2.4 Una passeggiata romantica

 

Il Passeggio della Lizza

Lo dice il nome stesso. Si chiama Lizza perché, al termine del Cinquecento, era lo spazio destinato a tornei ed esercitazioni equestri. Finché, nel 1779, si intese valorizzare la zona trasformandola in passeggio pubblico e incaricando Antonio Matteucci di disegnarla a giardino. E tale è rimasto, un giardino che anticipa gli spazi più ampi e arieggiati della Fortezza medicea.

Fin verso la metà del Novecento, è stato veramente il luogo del passeggio, degli incontri, di una mondanità alla portata di tutti. Quando non vi erano gli edifici costruiti in epoca moderna, la vista poteva spaziare sul panorama della città, là dove, contro il cielo, si ritagliano le guglie del duomo, la Torre del Mangia, la basilica di San Domenico, i tetti delle case. Insomma, un giardino di lusso ma alla portata di tutti, molto apprezzato anche dai forestieri. Lungo i suoi viali passeggiarono ospiti illustri quali Arthur Symons, Vernon Lee, Henry James, Paul Bourget, Giovanni Marradi, Giovanni Comisso, Carlo Betocchi, Leonardo Sciascia.

Dove oggi è il Palazzo di Giustizia (opera dell’architetto Pierluigi Spadolini, costruita alla fine degli anni Settanta del secolo scorso) sorgeva il teatro Montemaggi (dal nome del suo progettista Francesco Montemaggi) inaugurato nel 1861. Vi si rappresentavano opere liriche, ospitava mostre e iniziative culturali. Il 19 febbraio del 1933, a seguito di una abbondante nevicata, crollò il tetto e tutta la struttura ne risultò danneggiata. Nel dopoguerra, tra i resti del teatro venne allestito un dancing (Il Giardino dei Tigli). Alla domenica, invece, su un palco allestito nei giardini si esibiva la banda cittadina, mentre il fotografo ambulante ritraeva soldatini di leva e fidanzatissime coppie, orgogliose di mettere in posa amori che a quei tempi non potevano che dirsi eterni. Su questo piccolo mondo teneramente provinciale si stagliava il monumento a Giuseppe Garibaldi, inaugurato nel 1867. Dall’alto del suo destriero, l’Eroe dei due Mondi ribadiva il mito di sé stesso e la retorica di una storia patria. Il Garibaldi della Lizza è sempre stato per i Senesi uno con cui ci si può permettere anche qualche confidenza, al punto che uno stornello cantato nelle Contrade di Siena può dirgli senza problemi: «E Garibaldi a Siena si lamenta, / perché alla Lizza non ci vuol più stare, / ci vanno le ragazze a far l’amore / e da ruffiano non vuol più passare».

 

Grand Hotel

Ad aumentare il prestigio della Lizza contribuì significativamente, nel 1875, l’apertura del Grand Hotel de Sienne (poi diventato Grand Hotel Royal) nel palazzo cinquecentesco appartenuto agli Zuccantini Zondadari (l’edificio che a sinistra fa angolo con l’attuale via del Sasso di San Bernardino e che ha il suo ingresso in via dei Montanini numero 101). Il Comune di Siena aveva addirittura emanato un bando per facilitare, con degli incentivi economici, l’apertura di un albergo moderno. A realizzarlo fu un imprenditore fiorentino, Filippo Betti, il quale riuscì a creare una struttura all’altezza dei tempi. Su guide turistiche, almanacchi, giornali, fin da subito l’albergo venne pubblicizzato per il «confort moderno» e per la «vista incantevole» sul Passeggio della Lizza.

Nelle due sale da pranzo pendevano lampadari di cristallo, la posateria era in argento, si potevano trascorrere momenti di relax nella sala lettura o nel giardino attrezzato con poltrone e tavoli. Su alcune manchettes pubblicitarie di inizio Novecento si tiene a dettagliare che è fornito di luce elettrica, riscaldamento centrale, ascensore (fu uno dei primi ascensori installati a Siena), camere con bagno, acqua corrente calda e fredda. Ed erano possibili anche «arrangiamenti speciali per lungo soggiorno in estate, autunno e inverno». Tutto ciò considerato, il Grand Hotel Royal ospitò, nell’arco di quasi sessant’anni, nobili, regnanti, forestieri particolarmente esigenti. Tra costoro, nel 1892, Henry James, che nel suo libro di viaggio Ore italiane, nelle pagine dedicate a Siena, si diffonderà sulle atmosfere del Grand Hotel, «il fiore ancora più fresco della modernità […] che assume nel mio attuale ricordo una dimensione attenuata e tenera, quasi ne derivasse ogni sorta di benessere, di lindore, di gentilezza.» Non senza la mestizia delle luci che si spengono per non riaccendersi, il Grand Hotel avrebbe chiuso definitivamente nel luglio del 1932. Ne avevano vista di bella gente le sfingi di bronzo che decoravano la scala. In tale circostanza anch’esse, contravvenendo alla loro proverbiale imperturbabilità, lasciarono trasparire un senso di tristezza.

 

Dimore di pregio

Si fa notare per la sua particolare architettura anche il vicino Palazzo Bernardi Avanzati, fatto costruire nei primi decenni del Settecento da Francesco Bernardi detto il Senesino, cantante lirico castrato, un sopranista divenuto celebre in Europa quasi al pari di Farinelli. Personaggio di cui parliamo in un altro nostro itinerario. Così come, altrove, raccontiamo di quando Matilde e Vittoria Manzoni, figlie di Alessandro, abitarono alla Lizza. In una lettera indirizzata a Matilde, l’autore dei Promessi sposi scrive: «E corro anch’io col pensiero alla casa che guarda sulla Lizza…».

Sempre a proposito di letterati, nella targa sull’edificio al numero 12 possiamo leggere: «La quotidiana visione delle / cuspidi del duomo e della torre / repubblicana / diede al verso di / Giovanni Marradi qui ospite / dal 1897 al 1898 accenti di alata / poesia e palpiti di libertà». Qui, infatti, risiedette il Marradi negli anni in cui insegnò a Siena. E nelle stanze che in lontananza vedevano le cuspidi della cattedrale e della Torre del Mangia, compose l’Epistola senese dedicata al Pascoli: «Or che rifiora, o Pascoli, ogni vetta / de’ bei colli Senesi e in roseo foco / s’accendono i tramonti, or la diletta / solitudine tua lascia per poco, / e vieni a me. La casa mia t’aspetta / e t’apparecchia grazioso loco, / qui dove a te, pensoso trovadore, / Siena, città de’ sogni, apre il suo core.» L’invito in versi prosegue dicendo: «Vedrai da casa mia, su tanta storia / muta nel sasso dei castelli arcigni, / le cuspidi del Duomo (inno di gloria / che alzarono a Maria gli avi sanguigni) / spiccarsi al ciel con agile vittoria / quasi candide a volo ale di cigni, / e d’un argenteo raggio arder ciascuna / nel mistico silenzio della luna.» Non risulta che il Pascoli abbia accolto il poetico invito. A Siena c’era stato, però, qualche anno prima, nell’agosto del 1892, in veste di commissario d’esame, e in una lettera indirizzata alla sorelle scrisse che Siena era bella, ma lui non avrebbe potuto viverci «nemmeno dipinto», gli sarebbe mancata troppo l’aria della campagna.

 

La serena pace di un asilo

La Lizza è, per certi aspetti, un luogo della memoria. Intere generazioni vi hanno giocato da bambini, passeggiato da innamorati, seduto sulle sue panchine in veste di genitori e nonni. Poco distante dalla vasca dove un cigno bianco spadroneggia tra pesciolini e anatre, troviamo, plasticamente raffigurato, proprio lo spirito del luogo che si trasmette da una generazione all’altra: è racchiuso nella scultura del Cavallo e il suo puledro di Sandro Chia (1994) in cui un puledrino ancora incerto sulle gambe si appoggia al cavallo adulto. 

È, questo, anche luogo di memorie drammatiche, come drammatica fu la Grande Guerra che qui (sul lato del viale Franci, al numero 26) è ricordata con un inequivocabile simbolo di pace. Quando, nel 1919, ovunque venivano eretti monumenti per onorare la memoria dei caduti in guerra, il Comune di Siena ritenne che non poteva esserci testimonianza più significativa di un edificio da destinare all’infanzia. Fu così deciso di costruire ciò che, fin da subito, venne chiamato Asilo Monumento. Lo progettò l’architetto Vittorio Mariani, che negli anni precedenti aveva già realizzato il Palazzo delle Poste e della Camera di Commercio (quest’ultimo edificio non più esistente).

L’inaugurazione avvenne il 28 settembre 1924 alla presenza del re Vittorio Emanuele III. Tenne il discorso ufficiale Piero Calamandrei, allora giovane docente all’Università di Siena. In un passaggio molto intenso del suo intervento, disse: «Nessuna onoranza riuscirà a dir loro [ai caduti in guerra] la devozione dei superstiti quanto la serena pace di questo asilo, nel quale essi non troveranno le clamorose adunate che turbano la raccolta umiltà della morte o le vuote declamazioni dei retori che lasciarono ad altri il morire in silenzio, ma i cori giulivi dei bimbi che cantano il girotondo e non sanno ancora quante lacrime e quanto sangue hanno dato i morti per creare la felicità di quelli che sono restati». Tutt’oggi tra quelle mura risuonano le voci dei bambini di una scuola materna.

Facciamo un salto all’indietro nel tempo leggendo il cippo eretto all’esterno della cancellata dell’Asilo. Ci ricorda che su questa area, durante l’occupazione spagnola di metà Cinquecento, Diego Hurtado de Mendoza, per ordine di Carlo V, aveva fatto costruire una cittadella fortificata. Quando i Senesi, il 4 agosto 1552, riuscirono, con l’aiuto dei Francesi, a cacciare dalla città la guarnigione imperiale, la fortezza venne distrutta a furor di popolo. Nel diario di Alessandro Sozzini, scritto nel 1587, c’è un’accurata descrizione dell’evento che coinvolse l’intera città. L’imponente corteo comprendeva «la Signoria, il Capitano di popolo con tutti gli Ordini e Magistrati e spiegato avanti a lor Signorie lo stendardo della Nostra Donna, e loro tutti, con ghirlande in testa di verde olivo, andorno alla detta cittadella, con grandissima moltitudine di genti, con la processione di tutto il clero, avendo in compagnia molti con zapponi, picconi, martelli, pali di ferro ed altri in strumenti per guastare; che parea che ciascuno andasse alle nozze. Cominciò il Capitano di popolo e gl’illustrissimi Signori con picconi e altri istrumenti a guastare detta Cittadella e tutto il popolo gridava, con le lacrime agli occhi per allegrezza: libertà, libertà; Francia, Francia; vittoria, vittoria… imperocché nello spazio di un’ora ne fu guasta tanta verso la città, che non ne saria murata in quattro mesi.»

 

La Fortezza dei Medici

Lasciamo i giardini della Lizza per spostarci nel vicino Forte di Santa Barbara, la Fortezza Medicea, il cui appellativo lascia intendere un’altra dominazione alla quale i Senesi dovettero ob torto collo sottostare. Quella, appunto, dei Medici, allorché, caduta la Repubblica senese nel 1555, anche Siena fu annessa al Granducato di Toscana.

La Fortezza fu fatta innalzare nel 1561 da Cosimo I (definito dai Senesi, “il ladrone mediceo”) su disegno dell’architetto militare Baldassarre Lanci di Urbino. È una poderosa costruzione rettangolare in mattoni che agli angoli incunea quattro bastioni chiamati san Filippo, La Madonna, san Domenico, san Francesco o dell’Amore.

Estintasi la dinastia dei Medici (l’ultimo fu Gian Gastone che morì nel 1737) al governo della Toscana subentrarono gli Asburgo-Lorena. Tra costoro si distinse Pietro Leopoldo (succeduto al padre Francesco Stefano) che iniziò un programma di riforme ad ampio raggio, riportando la Toscana ad una dignità di Stato moderno e, sotto diversi aspetti, all’avanguardia (basti pensare all’abolizione della pena di morte promulgata nel 1786).

Non tutte le riforme leopoldine piacquero ai Senesi. Tra queste la liberalizzazione del commercio del grano anche oltre i confini che provocò un aumentò del prezzo del pane, tanto da far infuriare il popolo che sfoggiò il meglio del turpiloquio all’indirizzo di Leopoldo.

Se pur a dieta per meno pane, i cittadini Senesi si guadagnarono, però, la possibilità di respirare aria buona sui bastioni della Fortezza. Il granduca, infatti, fece trasformare il fortilizio da struttura militare a giardini pubblici disegnati dall’architetto Antonio Matteucci e realizzati da Leopoldo Prucker, giardiniere dello stesso granduca. Vennero inaugurati nel 1779. Nella circostanza i Senesi avrebbero voluto mostrare riconoscenza a Leopoldo erigendogli un monumento all’interno della Fortezza, ma egli vi si oppose. Fu allora posta una lapide all’ingresso con su scritto: «L’austriaco Pietro Leopoldo, vista la lealtà dei Senesi, mutò in delizia, nell’anno 1778, la Fortezza costruita da Cosimo de’ Medici per la sicurezza del suo comando nell’anno 1561». Nel 1937 i bastioni furono ulteriormente sistemati a passeggio.

È dunque grazie a Pietro Leopoldo se la città, ancora oggi, gode di questo spazio indubbiamente suggestivo, evocante. E non a caso la Fortezza è divenuta, nel tempo, anche una sorta di parco letterario, per come la si trovi citata in pagine di importanti autori. Il già ricordato Henry James, spesso insieme all’amico scrittore Paul Bourget (entrambi alloggiavano al Grand Hotel Royal), amava passeggiare sui bastioni della fortezza e spaziare lo sguardo sull’orizzonte. Nel suo libro Ore italiane (1909) leggiamo: «[…] Un orizzonte ampio, strano, malinconico, stupendo, un bordo di montagne lontane che dipingono, per chi si sporge, verso l’ora del tramonto, dai vecchi parapetti lisci e lustri per l’uso, un paese non precisamente arido e deserto, ma che pure ha avuto una sua vita in una scala immensa, e che si è ritirato, con tutti i suoi ricordi e le sue reliquie, in un rifugio piuttosto austero, in realtà quasi fosco e misantropico. Ad ogni modo, quella era una condizione, uno stato d’animo, diffusa in tutto il luogo, che propiziava, nel tardo pomeriggio, gli azzurri e i porpora più divini nel paesaggio, per non parlare del fatto che così favoriva, anche in misura maggiore, il mio reale convincimento secondo il quale l’intero colle fortificato con i suoi immensi contrafforti dalle tonalità dorate di rosso e di bruno, affondati a perpendicolo entro vigneti, frutteti, campi di grano e tutta quella rustica eleganza che caratterizza il podere toscano, stesse intrecciando per me una ghirlanda di ore indimenticabili […]».

Vernon Lee (scrittrice inglese morta a Firenze nel 1935 e autrice del libro Genius loci: lo spirito dei luoghi) annotò: «La sottile trafittura dell’azzurro oltremare di quelle colline oltre la Lizza […]; quell’inconfondibile colore azzurro di contro al cielo eburneo della sera si identificava e addirittura diventava, diciamo così, il colore stesso del desiderio dell’inaccessibile, del congedo da ciò di cui si è troppo brevemente goduto».

Dal bastione rivolto verso la città, il poeta britannico Arthur Symons (1865-1945) ammirava così il panorama: «Dalle fortificazioni si scorge l’intera città, le case bianche e marroni, col tetto brunastro e la facciata liscia forata da molteplici finestre, che s’ergono fianco a fianco, un piano sopra l’altro, senza spazio visibile nel mezzo; così raggruppate, quasi per maggior sicurezza, o forse in segno di cordialità, si inerpicano fino alla lunga e stretta costruzione del Duomo che, sormontato dalla cupola e dalla torre, sembra fondere tutta questa massa irregolare in un’unica armonia.» 

Sarà su questo stesso scenario che lo scrittore senese Federigo Tozzi avvia l’epilogo del suo romanzo Tre croci, una drammatica vicenda di tracollo economico familiare, miseria e lutti: «[…] Lo portò a guardare Siena; dal muricciolo della Fortezza. Gli disse: “Venga a vedere come, a quest’ora, i colori sono più belli che la sera. Io me ne sono convinto venendo qui la mattina e il giorno.” Viene subito alla vista un gran rigonfio di case; e, dentro, la Cattedrale. In Fontebranda, le case invece si biforcano, lasciando in mezzo uno spazio vuoto. Stanno come attaccate e schiacciate sotto la Cattedrale; a strapiombo su gli orti e su la campagna. Poi si abbassano sempre di più fino a sparire, sotto una balza; e allora si vedono soltanto i loro tetti. Quelle più grosse reggono le altre; e non è possibile capire dove siano le vie; perché le case paiono separate l’una dall’altra da spacchi e da tagli quasi bizzarri, alla rinfusa; a crocicchi rasenti, contrari, di tutte le lunghezze e di tutte le specie. E i tetti, in quelle picce e in quegli arrembamenti, in quelle spezzettature di ogni forma, sono sempre più rari di mano in mano che le case si spargono per le chine. La campagna era d’una ampiezza, che non finiva mai; e Siena, in quel silenzio, quasi taciturno ma soave, sembrava tutta raccolta in se stessa e inaccostabile. Mentre le cime più lontane, fino alle Cornate di Gerfalco, si sbandavano e riempivano l’orizzonte sperduto. Giulio guardò con avidità: non mai, come allora, aveva amato la sua Siena; e ne fu orgoglioso».

Proprio commentando gli scenari che Tozzi pone come sfondo a certe sue pagine di ambientazione senese, Carlo Cassola ebbe modo di sottolineare: «Siena non è molto alta e non sorge nemmeno su un’altura isolata; ma le colline intorno sono quasi tutte più basse, e così la vista spazia libera in ogni direzione, verso la Montagnola, verso il Chianti, verso l’Amiata, verso i monti della Maremma. Specialmente la sera, quando le successive ondulazioni della campagna e l’orizzonte montuoso si oscurano, da quelle lontananze viene un senso di freddo e di solitudine.»

A Giovanni Comisso, la città vista da quassù appare, invece, come una nave nell’imminenza di staccarsi dal molo: «Era piacevole camminare sui baluardi della Fortezza, di là si scorgeva tutto l’ondeggiare dei declivi, ora rossastri, ora gialli, interrotti da macchie di cipressi o da forre profonde. Lontano verso mezzogiorno, l’orizzonte è limitato dai monti azzurrini di Maremma, e il cielo da per tutto si inarca asciutto e leggero. La città con le sue torri e le sue chiese s’eleva di fianco sul dorso del colle e nella sera s’illumina di luci a ogni finestra come un piroscafo pronto per partire».

Un’atmosfera notturna della Fortezza è offerta da una poesia di Carlo Betocchi (Serenata doppia in Siena) dove, con il canto del chiù e alla luce della luna, «… io guardavo le tozze / case, ammontate e nere, / fare notturne nozze / per le finestre lumiere». Ed anche Leonardo Sciascia, con penna di poeta, ricorda: «Siena. Alla fortezza i giovani / con i grossi cani al guinzaglio, / le ragazze nelle vesti di primavera. / E la musica furente del luna park / si fa dolce con le magnolie…».

Nell’agosto del 1935, la Fortezza fu teatro della “Mostra Mercato dei Vini tipici d’Italia” (una prima edizione vi si era svolta nel 1933). In quel contesto fu organizzato un concorso di “Poesia bacchica amorosa e guerriera” con presidente di giuria Filippo Tommaso Marinetti, padre fondatore del futurismo. Esiste, in proposito, una divertente testimonianza di Mario Verdone – all’epoca diciottenne aspirante giornalista – dalla quale apprendiamo che a vincere il primo premio fu Lorenzo Viani con i versi intitolati “Sarabanda del vino”. Nella cena che seguì la premiazione – racconta Verdone – il poeta vincitore venne invitato a declamare nuovamente la sua poesia. Viani, dunque, «salì sopra un tavolo tra bottiglie stappate e coppe semicolme, tovaglioli macchiati di Chianti e di pomodoro e la disse con gli occhietti che scintillavano e ridevano, mentre tutto intorno era una continua festa.» Si racconta pure che in questo clima euforico, Marinetti si sia spinto a gridare in puro stile futurista: «il Brunello è benzina!», alludendo – sia chiaro – non certo al sapore del pregiato vino montalcinese, ma a ciò che mette in moto la sua prelibatezza.

La presenza di Marinetti aveva fatto sì che diversi altri simpatizzanti del movimento futurista fossero intervenuti all’iniziativa. Quella sera, in Fortezza, a levare chiassosamente i calici furono visti Luciano Folgore, Lorenzo Ercole Lanza, Bino Sanminiatelli, Farfa (Vittorio Osvaldo Tommasini), Krimer (Cristoforo Mercati), Virgilio Marchi. Quest’ultimo, teorico della nuova architettura della ‘città futurista’, aveva collaborato anche all’allestimento degli spazi espositivi della Mostra.

 

Come in una visione

Lasciamo la Fortezza. Percorriamo, sulla destra, il vialetto della Lizza fino a girare in viale XXV Aprile e quindi, a sinistra, in viale dei Mille, trovandoci così nel piazzale di San Domenico dinanzi a un’altra visione della città che, in effetti, può definirsi più visione che veduta. Da qui la città sembra irreale, per quanto appaia bella e perfetta. Pare una delle “città invisibili” raccontate da Italo Calvino. Forse proprio la città di cui – secondo lo scrittore – si poteva dire «di quanti gradini sono le vie fatte a scale, di che sesto gli archi dei porticati». Tuttavia – avvertiva il narratore – sarebbe come dire nulla, perché «non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato». Ma si sappia pure che «la città non dice il suo passato», piuttosto «lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, virgole». 

 

Davvero corposa sarebbe l’antologia se ci mettessimo a citare tutte le pagine letterarie che descrivono questo affaccio sulla città. Vi ricorre spesso il tema del sogno e dell’incanto. Affascinano le imprevedibili geometrie degli edifici, i pertugi d’ombra delle strade, la visione delle case che – scriveva ancora Symons – «si inerpicano su per l’erta, ammucchiandosi, o meglio, serrandosi attorno al duomo finché i tetti e i muri si fondono con la sua struttura.»

Da via Camporegio, attraverso il fornice del vicolo del Campaccio (ma non senza rivolgere un ultimo sguardo alla mole di san Domenico) si raggiunge la Costa di Sant’Antonio e, scendendo le poche scale a destra, il vicolo del Tiratoio. Così detto perché, nel Trecento, vi sorgeva la “domus tiratorium”, il luogo dove, su appositi tenditoi (tiratoi), si stendevano ad asciugare le pezze di stoffa uscite dalla lavorazione. Un edificio adibito a tiratoio venne qui costruito nel 1344 dall’Arte della Lana (la corporazione che riuniva i fabbricanti di tessuti). La costruzione, ampiamente modificata nel corso dei secoli, è visibile lungo l’ultimo tratto del vicolo, quello che ci porterà alla Fonte Branda. 

L’acqua che sussurra 

Severa e raffinata, con le tre grandi arcate ogivali sormontate da merli, Fonte Branda è ricordata fin dal 1081. Fu ricostruita in mattoni, nelle forme attuali, da Giovanni di Stefano nel 1246. Originariamente era formata da tre vasche: la prima destinata all’acqua potabile; la seconda, alimentata dal trabocco della vicina, all’abbeveraggio degli animali; la terza adibita a lavatoio. Le acque di risulta venivano usate dai conciatori, dai tintori, dai molti laboratori della lana che si trovavano nella zona. Tra le dicerie puntualmente riportate sui taccuini dei viaggiatori, quella che attribuiva all’acqua di Fonte Branda effetti devastanti per chi la bevesse, ovvero diventava pazzo. Una diversa e più rassicurante versione parlava, invece, come di un incantesimo: una volta dissetati sotto quelle volte, nulla poteva allontanarci da Siena.

Se avete occasione di venirci di notte, l’atmosfera è ammaliante. Lo sperimentò lo scrittore danese Johannes Joergens, che in una prosa poetica definisce Fonte Branda «parlante», con quel suo «suono d’acqua, d’acqua profonda e scura / suono d’acqua, / che ondeggia e gorgoglia, sussurra, gloglotta e si lamenta.» In una notte in cui «il vento agitava tre cipressi intorno al muraglione di San Domenico», giunse fin quaggiù anche Guido Ceronetti per vivere – così leggiamo nel suo Viaggio in Italia – un «attimo puro a mezzanotte, vicino all’acqua di Fontebranda.» Dunque, provare per credere.

 

Una produzione: toscanalibri.it
Testi a cura di Luigi Oliveto
Coordinamento editoriale:
Elisa Boniello e Laura Modafferi
Foto: Archivio Comune di Siena
Grafica: Michela Bracciali

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