse l’astro virginale si dissolse come nebbia quella peste, il lupanare da qui sparì e, giungendo da ogni parte la devozione senese, fu eretta la vicinissima chiesa dove la sacra immagine è venerata da una grandissima affluenza di popoli».

Il tempio, in effetti, fu subito fulcro di devozione, non solo di popolo ma anche di nobili. Su tutti, i governatori medicei, che l’edificazione della chiesa avevano finanziato in maniera sostanziosa. Caterina de’ Medici, governatrice di Siena dal 1627 al 1629, dispose, prima di morire, che il suo cuore venisse sepolto in Provenzano come pegno alla devozione che nutriva per quella Madonna. E pure le viscere del principe Mattias, deceduto l’11 ottobre 1667, trovarono inumazione nella collegiata senese.

Ulteriore importanza avrebbe poi assunto la venerazione per la Madonna di Provenzano, quando, nel 1656, fu stabilito che in suo onore, ogni 2 luglio (secondo la forma straordinaria del calendario liturgico, festa della Visitazione della Beata Vergine Maria cui è intitolata la collegiata) si sarebbe corso un palio “alla tonda” (percorrendo, cioè, l’anello più esterno della piazza del Campo). Fu una decisione rilevante per la storia del palio di Siena, poiché, in tal modo, se ne andò a codificare una cadenza regolare e l’esplicita dedicazione alla Madonna.

Nelle giornate estive, quando il marmo della collegiata riverbera luce e memoria, la piazza sembra come allagarsi di una solitudine metafisica. Solo i giorni del Palio paiono ricondurla ad una misura concreta, popolandola di colori, di sudaticcia umanità. E di scalmanata devozione; perché questo luogo costituisce, insieme al Duomo, l’altro polo del culto mariano, notoriamente radicato in Siena per atavica eredità, tanto da avere appellato la città “Civitas Virginis”. Da qui anche la ragione dei due palii dedicati alla Madonna: quella Assunta, invocata negli slanci gotici della Cattedrale; quella, in sembianze di fragile terracotta, pregata, appunto, nella collegiata di Provenzano.

 

Un salotto letterario

In via dei Rossi, sulla facciata del palazzo al numero 104, apprendiamo da una targa che «Vittorio Alfieri e Francesco Gianni, questa casa frequentavano, cara aventi l’amicizia di Teresa Regoli Mocenni». Un’informazione che richiama gli anni del tardo Settecento, quando anche a Siena sorsero numerosi salotti in cui ci si incontrava per conversare di politica, filosofia, letteratura; e, non di meno, per spettegolare o imbastire e coltivare tresche amorose. Tra i salotti più rinomati c’era quello di casa Regoli Mocenni, che Teresa animava con piglio e un briciolo di spregiudicatezza. Era detta la ‘Venere Gialla’ per il suo viso malfatto e dal colore smorto. Aveva sposato, giovanissima, il ricco mercante Ansano Mocenni, uomo scontroso, per niente incline alla frequentazione di salotti, nemmeno quello della propria casa dove la moglie riceveva persone acculturate e in vena di chiacchiere. Tra costoro il prediletto di Teresa era Mario Bianchi Bandinelli, e infatti si mormorava che fosse il suo amante.

La targa tiene a citare due nomi: Francesco Maria Gianni, economista fiorentino, ministro del granduca Pietro Leopoldo, che fu a Siena per studiare una riforma del Magistrato dell’Abbondanza ed eseguire un censimento analitico sullo stato dell’economia senese; e il più celebre Vittorio Alfieri, che a Siena ebbe un grande amico, Francesco Gori Gandellini, di cui fu ospite per diversi mesi nel 1777. Fu infatti il Gori a introdurre Alfieri nel giro dei sodali del salotto Mocenni definito dallo stesso Alfieri un «crocchietto di sei o sette individui dotati di un senno, giudizio, gusto e cultura, da non credersi in così picciol paese». In un sonetto, il poeta li censisce quasi tutti: «Due Gori, un Bianchi e mezzo un arciprete. / Una Carlotta bella, e cocciutina; / Una gentil Teresa, e un po’ di Nina, / Fan sì ch’io trovo in Siena almen quiete.» Il conte Alfieri – all’epoca un ventottenne bello e intrigante – non era insensibile al fascino femminile, ed anche a Siena fece del suo meglio. La Nina che nel sonetto è citata come di sfuggita ebbe con il poeta una travolgente storia d’amore. Si trattava di Caterina Gori Zondadari, moglie di Francesco Zondadari e madre di due figli. È a lei che Alfieri, una volta partito da Siena, scriverà una lettera chiamandola «Nina mia dolcissima Padrona» e raccomandando: «Fammi sapere quando vai in villa: a chi posso scrivere perché le lettere non capitino ad altre mani ch’alle tue. Parmi il canonico sia il mezzo più facile, se vorrà farlo». Il canonico in questione era l’arciprete Ansano Luti, frequentatore di casa Mocenni e non a caso citato nel sonetto alfieriano. La lettera ha toni accorati: «Sappi che a me sei cara quanto la vita, ma assai men che la fama. Ch’io son partito per non amarti troppo, e che non ti scorderò giammai». C’è poi una frase sibillina: «Ti raccomando quel citto, che se non mio, almeno s’è creato sotto i miei auspici». Il “citto” cui si allude sarebbe il terzo figlio di Caterina che nascerà nel 1778. Ai maliziosi habitués del salotto Mocenni non sfuggì una coincidenza: la creatura era venuta al mondo nove mesi esatti dall’arrivo dell’Alfieri nella città del palio.

 

Qui dove l’animo si fa dolce

Oltre l’arco dove termina via dei Rossi, si spalanca piazza san Francesco con l’omonima chiesa in forme gotiche iniziata nel 1326 e terminata soltanto nel 1475 per il probabile disegno di Francesco di Giorgio. Rimaneggiata con aggiunte barocche nei secoli successivi, subì un incendio nel 1655 e fu ripristinata, come la vediamo, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento.

In questo spazio di luce e di quiete, torna a mente una pagina di Federigo Tozzi dove lo scrittore senese annota come la sensazione dominante che la piazza trasmette sia la dolcezza. Tale gli risulta essere la visione dei tetti della città addossati l’uno all’altro, i campi di olivi e di viti, la chiesa, il campanile: «È una dolcezza che, se qualche volta pare stanca, tuttavia si sente anche lontano lontano, tra le pieghe verdi dei colli dove non sono stato mai.»

Sulla destra si trova l’oratorio intitolato a san Bernardino (1380-1444), perché anche in questa piazza il frate tenne le sue infervorate prediche. Sulla facciata di epoca cinquecentesca è posto il simbolo bernardiniano: un sole con dodici raggi e, al centro, le tre lettere JHS, acronimo di Jesus hominum salvator (Gesù salvatore degli uomini). L’oratorio merita una visita per le opere d’arte che conserva al proprio interno e che offrono una interessante panoramica della pittura senese a partire dal XIII secolo. Può considerarsi un piccolo museo d’arte sacra che ruota attorno alla splendida cappella superiore intitolata a Santa Maria degli Angeli, completamente affrescata agli inizi del Cinquecento da Domenico Beccafumi, Giovanni Antonio Bazzi detto il “Sodoma” e Girolamo Pacchia.

Nell’angolo della piazza è l’ingresso all’ex convento francescano, oggi sede universitaria. Il portone immette nel chiostro rinascimentale e, percorso tutto il lato sinistro, troviamo delle scale con scolpiti diciotto stemmi dei Tolomei. Secondo la tradizione, qui sarebbero sepolti diciotto appartenenti alla nobile casata. La tradizione ha infatti perpetuato una vicenda che ha a che vedere con la faida secolare tra Tolomei e Salimbeni, in perenne lotta tra loro per questioni politiche ed economiche. Siamo nel Trecento e si racconta che le due potenti famiglie, stanche dei continui conflitti, fossero arrivate alla decisione di fare pace. Per suggellare la tregua i Salimbeni proposero di ritrovarsi a banchetto il giorno di pasqua in una località appena fuori dalla città. Vi avrebbero partecipato diciotto rappresentanti per ciascuna delle due casate, simbolicamente seduti in maniera alternata così che ciascun Salimbeni potesse avere vicino un Tolomei. Il piatto forte sarebbe stato un arrosto di tordi, ma, al momento che giunse in tavola, il vassoio mostrava soltanto diciotto dei trentasei uccellini che avrebbero dovuto esserci. La cosa non sfuggì ai Tolomei, i quali arguirono che sarebbe stato indispensabile procacciarsi velocemente il tordo per non doverlo dividere con chi si aveva accanto. Il capofamiglia dei Salimbeni, simulando l’invito a dare inizio al pranzo, gridò: «A ognuno il suo!» Ciascuno dei Tolomei si precipitò a infilzare il proprio tordo sul vassoio. I Salimbeni, invece, provvidero altrettanto velocemente ad affondare il coltello nel rispettivo vicino di posto, un Tolomei appunto. Tale era la pace che i Salimbeni avevano architettato. La località dove tutto ciò sarebbe accaduto, si trova alla periferia sud della città ed è eloquentemente chiamata Colle di Malamerenda. Quanto alla sepoltura delle diciotto vittime nel sottoscala di una chiesa, in molti si sono detti scettici sul fatto che la prestigiosa famiglia dei Tolomei avesse scelto, per i propri congiunti, sepolcri così anonimi e modesti.

Sulla scorta delle suggestioni fornite ancora da Federigo Tozzi, merita ora entrare nella grande chiesa: «Qualche mattina, anzi giorno, sono entrato nella basilica di San Francesco; a Siena. I colori delle vetrate erano lividi, come pezzi di diaccio, con i santi e le sante intirizziti, dentro e attraverso. […] Gli affreschi del Lorenzetti si animavano: tutto il medio evo era dinanzi a me: io mi sentivo una spada in mano, e dovevo per primo cominciare battaglie che duravano secoli.» Gli affreschi cui si allude sono quelli di Ambrogio Lorenzetti (terza cappella del transetto sinistro) raffiguranti San Lodovico d’Angiò ai piedi di Bonifacio VIII e Martirio di Francescani a Centa. Di particolare bellezza è poi la Crocifissione dipinta da Pietro Lorenzetti (prima cappella a sinistra del presbiterio), così come gli affreschi di Sassetta, Sodoma, Lippo Vanni, Andrea Vanni.

Nella Cappella delle Sacre Particole sono conservate alcune ostie che il 14 agosto 1730 erano state rubate insieme a una pisside d’argento. Le particole furono ritrovate dopo qualche giorno in una cassetta delle elemosine nella collegiata di Provenzano. Sottoposte, nel tempo, a ripetuti esami scientifici, non mostrano tutt’oggi segni di deterioramento. L’innaturale fenomeno è stato considerato dalla chiesa un miracolo eucaristico, il cosiddetto miracolo delle sacre particole.

Uscendo, accanto alla porta laterale che sulla destra immette nel chiostro dell’attuale convento, si può notare una lapide, posta sul pavimento, che indica (con una buona dose di fantasia) la tomba della leggendaria Pia de’ Tolomei. 

 

La rocca dei Salimbeni

Risaliamo la via dei Rossi fino a trovare, sulla destra, via dell’Abbadia che conduce alla piazza omonima. Qui un’immagine plastica della potenza dei Salimbeni ci è ricordata dalla massiccia torre che apparteneva al loro castellare, addossato, un tempo, alle mura altomedievali nei pressi della chiesa di San Donato. È questa, la parte posteriore (quella che meglio ne richiama l’origine medievale) del palazzo rimaneggiato nell’Ottocento in stile neogotico dominante piazza Salimbeni, sede, dal 1866, della Banca Monte dei Paschi.

Come già detto, i Salimbeni furono una delle famiglie più rilevanti nella Siena del XIII e XIV secolo. Schierati inizialmente dalla parte dei ghibellini, esercitarono una forte influenza in àmbito politico ed economico. Proprietari di castelli, palazzi torri, avevano accumulato ricchezza soprattutto con il commercio del grano e delle spezie in Maremma. Il capostipite era considerato un tale Giovanni vissuto nel Duecento, anche se a loro piaceva dire che la propria stirpe discendesse da un certo Salimbene, partito nel 1097 per la prima crociata con un contingente di mille Senesi capeggiati da Bonifazio Gricci. Pure l’anno dopo, il leggendario Salimbene sarebbe ripartito alla conquista di Antiochia di cui sarebbe poi stato nominato patriarca, rifiutando, però, l’incarico.

Nel 1419 la Repubblica senese confiscò il palazzo dei Salimbeni e lo destinò, in parte, alla Dogana del Sale e all’Ufficio di Gabella. Dal 1472 vi trovò sede anche il Monte Pio (Monte di Pietà) sorto per contrastare la disdicevole pratica dell’usura. Nel 1866 il Monte Pio confluì in un’altra istituzione, il Monte dei Paschi (cioè dei pascoli), che concedeva prestiti tenendo a garanzia delle sue operazioni le rendite pubbliche annue dei pascoli di Maremma, controllati dal demanio senese. Da allora, acquistandolo, il Monte dei Paschi ne ha fatto la propria sede.

 

Nella valle dei rozzi

Per la ripida discesa che segue i basamenti della Rocca e l’ingresso all’antico fondaco si raggiunge via Vallerozzi, il cui toponimo non ha spiegazioni certe. Forse derivante dal nome di una famiglia che qui aveva proprietà o, più probabilmente, perché zona frequentata da gente rozza, come, senza tanti complimenti, venivano definiti i pastori che entravano dalla vicina porta non a caso chiamata “Ovile” per condurre in quest’area le loro greggi.

In Vallerozzi abitò anche il pittore Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma, grande artista, ma dal carattere imprevedibile. Quando si trovò a Monte Oliveto per affrescare il chiostro dell’Abbazia, fu soprannominato dai monaci “il Mattaccio”, proprio per i suoi continui sbalzi d’umore a cui i fraticelli dovettero sottostare. A conferma della sua bizzarria è rimasto un esilarante scritto, da lui inviato alla Gabella di Siena, dove elencava ciò che possedesse in «una casa in litigio con Niccolò de’ Libri per suo abitare in Vallerozzi». Questa la sua dichiarazione dei redditi: «Otto cavalli; per sopranome son chiamati caprette et io sono un castrone a governarli; una scimmia e un corvo che favella e lo tengo che insegni a parlare a un asino teologo in gabbia; un gufo per far paura a matti e un barbagianni. Del locco non vi dico niente per la scimmia di sopra; due pavoni; due cani, due gatti, un terzuolo, uno sparviero, sei galline con diciotto pollastrine. E due galline moresche e molti uccelli che per lo scrivare saria confusione. Trovomi tre bestiacce cattive, che sono tre donne».

Percorsa la strada fino all’oratorio della contrada della Lupa e costeggiando il lato della chiesa raggiungiamo lo spiazzo su cui sorge Fonte Nuova, una delle più belle fonti storiche della città. Fu costruita nel Trecento su progetto di Camaino di Crescentino e Sozzo di Rustichino. Con la sua struttura che richiama il gotico cistercense, con i due grandi archi a sesto acuto, le volte a crociera che coprono l’interno, potrebbe dirsi un ‘tempio dell’acqua’.

 

Una produzione: toscanalibri.it
Testi a cura di Luigi Oliveto
Coordinamento editoriale:
Elisa Boniello e Laura Modafferi
Foto: Archivio Comune di Siena
Grafica: Michela Bracciali

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