2.9 All’epoca del Risorgimento
Evviva il re
Il nostro itinerario attraverso la Siena risorgimentale inizia da Piazza del Campo, anche in tal caso cuore della città, da sempre teatro dei maggiori avvenimenti, luogo simbolo della passione civica.
Alla metà dell’Ottocento Siena contava poco più di 32.000 abitanti. La città era tutta compresa entro il cerchio delle antiche mura, alle loro porte vigilavano le guardie daziere. Ma non tanto da impedire l’ingresso delle nuove idee che andavano a turbare i sonni di coloro che ritenevano l’Unità d’Italia un mero incidente di percorso, auspicando una pronta restaurazione del Granducato di Toscana e, soprattutto, del potere temporale della Chiesa.
A Siena le idee liberali avevano messo radici. Nel 1830, quando Giuseppe Mazzini aveva visitato la città, erano stati sequestrati diversi fazzoletti tricolori dei quali il governo centrale aveva severamente proibito la diffusione. Aumentavano gli affiliati alla Giovine Italia, tanto che in una preoccupata relazione del delegato governativo veniva segnalato come la maggior parte degli scolari fossero «imbevuti delle moderne massime». Lo stesso Mazzini nell’agosto del ’33 prendeva atto che «il Senese è organizzato da capo a fondo e suscettibile d’essere infiammato a fare». Siena fu, dunque, città patriottica della prima ora.
Non meraviglia, dunque, se dopo la morte di Vittorio Emanuele II (1878) il sindaco Luciano Banchi (fin da giovane fervente sostenitore degli ideali risorgimentali), propose di onorare il primo sovrano italiano dedicandogli uno spazio del Palazzo Pubblico e intitolandogli la Piazza del Campo (che per tutto il periodo monarchico si chiamò piazza Vittorio Emanuele II). Il progetto prevedeva la decorazione pittorica di un’intera sala del palazzo. A coordinarne i lavori venne chiamato Luigi Mussini, anch’esso convinto patriota e autorevole direttore dell’Istituto d’Arte di Siena. Il Mussini ingaggiò i migliori artisti senesi e – se pure con risultati artistici non sempre eccelsi – si ebbe il ciclo di affreschi oggi visibili nella cosiddetta Sala del Risorgimento inaugurata nel 1890.
Avviamoci, quindi, ad entrare in questo spaccato di storia ottocentesca. Ecco la sequenza degli affreschi. L’incontro di Vignale (dipinto da Pietro Aldi): ricorda l’armistizio, firmato il 24 marzo 1849 da Vittorio Emanuele II e dal generale austriaco Radetsky, che pose fine alla prima guerra di indipendenza italiana con l’abdicazione del re di Sardegna Carlo Alberto a favore del figlio Vittorio Emanuele II. La battaglia di Palestro (Amos Cassioli): episodio della II Guerra d’Indipendenza (31 maggio 1859) che vide la ritirata delle truppe austriache consentendo a Napoleone III di manovrare verso Milano. La Battaglia di S. Martino (Cassioli), con la quale il 24 giugno 1859 si concluse la II Guerra d’Indipendenza (nel conseguente trattato di Zurigo, gli Asburgo avrebbero ceduto la Lombardia alla Francia, che l’avrebbe assegnata ai Savoia, mentre l’Austria avrebbe conservato il Veneto insieme alle fortezze di Mantova e Peschiera). L’incontro di Teano (Cassioli) avvenuto il 26 ottobre 1860 tra Vittorio Emanuele II e Giuseppe Garibaldi a conclusione della Spedizione dei Mille. Vittorio Emanuele II riceve il plebiscito dei romani (Cesare Maccari): il 9 ottobre 1870, a pochi giorni dalla presa di Roma, Vittorio Emanuele II ricevette a Firenze (allora capitale d’Italia) il plebiscito dei romani. Il trasporto della salma di Vittorio Emanuele II al Pantheon (Maccari) avvenuto il 17 gennaio 1878. Gli affreschi del soffitto rappresentano L’allegoria dell’Italia libera e le Regioni che componevano il neonato Stato italiano.
Nella sala sono state collocate anche alcune sculture di artisti senesi dell’Ottocento (Giovanni Dupré, Tito Sarrocchi, Enea Becheroni). Su tutte troneggia la Tristitia di Emilio Gallori, presentata all’Esposizione universale di Parigi del 1900, dove venne premiata con medaglia d’oro. Il Gallori, molto attivo a Roma, fu anche l’autore del Monumento a Giuseppe Garibaldi al Gianicolo.
Due vetrine contengono cimeli risorgimentali. Vi è la divisa indossata dal re nella battaglia di San Martino, che lui stesso aveva donato a Luigi Mussini per ringraziarlo di un ritratto eseguitogli. Nella seconda teca è conservata la foto, la camicia rossa e altri oggetti garibaldini appartenuti a Luciano Raveggi (senese nativo di Orbetello) che aveva partecipato alla spedizione dei Mille.
Una questione di colori
Siamo in Piazza del Campo e non possiamo tralasciare le vicende del Palio che in epoca ottocentesca risentirono inevitabilmente degli accadimenti politici. Per ribadire le posizioni che contrapponevano liberali a reazionari furono presi a pretesto persino colori e simboli delle contrade. La contrada dell’Oca, ad esempio, con il suo bianco, rosso e verde, era considerata antilorenese e piena di facinorosi sostenitori dell’unità nazionale. Al loro ingresso sul Campo venivano regolarmente fischiate le bandiere della Tartuca e dell’Aquila, che con i colori giallo e nero (nel caso dell’Aquila anche con lo stemma) richiamavano l’odioso vessillo austriaco. Nel 1847 la Tartuca cercò di trovare una soluzione sostituendo il nero con il bianco ed entrare così nelle simpatie del papa Pio IX. Ma nel 1848, dopo la vittoria degli austriaci nella battaglia di Novara, la bandiera tornò ad essere giallo-nera. Quindi, nuove fischiate in piazza; alla fine, nel 1849, si rassegnò a modificare i colori in giallo e turchino.
Sull’argomento c’è una ricca aneddotica. Si racconta che al palio straordinario del 21 ottobre 1849, cui assistette Leopoldo II, l’alfiere dell’Oca, al termine della sbandierata, avesse fatto un lancio così strepitoso della propria bandiera da costringere il granduca ad alzare prima la testa verso l’alto e quindi a chinarla per seguire il ritorno del drappo in mano all’alfiere. Praticamente – rimarcarono i maligni – era stato obbligato a rivolgere un inchino al tricolore simboleggiato nei colori ocaioli.
Un altro episodio in tema è quello che riferisce Mario Pratesi (scrittore toscano molto legato alla tradizione risorgimentale) quando riferisce della presenza di Massimo D’Azeglio al palio del 4 luglio 1858. A detta di Pratesi l’arrivo del D’Azeglio esaltò tantissimo i liberali senesi. Quasi significasse «l’annuncio che per la dinastia lorenese e per il tedesco era suonata l’ultima ora». Scrive ancora Pratesi: «Dalla restaurazione del ’49 in poi, il Palio, anche presenti le baionette tedesche che guarnivano la piazza repubblicana, serviva come mezzo d’aprire il cuore italiano: era il respiro dell’antica libertà sotto la servitù». In questo clima di grande eccitazione vinse l’Oca, nonostante avesse «un cavallo che soltanto a sbruffarlo bene d’acquavite e ingollarlo d’anguille vive era sperabile di mettergli un po’ di brio nei garetti». Il trionfo bianco rosso e verde infervorò ulteriormente gli animi e al D’Azeglio furono tributati onori come se a vincere fosse stato lui, ovvero le sue idee.
Ci saranno ancora questioni di colori e di emblemi quando Garibaldi, nel 1867, visitò Siena e presenziò al palio. In tal caso i battimani si sprecarono per la comparsa della Torre che richiamava il colore delle camicie garibaldine. Gli alfieri rosso vestiti omaggiarono a più riprese Garibaldi, affacciato alla terrazza del Circolo degli Uniti, e furono ricambiati con ampi gesti di simpatia da parte dell’Eroe dei Due Mondi. Ad infiammare oltremodo i garibaldini fu poi la corsa vinta dalla Lupa, contrada che porta nel suo stemma il simbolo di Roma, alla cui riconquista Garibaldi stava mirando. Il maggiore dei carabinieri, nello stilare la sua relazione, non mancò di annotare i ripetuti applausi rivolti alla bandiera rossa della Torre, nonché il fatto che quella vittoria della Lupa «costò non poco denaro ai retrogradi [così venivano appellati coloro che, di fatto, erano i progressisti], mentre non tornò tanto gradita al partito opposto, che l’alludono al trionfo dei romani». Il giorno successivo Garibaldi ricevette una rappresentanza di contradaioli della Lupa. Al fantino vittorioso donò una propria foto con su scritta la dedica: «A Mario Bernini campione della Lupa vittoriosa, augurio della vittoria di Roma». La foto è conservata nel museo della Contrada insieme al drappellone conquistato in quella Carriera.
Un capitolo a sé meriterebbe il racconto del feeling che caratterizzò il rapporto tra i Savoia e le contrade di Siena. Le cronache d’epoca hanno ampiamente documentato la visita a Siena, nel luglio 1887, di re Umberto e della Regina Margherita. A causa del protrarsi dei lavori parlamentari in cui il re era impegnato, il palio fu spostato dal 2 al 16 luglio, così che i reali avessero potuto assistervi. Fu riservata loro un’entusiastica accoglienza. La regina venne omaggiata di un panforte creato apposta per lei, dal sapore meno piccante del tradizionale pan pepato (quella ricetta avrebbe poi generato il panforte Margherita). Il giorno successivo al Palio, re Umberto e la consorte si recarono a visitare alcune contrade, tra le quali, ovviamente, la bianco-rosso-verde Oca.
I Savoia torneranno a Siena altre volte e la regina Margherita avrà modo di concedere il suo protettorato a diverse contrade. Un legame che si rivelerà determinante per legittimarle dinanzi a certi funzionari statali, come i prefetti, che, invece, non vedevano di buon occhio questi sodalizi che sembravano sfuggire all’autorità costituita. Di tale reciproca simpatia sono testimoni i molti simboli sabaudi, tutt’oggi visibili nelle araldiche delle contrade: rose di Cipro, nodi e margherite, collari dell’Annunziata, le lettere U e M, iniziali dei nomi reali.
Gli studenti patrioti
Da Piazza del Campo, per via dei Rinaldini, raggiungiamo Banchi di Sotto. Subito di fronte, al numero 55, troviamo il palazzo sede del Rettorato dell’Università di Siena. Al centro del cortile è posto il monumento ai Caduti nella battaglia di Curtatone e Montanara.
Nel gergo militare sono chiamate “battaglie di incontro”. Accadono quando due eserciti in manovra si ritrovano l’uno di fronte all’altro e, quindi, sono obbligati a scontrarsi in campo aperto. Questo accadde il 29 maggio 1848, durante la prima guerra d’Indipendenza, a Curtatone e Montanara, in provincia di Mantova, tra gli austriaci e le formazioni di volontari toscani. Quest’ultimi opposero resistenza, consentendo ai piemontesi di organizzarsi per lo scontro che il giorno dopo sarebbe avvenuto a Goito dove l’esercito austriaco venne battuto.
All’epoca la situazione in Toscana era questa. Nonostante il malcontento degli austriaci, il granduca Leopoldo II (sulla scia delle prime concessioni messe in atto da Pio IX nello Stato pontificio) non aveva potuto fare a meno di dare corso alle prime riforme, quali una certa libertà di stampa, l’istituzione di una consulta di stato e di una Guardia Nazionale. Così come non poté impedire la partenza verso la Lombardia di qualche migliaio di uomini per la prima guerra di Indipendenza. Tra costoro anche gruppi di studenti dell’Università di Siena e Pisa. Provenivano dall’Ateneo senese cinquantacinque goliardi e cinque docenti. Due studenti persero la vita e altri due vennero fatti prigionieri. Evento che suscitò emozione e sentimenti restati a lungo vivi nella memoria cittadina, tanto che il 29 maggio 1893, nell’anniversario della battaglia, fu inaugurato il monumento ai Caduti che vediamo nel cortile del Rettorato. Lo realizzò lo scultore Raffaello Romanelli, alla base reca la frase: Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor [«che un giorno, dalle mie ceneri, nasca un vendicatore»]. Sono le parole che, nell’Eneide, pronuncia Didone quando, abbandonata da Enea, si getta nel rogo.
Nell’archivio storico dell’Ateneo (visitabile con ingresso dal cortile del Rettorato) è conservata la bandiera tricolore della Guardia Universitaria Senese: porta sul dritto lo stemma dei Lorena e sul rovescio la scritta Guardia universitaria. Vi è inoltre esposta la divisa indossata nella battaglia dal senese Carlo Corradino Chigi, capo dello Stato Maggiore delle truppe toscane, che a Curtatone e Montanara fu ferito.
A memoria dell’Indipendenza
Usciti dal cortile dell’Università, si prosegue, a destra, lungo Banchi di Sotto, via di Città, fino a trovare, ancora sulla destra, via delle Terme e quindi piazza dell’Indipendenza.
La piazza assunse l’attuale aspetto nel 1887, quando, su progetto di Archimede Vestri, venne eretta la loggia a tre arcate, addossata al palazzo Ballati, la cui torre medievale spunta dal retro della loggia. La piazza acquistò, poi, una sua maggiore caratterizzazione con il Monumento ai Caduti per l’Indipendenza italiana, opera di Tito Sarrocchi, inaugurato il 20 settembre 1879 e posto davanti alle logge che ne solennizzavano ulteriormente la presenza. Fu allora che alla piazza venne dato il nome dell’Indipendenza, sostituendo il vecchio toponimo di piazza San Pellegrino (tale era l’intitolazione della chiesa, demolita, che sorgeva in questo spazio). Nel 1958 il monumento fu impropriamente trasferito nel quartiere di San Prospero (avremo modo di parlarne al termine del nostro percorso).
Sulla piazza si affaccia, inoltre, il Teatro dei Rozzi, costruito nel 1816 su progetto di Alessandro Doveri ed ampliato nel 1874. L’antica Accademia dei Rozzi, fondata nel 1531, era spesso luogo di conviti ogni volta giungessero a Siena ospiti illustri. Fu così anche in occasione del soggiorno senese di Giuseppe Garibaldi, nell’agosto del 1867. La sera del suo arrivo (domenica 11 agosto) venne organizzato ai Rozzi un partecipatissimo banchetto, rimasto celebre nella storia garibaldina per una sorta di messaggio cifrato che risuonò tra i presenti. A porgere il saluto ufficiale era stato il professore Giuseppe Stocchi, il quale, credendo di interpretare il pensiero di Garibaldi, aveva appena detto che «dovevasi andare a Roma quando i tempi fossero maturi». Ma il Generale, ritenendo che i tempi per attuare l’impresa di Roma fossero quanto mai maturi, prese la parola e pronunciò la criptica frase: «muoveremo alla rinfrescata», cioè con la prossima stagione autunnale. Quell’espressione sibillina divenne così parola d’ordine.
Ai Rozzi si imbandirono le mense anche in occasione della visita di Giosuè Carducci, nel 1894. Dalle pagine del Libero Cittadino del 7 giugno 1894 apprendiamo, infatti, che «gli uomini eminenti per grado di cultura, gli ammiratori, i professori dell’ateneo e del liceo di Siena, offrirono al grande poeta un banchetto nella sala del buffet dell’Accademia dei Rozzi».
Le testimonianze del tempo ci informano che «sebbene egli si sentisse già stanco, tuttavia appariva ancor vigoroso e la grande testa leonina si ergeva superba sulle spalle poderose, improntata di austerità fiera come un paesaggio delle alpi Apuane». Il poeta, dunque, non si risparmiò, e ai molti brindisi che lo onorarono «rispose con una di quelle prose scultorie, delle quali lui solo possedeva il segreto di concepire. Rievocò la grandezza di Siena repubblicana, addormentatasi nel fulgor della sua gloriosa capitolazione, come la Walkiria nei bagliori della fiamma, in attesa che il Genio guerriero della patria la risvegliasse al primo fremito di libertà. Accennò al suo felice risveglio avvenuto con la rivendicazione dell’indipendenza nazionale e le sue frasi destarono sì grande entusiasmo che trascinò i convitati ad un’ovazione imponentissima, interminabile».
Dalla finestra dell’Aquila Nera
Sullo scroscio degli applausi al Vate nazionale, abbandoniamo piazza Indipendenza per recarci in via dei Termini. Al numero 19 leggiamo a fatica su una lapide corrosa dal tempo che «qui abitò il colonnello Giuseppe Baldini, senese; dell’immortale Garibaldi nella spedizione dei Mille e in quella dell’Agro Romano, fido e valoroso seguace; dell’Unità d’Italia assertore e propugnatore indefesso, acceso dal patriottismo più puro, onde schivo di ricompense e di onori, morì onestamente povero a Roma il 2 giugno 1893». Il Baldini, nato a Siena nel 1823, era noto col soprannome di Ciaramella. Fu un affiliato alla Giovine Italia, e per le sue idee politiche dovette farsi anche due anni di carcere, dal 1852 al 1854. Successivamente avviò una impresa tessile. Nel 1860 Garibaldi gli affidò il comando del battaglione Cacciatori del Tevere nella presa di Orvieto e Montefiascone. Venne ferito durante un combattimento nell’Agro Romano. L’azienda tessile fallì e il Ciaramella andò a cercare fortuna in Egitto. Dopo sei anni rientrò in Italia, e a Roma terminò i suoi giorni vivendo della modesta pensione di guerra e del lavoro di netturbino.
Nel soggiorno senese, Garibaldi non mancò di fare visita al caro amico Baldini, così come incontrò altri suoi fedeli seguaci. Tra cui la popolana Baldovina Vestri, eccezionale figura di donna, nata in Salicotto, nella contrada della Torre. La Vestri, dopo un matrimonio fallito, si dedicò completamente alla causa garibaldina. In seguito agli scontri di Aspromonte, dove avevano combattuto anche i fratelli Archimede e Ademaro, inviò a Garibaldi una somma di denaro da lei raccolto in sostegno dei feriti. Seguì il suo eroe nell’Agro Romano, e nella battaglia di Mentana si adoperò come vivandiera, infermiera, stalliera, addetta a ricaricare i fucili, barelliera nel recupero di morti e feriti. Le lettere inviatele da Garibaldi sono conservate presso l’Archivio del Comune di Siena. Il fratello Archimede fu l’autore del progetto delle Logge di piazza Indipendenza, che abbiamo citato poco fa.
Da via dei Termini prendiamo per il vicolo di Pier Pettinaio, così da trovarsi in Banchi di Sopra. All’attuale numero 29 vi era l’Albergo Aquila Nera dove prese alloggio Garibaldi durante la sua permanenza in città. Va ricordato che la visita a Siena gli era stata chiesta, congiuntamente, dalla Società Operaia e dalla Fratellanza Militare. Dopo svariate polemiche su dove il Generale dovesse alloggiare, il diretto interessato decise autonomamente per l’Albergo dell’Aquila Nera. Accompagnato dalla figlia Teresita e dal genero Stefano Canzio, giunse la mattina dell’11 agosto, intorno alle dieci, con il primo treno proveniente da Empoli, annunciato dai rintocchi della campana maggiore della città. Grande fu l’accoglienza (anche se di autorità locali non si vide nessuno) con un corteo che, attraverso via Garibaldi (già portava questo nome) accompagnò la carrozza fino all’Aquila Nera dove era schierata una guardia d’onore.
Affacciato a una finestra dell’albergo, Garibaldi arringò il popolo per un buon quarto d’ora: «La Convenzione di settembre deve essere strappata in Campidoglio; si tratta di una questione italiana e solo agli italiani spetta di risolvere; i francesi se ne restino sulla loro Senna; a Roma si andrà con una dinastia italiana e questa solamente ci può ivi condurre». Poi, in un impeto oratorio, esclamò: «O Roma viene all’Italia o l’Italia va a Roma!». Allora qualcuno dalla folla gridò: «Morte ai preti!», ma il Generale placò subito gli animi replicando: «Morte a nessuno». In verità questo aneddoto è riferito anche nelle cronache di visite effettuate in altre parti d’Italia (forse faceva parte del copione). Anni dopo (1882) la Fratellanza Militare non mancò di ricordare sulla pietra (vedasi l’epigrafe sulla facciata dell’edificio) che «Giuseppe Garibaldi interpretando il voto del popolo plaudente esclamava “O Roma viene all’Italia o l’Italia va a Roma”».
Per sempre a cavallo
Avviamoci verso un’ulteriore tappa garibaldina. Percorriamo Banchi di Sopra, l’intera via dei Montanini e, a sinistra, via di Sasso di San Bernardino che porta ai Giardini della Lizza. Qui, un tempo, sorgeva il Teatro Montemaggi dal cui palco Garibaldi tenne un ulteriore discorso al raduno organizzato dalla Fratellanza Militare e dalla Società Operaia. Sul libro dei verbali di quest’ultima, Garibaldi ebbe poi a scrivere: «Io sono fortunato di trovarmi tra voi».
Ma i Giardini della Lizza sono diventati luogo garibaldino soprattutto per il monumento che domina tutta l’area e su cui leggiamo l’essenziale dedica: «A Garibaldi i senesi». L’impresa, comunque, non fu semplice. Infatti, se tempestiva risultò la decisione del Consiglio Comunale nel voler onorare in questo modo l’Eroe (solo cinque giorni dopo la sua morte avvenuta il 2 giugno 1882), non altrettanto celere fu la messa in opera del monumento che il Comune intendeva collocare «nell’arcata centrale del porticato di Piazza indipendenza o in altro luogo». Seguirono anni di discussioni tra Comune, Società di Volontari, Fratellanza Militare su quale potesse essere la migliore collocazione del monumento. Alla fine fu deciso per la Lizza, anche se qualcuno insinuò che la scelta poteva apparire dettata più dall’esigenza di decorare i Giardini pubblici che dalla volontà di onorare Garibaldi.
Nel 1891, a seguito di concorso, venne affidata l’opera allo scultore Raffaello Romanelli (lo stesso autore del monumento ai Caduti di Curtatone e Montanara nell’atrio dell’Università). Fu inaugurato il 20 settembre 1896. L’opera, oltre al fiero Generale a cavallo, richiama, sui lati del basamento, alcune scene e nomi di vittorie garibaldine (Montevideo, Sant’Antonio, Milazzo, Volturno, Varese, Monte Suello, Solferino, Bezzecca, Roma 1849, Aspromonte, Calatafimi, Dijon).
Pure la cerimonia inaugurale ebbe qualche problema. Pioveva. Erano presenti le autorità, i superstiti dei Mille, alcuni rappresentanti delle Logge massoniche, diverse Società di Contrada ma non le Contrade in forma ufficiale, poiché l’Arcivescovo di Siena le aveva invitate a non partecipare all’iniziativa. Per l’occasione si doveva correre anche un Palio, che, per ragioni meteorologiche, venne rinviato al giorno 23. Lo vinse la contrada dell’Istrice, avversaria della Lupa che si era conquistata la vittoria nel palio dell’agosto 1867 a cui aveva assistito Garibaldi. Potremmo dire che il Generale sia stato portafortuna equanime per le due avversarie.
Una donna di nome Italia
Dai Giardini della Lizza (lato viale Maccari) prendiamo viale XXV Aprile per giungere a un’area verde tra via Fruschelli e via Pannilunghi dove alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, fu traslocato il monumento ai Caduti per l’Indipendenza italiana, posto, in origine, al centro di piazza Indipendenza. Come già detto, venne realizzato dallo scultore Tito Sarrocchi nel 1879. Una donna, che raffigura l’Italia, stringe nella mano sinistra lo scettro, mentre con la destra depone una corona sopra un leone ferito e morente disteso ai suoi piedi. Sulla corona è scritto «Ai prodi senesi per me caduti». Ha un’espressione che mostra, allo stesso tempo, dolore e fierezza.Si dice che la modella del Sarrocchi fosse stata una donna senese. Bella e orgogliosa come una di quelle donne che il poeta Francesco Dall’Ongaro immaginò cantare lo stornello: «E lo mio amore se n’è ito a Siena, / portommi il brigidin di due colori: / il candido è la fé che c’incatena, / il rosso è l’allegria de’ nostri cuori. / Ci metterò una foglia di verbena / ch’io stessa alimentai di freschi umori. / E gli dirò che il verde, il rosso e il bianco / gli stanno ben con una spada al fianco, / e gli dirò che il bianco, il verde e il rosso / vuoi dir che Italia il giogo suo l’ha scosso, / e gli dirò che il rosso, il bianco e il verde / è un terno che si gioca e non si perde.»
Ebbene, viene da pensare che quel brigidino tricolore made in Siena sia stato ben gustoso e croccante, considerata la fiamma a cui era stato cotto e la ricetta che lo aveva ispirato. Ciò per dire, fuor di metafora, che il Risorgimento dei Senesi fu, per chi ci credette, vicenda davvero appassionante.
Una produzione: toscanalibri.it
Testi a cura di Luigi Oliveto
Coordinamento editoriale:
Elisa Boniello e Laura Modafferi
Foto: Archivio Comune di Siena
Grafica: Michela Bracciali