2.6 Storie senesi di personaggi celebri
Casanova non fa conquiste
Era la sera del 19 aprile 1770, la città si specchiava in un bel tramonto primaverile. Un calesse con il mantice abbassato fu visto varcare porta Camollia. Trasportava un signore dalla carnagione olivastra, profilo pronunciato, sguardo penetrante, molto preso ad osservare quanto gli scorreva accanto. Costui era Giacomo Casanova, giunto a Siena per qualche giorno di vacanza. Ad aspettarlo c’era l’abate Giuseppe Ciaccheri, bibliotecario e vicerettore dell’Università, che gli avrebbe fatto da guida nel soggiorno senese.
La cronaca di quei giorni la troviamo nella Histoire de ma vie, corposa opera autobiografica in cui Casanova racconta (talvolta, fantasiosamente, inventa) vicende e peripezie della propria vita. Da queste pagine apprendiamo che gli incontri senesi degni di ricordo fossero stati quelli con il Ciaccheri, la poetessa Maria Fortuna, la marchesa Violante Chigi Zondadari.
Quest’ultima abitava nel palazzo di famiglia situato al numero 46 di Banchi di Sotto, un antico palazzo rifatto nel 1724 su progetto di Antonio Valeri. La marchesa era, anch’essa, un’animatrice dei salotti senesi, donna spigliata e ricca di interessi. Perciò il Ciaccheri ritenne che Casanova dovesse conoscerla. L’incontro avvenne, dunque, a casa Chigi Zondadari. Nelle sue memorie, il veneziano annota d’essersi trovato dinanzi a una piacente vedova quarantasettenne (il marito Flavio era morto l’anno prima) che, per quanto non più giovane, stuzzicava ancora i sensi. E, infatti, l’inguaribile ammaliatore mise subito in atto le sue tecniche di fascinazione. Davvero divertente la schermaglia di corteggiamento che leggiamo nella Histoire. I due si confrontano sui loro diversi approcci alla vita. Casanova dice di essere ormai votato al carpe diem: «la libertà di godere solo dell’attimo è una grazia concessami dal dio Apollo». La nobildonna lo frena, non è di questo avviso, poiché «il piacere che scaturisce dai desideri e talvolta anche dai sospiri, è preferibile, perché infinitamente più vivo». Giacomo capisce subito che, in tal caso, l’impresa amorosa non è facile. Si guadagna, tuttavia, un invito a pranzo per il giorno dopo nella villa della marchesa a Vicobello. Anche qui Violante sfodera charme e sottile spregiudicatezza. Tant’è che il Casanova dovrà poi ammettere a sé stesso come, dalla condizione di seduttore, si fosse improvvisamente ritrovato in quella di sedotto. Per giustificare quell’invaghimento, dirà che lui, in controtendenza con i suoi simili maschi, più passavano gli anni (all’epoca ne aveva 45) e più era attratto non dalla materia, ma dallo spirito, dall’intelletto delle donne («Lo spirito diventava il tramite di cui i miei sensi affievoliti avevano bisogno per mettersi in movimento»).
Già la sera prima, uscendo da Palazzo Chigi Zondadari, Casanova aveva dichiarato al Ciaccheri che, preso dal fascino della marchesa, la sola donna che avrebbe frequentato durante il soggiorno senese sarebbe stata lei, «e poi sarebbe accaduto quel che a Dio fosse piaciuto». A Dio non piacque e, presumibilmente, non piacque a Violante, forse poco convinta dalle argomentazioni del suo corteggiatore circa il principio che «il bene preferibile a tutti gli altri è quello di cui si gode» senza inutili attese e stillicidi di desiderio.
Fu così un Casanova minore quello che Giacomo produsse nei suoi giorni senesi. Niente alcove odorose di spigo e nobiltà, ma solo le lenzuola ruvide della locanda I Tre Re. Da dove fece i bagagli, ancora prima del previsto, alla volta di Roma. Mentre, in carrozza, viaggiava sull’antica Cassia, gli baluginava, insistente, l’immagine della marchesa Violante, la sua verve e spontaneità, la sua grazia nel «saper tornire un complimento appena le si offrisse il destro». Non c’è dubbio: il seduttore era stato sedotto.
Brava ma brutta
Riavvolgiamo per un momento il nastro. Al seguito di Casanova, usciamo da casa della marchesa Violante e giriamo a destra su via Rinaldini per raggiungere Piazza del Campo, da dove si può vedere anche la facciata posteriore di Palazzo Chigi Zondadari. Quindi ci spostiamo di poco verso la cappella del Palazzo Pubblico.
L’altra visita di cui fa racconto Casanova è quella alla poetessa Maria Fortuna. Non era una nobile, ma una semplice borghese, figlia del Bargello (il commissario di polizia). La fanciulla possedeva due prerogative: una esagerata bruttezza, una grande bravura nel comporre versi. Se ne rese conto anche Casanova, il pomeriggio che, sempre accompagnato dal Ciaccheri, si recò a casa Fortuna, in un palazzotto con ingresso da piazza del Campo (al N. 78), d’angolo con via Salicotto. Nel modesto salotto di famiglia, Maria sfoggiò le proprie capacità poetiche sostenendo una sfida di improvvisazione con Casanova, il quale, sinceramente sorpreso dalle doti della ragazza, non mancò di complimenti. Altrettanto non poté fare per l’aspetto di quella creatura, tanto sublime nell’esercizio poetico, quanto «ripugnante» per le sue sembianze. Considerazioni che, una volta lasciata l’abitazione dei Fortuna, Casanova non mancò di esternare al Ciaccheri, incorrendo in una clamorosa gaffe. Nel proseguo della conversazione risultò infatti evidente come l’abate fosse perdutamente invaghito della giovane poetessa. Giacomo, per non avvilire ulteriormente l’amante di cotanta bruttezza, fece allora appello alla propria arguzia ed esperienza, concludendo che… «sublata lucerna» (spento il lume) il piacere poteva sempre ricavarsi.
Giulia ama Henri
Costeggiando il Palazzo Pubblico, dopo l’imbocco di via Giovanni Dupré sorge Palazzo Berlinghieri, il cui nome è in qualche modo legato a quello di Henri Beyle, alias Stendhal. Accadde, infatti, che tale Daniello Berlinghieri, ministro di Toscana a Parigi, fu tutore a Giulia Rinieri De Rocchi, ragazza bella e intraprendente al punto di dichiararsi, ella, innamorata del già quarantenne Beyle. Ma quando Sthendal andò dal Berlinghieri a chiedere in sposa la bella Giulia, il tutore respinse, secco, la profferta (altri progetti aveva per la sua pupilla e non certo quello – ebbe a dire – di darla in sposa ad uno «spiantato»).
Giulia, donna decisa e di carattere, seppe come vendicarsi: divento l’amante di Beyle. I due si incontreranno ripetutamente a Siena nell’inverno del 1832, e anche dopo il matrimonio di lui, la relazione continuò fino alla morte del letterato francese. I tratti di Giulia Rinieri sono ravvisabili in Mathilde de la Môle, uno dei personaggi del romanzo Il rosso e il nero. Così come non è sfuggito ai più informati che, in un altro romanzo stendhaliano, La Certosa di Parma, si parla, sul finale, di un Palazzo di Vignano (nella finzione letteraria collocato sulle rive del Po) che allude, senza dubbio, alla villa “il Palazzo” appartenuta ai Berlinghieri in località Vignano, poco distante da Siena.
Galilei e la luna vista da Siena
Da Piazza del Campo, attraverso il vicolo del Bargello, andiamo in via di Città e giriamo a sinistra. Inconfondibile per la sua facciata che segue la curvatura della strada, vediamo il signorile Palazzo Chigi Saracini in stile gotico senese (l’ingresso è al numero 89). Edificato sul preesistente Palazzo Marescotti (XII secolo), ebbe ampliamenti trecenteschi e altri nei secoli successivi con aggiunte rinascimentali. Fu nel 1770, quando venne acquistato dalla famiglia Chigi, che si allungò ulteriormente la facciata e ripristinato lo stile trecentesco. Raccontano le cronache che dalla torre, ora mozza, il 4 settembre 1260 un giovane tamburino seguì tutte le fasi della battaglia di Montaperti raccontandole al popolo che si era raccolto là sotto. Quasi una radiocronaca, che, con toni concitati, badava a dire: «É nostri ànno passato l’Arbia, e salgono dallo lato del poggio; e’ nemici salgono dall’altro lato; gridate misericordia; ora sono a le mani co’ nemici, ora sono a le mani; la battaglia è grande da ognuna delle parti; pregate Iddio che dia forza e aiuto al popolo di Siena».
Al numero 126 troviamo il Palazzo delle Papesse, fatto costruire da Caterina Piccolomini, sorella di Pio II (da ciò la denominazione “delle Papesse”). Forse disegnato da Bernardo Rossellino (architetto di fiducia del pontefice), l’edificio venne terminato nel 1495 con l’intervento di Antonio Federighi e Urbano da Cortona. Fu anche residenza arcivescovile, e nel 1633 ospitò per circa sei mesi Galileo Galilei.
Sono noti i guai in cui incorse Galilei per le sue teorie eliocentriche. Lui aveva provato a spiegare agli intransigenti giudici del Sant’Uffizio l’idea di un Dio che parla sia attraverso il “libro della Natura” sia attraverso il “libro della Scrittura”. Niente da fare, non li convinse. Così, la mattina del 22 giugno 1633, il Galilei fu condotto in una sala del convento di Santa Maria sopra Minerva a Roma e condannato al carcere. Pretesero pure che durante la lettura della sentenza si inginocchiasse e, barba a terra, ritrattasse formalmente il suo errore. La condanna prevedeva il carcere in Roma, poi commutatogli in «relegazione o confine al giardino della Trinità dei Monti», cioè presso l’ambasciata del Granduca di Toscana. Ma dopo qualche giorno, giusto per interessamento di Ferdinando II, lo scienziato venne confinato a Siena, in casa dell’Arcivescovo Ascanio Piccolomini.
Ascanio era nato e cresciuto a Firenze, dove il padre aveva svolto funzioni di precettore del figlio del granduca. Proprio agli anni giovanili risaliva la sua conoscenza del Galilei quale insegnante di matematica alla corte granducale. Intrapresa, dopo laureato, la carriera ecclesiastica, era stato nominato arcivescovo di Siena il 31 dicembre del 1628 e vi sarebbe rimasto fino al trasferimento a Roma, avvenuto nel 1671, anno della sua morte. Era persona di cultura, di larghe vedute, nutriva stima e affetto nei confronti del Galilei. Tant’è che cercò di rendergli il più possibile gradevole quel soggiorno coatto da scontare nella città della Vergine.
L’arcivescovo Piccolomini abitava nell’omonimo palazzo detto anche delle Papesse. Galileo vi giunse il 9 luglio del 1633 per restarvi fino a dicembre. La premurosa ospitalità di Ascanio lenì non poco lo scoramento dello scienziato, gli restituì serenità, voglia di studiare e scrivere. In seguito avrebbe confidato all’amico Elia Diodati «[…] in Siena in casa Monsig. Arcivescovo […] composi un trattato di un argomento nuovo, in materia di meccaniche, pieno di molte specolazioni curiose ed utili». Si riferiva ai Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze che sarebbe stato pubblicato a Leida nel 1638.
Una serata indimenticabile a casa Piccolomini fu quella dell’agosto 1633, con la luna che, nitida e vezzosa, sbalzava sul cielo di Siena. Fattosi buio, una congrega di eruditi, docenti e allievi salì le scale arcivescovili per una straordinaria lezione di astronomia. Il Galilei, infatti, si era fatto spedire “l’occhiale” con cui per primo aveva scrutato i corpi celesti, e piazzato il telescopio sull’altana del palazzo poté offrire ai convenuti l’emozione di un incontro ravvicinato con luna e stelle. Faceva parte della compagnia il senese Teofilo Gallaccini, professore di filosofia e medicina, ma che aveva esteso i suoi studi all’astronomia, alla meccanica, alla matematica, all’architettura. Versato pure nel disegno, fissò in alcune tavole le osservazioni della luna guidate da Galileo, così da lasciare testimonianza di quanto la selenica notte avesse rivelato.
Il soggiorno forzoso di Galileo presso l’amico arcivescovo terminò il successivo 19 dicembre, quando l’eretico fu autorizzato a trasferirsi ad Arcetri, in una dependance del convento dove erano monache le figlie Virginia e Livia. Là, in stato di dimora vigilata, sarebbe morto nel 1642 all’età di 78 anni.
Bertolt Brecht, nell’opera teatrale Vita di Galileo, imperniata in buona misura sul processo intentato dall’Inquisizione contro lo scienziato, a un certo punto fa dire a Galilei: «A Siena, quand’ero giovane, una volta vidi alcuni muratori discutere per pochi minuti intorno al modo di spostare dei blocchi di granito: dopodiché, abbandonarono un metodo vecchio di mille anni per adottare una nuova disposizione di funi, più semplice. In quel momento capii che l’evo antico era finito e cominciava la nuova era.»
Rossellana rapita dai pirati
Sempre in via di Città, oltre l’innesto di via del Castoro, al numero 132 sorge Palazzo Marsili con il suo prospetto gotico ideato nel 1444 da Luca di Bartolo Luponi, poi rimaneggiato in epoca ottocentesca. Qui riecheggia una storia degna de Le mille e una notte. La vicenda di Margherita Marsili, la “bella Rossellana”, così chiamata per i suoi capelli rossi.
Eravamo nell’aprile del 1543. Margherita, nemmeno sedicenne, si trovava a Collecchio, nel castello di famiglia situato sulle coste maremmane. Le austere stanze lasciavano entrare il tepore della primavera. La giovinetta, bella e già formata come una donna, guardava dalla finestra il mare incurvarsi sulla linea dell’orizzonte, ma improvvisamente notò l’avvicinarsi di piccole imbarcazioni in tutto uguali a quelle che il babbo Nanni le aveva un giorno indicato come navi dei pirati saraceni, che sempre più di frequente imperversavano sulle coste della Maremma compiendo razzie, devastazioni, rapimenti di ragazzi che venivano venduti come schiavi sui mercati orientali o di fanciulle destinate agli harem dei potenti. Erano capeggiati da Khair-el-Din detto il Barbarossa.
Margherita purtroppo aveva visto giusto. Tanto che tutto accadde in un tempo terribilmente breve. I brutti ceffi già zompavano sulla battigia con chiari intendimenti, e di lì a poco irruppero dentro il castello arraffando quanto potevano e, tra la disperazione dei genitori e dei famigli, trascinando via la giovane Rossellana.
Il Barbarossa si accorse subito che una bellezza come quella di Margherita non era roba da pirati zotici. Meglio ricavarne profitti cedendola al Gran Visir, che per il suo harem cercava fanciulle di pelle chiara e di rare grazie. Così avvenne e la rossa Margherita si ritrovò in Turchia tra le schiave di Solimano II.
Nel giro di una notte la giovane senese pose a se stessa (e risolse subito) un quesito: disperarsi o gestire la situazione al meglio? Optò per la seconda ipotesi, e forte delle proprie doti palesi e nascoste (comunque superiori a quelle delle colleghe di disgrazia) in qualche settimana abbindolò Solimano a tal punto da divenirne la preferita. Ma la ragazza aveva idee chiare e programmi a lungo termine. Così che, considerato come il sultano si fosse bevuto completamente il cervello per lei, ottenne di essere emancipata dalla sua condizione di schiava e di farsi sposare come unica ed esclusiva moglie (in una cultura poligamica un vero e proprio scandalo!). Da quelle nozze nacquero ben cinque figli, e per garantire un futuro alla ‘sua’ figliolanza, l’astuta rossa mise in atto raggiri e azioni persino delittuose, in modo da fare fuori il figliastro Mustafà, prediletto di Solimano che egli aveva avuto da altra donna. Riuscì a mettere contro padre e figlio, fino a far condannare a morte quest’ultimo per tradimento. Selim, il primogenito di Margherita, poté così salire indisturbato sul trono dello sterminato impero ottomano. I suoi fratelli sistemarsi in vari posti di potere.
Pare che Margherita Marsili, provata dalle gravidanze e dallo stress dei suoi perversi disegni, sia morta a soli 37 anni. A Solimano non dette però la soddisfazione di farsi vedere defunta. Lui aveva tolto il disturbo già prima.
Gli esperti di genealogie hanno potuto stabilire che papa Alessandro VII (1599-1667), figlio di Laura Marsili e Fabio Chigi, sarebbe stato il pronipote della sultana Margherita. Gli appassionati di storie incredibili sono disposti a scommettere tutto l’oro di Costantinopoli sulla veridicità della vicenda.
La dama con l’ermellino
Continuiamo per via di Città fino al quadrivio detto dei Quattro Cantoni, dove lo slargo assume il nome di piazza Postierla. Toponimo dovuto probabilmente al fatto che qui, nella cinta muraria duecentesca, si apriva giustappunto una postierla, cioè una di quelle porticine, mimetizzate nelle mura, che le guardie di ronda utilizzavano per raggiungere le loro postazioni o per entrare e uscire in caso di pericolo.
La piazza, un tempo crocicchio delle vie principali del Terzo di Città, divenne zona importante e di prestigio. Non a caso, nei secoli XV e XVI, era consueto luogo di incontro dei nobili. Il 24 aprile 1536 vi fu accolto Carlo V. In tale circostanza venne eretta una grande aquila lignea, simbolo dell’Impero, con la scritta Praesidium libertatis nostrae. L’imperatore gradì molto l’omaggio, tanto da concedere alla contrada dell’Aquila il titolo di nobile. Tutt’oggi l’altero rapace presidia la piazza dalla sommità della fontanini battesimale della contrada, opera dello scultore Bruno Buracchini (1963).
In angolo con via di Città è la severa casa-torre Forteguerri. Racconta una cronaca del 1283 che, a dispetto verso la famiglia degl’Incontri, residenti nella vicina via di Stalloreggi, i Forteguerri avessero fatto costruire il cavalcavia che univa la loro torre al fronteggiante palazzo Borghesi (rifatto nel 1513-14), così da controllare e disturbare il passaggio degli odiati vicini.
Proseguiamo per via di San Pietro. Al numero 29 si trova la Pinacoteca nazionale, che merita una visita a sé per vedere, in una collezione unica, il processo evolutivo della pittura senese dalla fine del XII secolo alla prima metà del XVII. Il Museo si trova nei palazzi Buonsignori e Brigidi. Il primo edificio risale al XV secolo, anche se, a seguito dei restauri ottocenteschi, la facciata assomiglia molto al Palazzo Pubblico. Di edificazione anteriore (XIV secolo) è Palazzo Brigidi, con il quale ci imbattiamo nella leggenda di Pia de’ Tolomei, poiché era questa la residenza di Nello Pannocchieschi, presunto sposo non proprio esemplare di Pia. Nel palazzo esiste una scala a chiocciola, detta “della Pia”.
Ma è tempo di passare a un’altra storia. Lo facciamo percorrendo tutta via San Pietro e, giunti alla Porta all’Arco, voltando in via delle Cerchia (anche in tal caso il nome si riferisce all’antica cerchia muraria del XIII secolo dove venne aperta la Porta all’Arco).
Nella città dei nobili casati, a volte basta un nome per spalancare pagine di storia. Può succedere anche passando da questa strada, dove al numero 5 si trova il palazzo Venturi Gallerani. Stirpe alla quale appartenne anche Cecilia (figlia di Fazio Gallerani e Margherita de’ Busti), colei che fu ritratta da Leonardo nel celebratissimo quadro La dama con l’ermellino. Vediamo, dunque, di ricostruire la vicenda della Gallerani.
La famiglia di Cecilia era emigrata a Milano agli inizi del 1400. Il nonno della fanciulla, Sigerio, giurista e convinto sostenitore del partito ghibellino, aveva dovuto cambiare aria perché quella di Siena gli stava diventando irrespirabile a causa del sempre più diffuso guelfismo. Nella capitale viscontea iniziò l’attività di funzionario pubblico, una carriera poi proseguita dal figlio Bartolomeo. Giusto per le entrature del nipote Bartolomeo, poterono aprirsi anche a Fazio (padre di Cecilia) le porte del palazzo ducale che lo introdussero alla corte di Bianca Maria, l’ormai vedova di Francesco Sforza. Divenuti referenti della corte ducale, i Gallerani si garantirono un buon tenore di vita; almeno fino alla morte di Fazio, che segnò l’inizio di oggettive difficoltà economiche. La madre di Cecilia, donna colta, non trascurò comunque l’istruzione della ragazza, penultima di otto figli, che lasciava intendere notevole attitudine verso gli studi.
Nel 1483, quando la piccola aveva dieci anni, era stato stipulato un accordo matrimoniale tra Cecilia e Stefano Visconti, così da evitarle di finire in convento, destino comune a tutte le ragazze che non avessero trovato marito. Accadde però che il contratto decadde, in quanto la famiglia Gallerani si trovò nell’impossibilità di garantire la dote pattuita.
Passano gli anni, Cecilia ne ha sedici, e visto il perdurare dei problemi finanziari della famiglia, prende carta e penna e deposita a corte una petizione in cui chiede la restituzione delle terre confiscate, già proprietà di suo padre. Nel documento, datato 1489, risulta che la sedicenne non viveva insieme ai fratelli, ma in una casa propria; e che per proseguire gli studi non aveva assolutamente bisogno di rifugiarsi in un convento. Insomma, qualcuno la manteneva, e si sapeva anche chi: le grazie di Cecilia avevano fatto perdere la testa a Ludovico il Moro, uomo buzzurro ma sensibile al fascino femminile. La giovane Gallerani era diventata la sua amante, anche se venivano annunciate ormai prossime le nozze tra il Moro e Beatrice d’Este.
La relazione tra i due è certificata da una esplicita lettera, datata 8 novembre 1490, in cui Giacomo Trotti, ambasciatore estense presso la corte degli Sforza, scrive preoccupato al duca di Ferrara manifestando qualche dubbio sul fatto che il Moro desiderasse avere tra i piedi «la madonna duchessa nostra» (ovvero Beatrice d’Este), poiché il signor Ludovico risultava totalmente perso dietro «quella sua inamorata che ‘l tene in castello et da per tutto dove il va, a la quale il vole tuto il suo bene et è gravida et bella come un fiore». A detta del Trotti, quella infatuazione costituiva per il duca una vera e propria malattia, bastasse vedere come si era ridotto fisicamente.
Per venire, invece, agli aspetti artistici che hanno reso celebre e immortale Cecilia, va ricordato che Leonardo, in quegli anni, si trovava a Milano proprio al servizio di Ludovico il Moro. Aveva appena terminato La Vergine delle rocce, quando il Duca (siamo in quel fatidico 1489) gli commissiona il ritratto di Cecilia Gallerani. Nascerà così ciò che la storia dell’arte definisce il primo ritratto moderno, poiché ha introdotto nella pittura «i moti dell’animo». Nonostante la giovane età, il soggetto mostra uno sguardo consapevole, fiero, intelligente. Il suo ovale è perfetto, gli occhi intensi. L’acconciatura è già quella di una donna (di una dama), così come lo sono l’abito e la collana che indossa. Una luce frontale mette in risalto la spalla e quella bellissima mano (anch’essa adulta, sicura) che sfiora appena l’ermellino, simbolo araldico degli Sforza e (con una buona dose di ipocrisia cortigiana) metafora di purezza e di moderazione. Peraltro, nella lingua greca, ermellino si dice gallé: c’è dunque un’allusione anche al cognome di Cecilia. La luce, dalla fronte e dagli occhi, declina appena verso il naso e le guance per poi ammorbidirsi sulle labbra che sembrano accennare ad un sorriso verso qualcuno che probabilmente la sta osservando.
Del resto il fascino e la personalità di Cecilia Gallerani non erano passati inosservati nella Milano ducale, tanto da essere amica di letterati, artisti, musici. Matteo Bandello le dedicò due novelle ed ella stessa fu apprezzata autrice di componimenti in latino e in lingua. Restò alla corte degli Sforza anche dopo il matrimonio di Ludovico con Beatrice d’Este. Ne fu allontanata al momento che le nacque il figlioletto Cesare, il cui padre era indiscutibilmente il Moro. Ebbe una sorta di buonauscita ricevendo in dono case ed altri beni. Tra questi il palazzo di via Broletto che divenne luogo di ritrovo per letterati e personaggi dell’alta società.
Nel luglio del 1492 Cecilia sposerà il conte Ludovico Carminati. Presso il castello di proprietà del marito, a San Giovanni in Croce (nel Cremonese), continuerà ad essere animatrice di incontri tra artisti, poeti, letterati. Morirà all’età di 63 anni.
Ma, come abbiamo detto, Cecilia è consegnata alla memoria perenne grazie al dipinto di Leonardo. Quel ritratto era già un mito alla fine del Quattrocento: il poeta di corte Bernardo Bellincioni gli dedicò il sonetto Sopra il ritratto di Madonna Cecilia, qual fece Leonardo, in cui si immagina un dialogo tra l’autore e la Natura invidiosa: «Di che ti adiri? A chi invidia hai Natura /
Al Vinci che ha ritratto una tua stella: / Cecilia! sì bellissima oggi è quella / Che a suoi begli occhi el sol par ombra oscura.»
Nel corso dei secoli, La dama con l’ermellino non ha avuto vita facile. Sottoposta a trasferimenti da un posto all’altro (Mantova, Cracovia, Parigi e poi definitivamente Cracovia), continuamente sotto osservazione, persino radiografata, perché – ecco la ragione delle molte attenzioni – sotto lo sfondo scuro che la circonda sembrerebbe esserci un paesaggio simile a quello della Gioconda. E, in tal caso, si sarà trattato di un ripensamento di Leonardo o di un intervento successivo di qualcun altro? Al di là delle supposizioni e delle dispute accademiche, Cecilia continua a starsene lì, in quella misteriosa oscurità da cui fuoriesce tutta la sua magnetica bellezza.
Al termine di questo percorso che ci ha fatto attraversare secoli, storie, vite affatto ordinarie, non possiamo tralasciare di recarci nel nucleo più antico della città di Siena. Lo facciamo ripercorrendo a ritroso via San Pietro, finché, sulla sinistra, non troviamo via di Castelvecchio che conduce a ciò che si ritiene essere il primo insediamento fortificato della città (XI secolo). Era questo il Castellum vetus (Castelvecchio) edificato strategicamente sul colle più alto, protetto da mura e strutturato proprio come una fortificazione a forma quadrata, con torri, un cortile, dei percorsi interni. Quanto ne resta può essere visto se percorriamo la salita e, quindi, il vicolo sulla destra che, attraverso due arconi, conduce a un nucleo di case fortificate raccolte attorno a una corte.
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Testi a cura di Luigi Oliveto
Coordinamento editoriale:
Elisa Boniello e Laura Modafferi
Foto: Archivio Comune di Siena
Grafica: Michela Bracciali