4.2 La storia sui Muri: Terzo di Città

(Seconda parte)

In via di Città: il «Maecenas alter» Alessandro Saracini

Il nostro percorso ha inizio nel Campo, da dove, attraversando il chiasso del Bargello, ci spostiamo in via di Città. Qui, accanto all’ingresso del Palazzo Chigi-Saracini, sede della prestigiosa Accademia Musicale Chigiana, si legge questa lunga iscrizione che ricorda la figura di Alessandro Saracini, nato il 5 ottobre 1807 da Galgano e Orsola Bisdomini Cortigiani, discendente di una nobile famiglia aretina. I Saracini erano entrati in possesso del palazzo, il cui nucleo originario era stato costruito dalla famiglia Marescotti tra la fine del XII e i primi del XIII secolo, per poi passare ai Piccolomini-Mandoli nel 1506, grazie al nonno di Alessandro, Marcantonio, che lo aveva acquistato nel 1770. Questi iniziò subito un profondo intervento di ristrutturazione, teso a configurare l’edificio in stile neo-gotico, e lo arricchì di numerose opere d’arte, primo nucleo della celebre Collezione Chigi-Saracini. Il figlio Galgano ebbe il merito di accrescerla notevolmente, impreziosirla con alcuni capolavori della pittura senese del Tre-Quattrocento, tutt’oggi la parte forse più significativa della raccolta, e allestirla secondo un vero e proprio percorso museale all’interno delle stanze di palazzo, che ampliò ulteriormente unendolo ad alcuni fabbricati vicini. Morto Galgano nel 1824, l’ingente patrimonio familiare e la gestione delle cospicue rendite materne, passarono ai figli Marco Antonio e Alessandro, che nel 1848, scomparso prematuramente il fratello maggiore, divenne l’unico e ultimo discendente dell’antico lignaggio. Dal matrimonio con la nobile senese Anna Camaiori, celebrato il 4 ottobre 1835, infatti, non nacquero figli. Alessandro Saracini portò avanti il progetto del nonno e del padre, coltivando la collezione e occupandosi del palazzo, ma intraprese una strada ben diversa. Alcune opere trecentesche furono alienate, ma soprattutto venne alterato l’allestimento delle sale, adeguate al gusto dell’epoca, con tappezzerie a nascondere le decorazioni, pareti arricchite di portiere, finestre addobbate con pesanti tendaggi e stanze arredate da mobilia riecheggiante l’età rinascimentale. Per questa ragione l’epigrafe che accompagna il ritratto di Alessandro, posto sullo scalone del palazzo, lo definisce «Maecenas alter», a ribadire la diversità dal padre nel rapporto con l’arte, meno incline al collezionismo e più alla promozione dei contemporanei, come testimoniano i lavori commissionati a Giovanni Duprè, Tito Sarrocchi, Luigi Mussini, Cesare Maccari, Amos Cassioli, Pietro Aldi. Egli stesso, d’altra parte, fu apprezzato pittore paesaggista e appassionato cultore delle lettere, della musica e delle arti; perciò fu nominato presidente della Società orchestrale e, dal 1841 fino alla morte, Soprintendente dell’Accademia di Belle Arti. 

Più che sui meriti artistico-culturali del Saracini, tuttavia, il testo dell’iscrizione indugia su quelli civici e militari, altrettanto significativi, dato che la lapide fu apposta il 29 maggio 1903 dai veterani senesi delle patrie battaglie, «inneggiando ai gloriosi ideali delle vittrici italiche sorti». Nel 1848 egli fu nominato comandante della Guardia Civica di Siena, con il grado di tenente colonnello, e in tale veste guidò il battaglione cittadino che combatté a Curtatone e Montanara durante la Prima Guerra d’Indipendenza. Insieme agli altri due ufficiali del contingente civico, il capitano Carlo Landi e il tenente Buonaventura Alberti, cadde prigioniero al termine della battaglia e condotto a Theresienstadt, in Boemia, dove arrivò il 26 luglio, dopo quasi due mesi di marcia attraverso Mantova, Verona, il Tirolo e l’Austria, condita da punizioni severe e ogni genere di sacrifici morali e materiali. Fu liberato il 24 agosto, quando sopraggiunse la notizia dell’armistizio firmato il 9 di quel mese dal generale Carlo Canera di Salasco, con cui era stata decisa anche la reciproca restituzione dei catturati, e rientrò a Siena intorno alla metà di ottobre del 1848, meritando la menzione onorevole di Re Carlo Alberto. Numerose altre onorificenze gli vennero conferite dal Granduca di Toscana Leopoldo II (cavaliere di Santo Stefano, di San Giuseppe, e ciambellano del Granduca), così come molte furono le cariche civiche ricoperte, tra cui, in epoca post-unitaria, quelle di membro del Consiglio Provinciale, eletto nel mandamento di Siena II dal 1866 al 1877, di consigliere comunale di Siena e di consigliere comunale di Castelnuovo Berardenga. Alessandro Saracini spirò il 7 agosto 1877 e, in assenza di eredi diretti, lasciò il palazzo, la collezione e il patrimonio di famiglia al nipote Fabio Chigi, figlio di Carlo Corradino e della cognata Violante Camaiori, con l’obbligo di aggiungere al proprio il cognome Saracini. Alla morte di Fabio Chigi-Saracini, gli succedette il nipote Guido (figlio del fratello Antonio), ultimo rampollo del ramo familiare. 

Piazza Jacopo della Quercia: dove il grande scultore senese scolpì i marmi della Fonte Gaia

Poco oltre Palazzo Chigi-Saracini, imbocchiamo a destra via del Castoro e arriviamo a fianco del Duomo, nella piazza intestata al celebre scultore senese Jacopo della Quercia, autore, fra le altre opere, della Madonna della melagrana per il Duomo di Ferrara, del monumento funebre di Ilaria del Carretto per quello di Lucca e della decorazione del portale centrale della basilica di San Petronio a Bologna. Non c’è dubbio, però, che il suo lavoro più conosciuto siano le sculture marmoree collocate ad ornamento della nuova Fonte Gaia nel Campo di Siena, che egli scolpì proprio nel piano di Santa Maria e sotto le volte di quella che  doveva essere la navata destra del cosiddetto “Duomo Nuovo”, l’ambizioso progetto di ampliamento della Cattedrale di Santa Maria Assunta, sfumato dopo la metà del Trecento. Dai primi del XV secolo, infatti, l’Opera del Duomo aveva destinato questo ampio spazio, ormai inutilizzato e in parte coperto, all’attività dei maestri di pietra e di legname. Ragion per cui nel 1938, in occasione del V centenario della morte di Jacopo della Quercia (nato fra il 1371 e il 1374 e deceduto il 20 ottobre 1438), il Comune di Siena decise di intitolare proprio questo spazio all’artista «che qui presso pietre animando per la Fonte Gaia, gettò il ponte di gloria tra Giovanni Pisano e Michelangelo», come recita il testo della lapide dettato dal celebre storico dell’arte Adolfo Venturi (1856-1941).

Già dagli anni trenta del XIV secolo i senesi avevano profuso notevoli sforzi per condurre l’acqua nel Campo, ormai centro civico della Siena medievale. Nonostante la portata fosse più modesta di quella sperata, nell’aprile del 1343 «ordinoro e comincioro a murare una fontana (…) non molto grande», come tenne a precisare il cronista Agnolo di Tura del Grasso, che tra feste e balli fu inaugurata la domenica di Pentecoste dello stesso anno. L’allegria che si respirò quel giorno dovette essere così grande da lasciare una traccia indelebile: quando a dicembre sempre del 1343 il suo custode Figarino fu pagato per averla ripulita, già era chiamata Fonte Gaia come oggi. La vasca della prima fontana doveva essere sopraelevata rispetto al livello della piazza, essendo dotata di scale, e non presentava alcun apparato decorativo, se si eccettua un’immagine mariana, già esistente nel 1394, che nel 1404 fu dipinta, per una spesa di 30 soldi. 

Troppo poco per una fontana dal così elevato significato simbolico, posta nel cuore della città. Per questo il 15 dicembre 1408 gli ufficiali di Balìa e il Capitano del Popolo del Comune di Siena affidarono allo scultore Jacopo della Quercia, reduce dalle imprese ferraresi e lucchesi, ma che non aveva ancora prestato il suo ingegno artistico a favore della città natale, l’incarico di elaborare una nuova fonte in sostituzione della vecchia. Poche settimane dopo, il 22 gennaio 1409, fu stipulato il relativo contratto, nel quale veniva specificato che entro venti mesi, a partire dall’aprile seguente, Jacopo dovesse eseguire «una fonte di marmo in sul Campo di Siena nel proprio luogho là du’ è la fonte al presente, di longhezza di braccia XVI e di larghezza di braccia otto, cho’ le figure, foglame, e marmi», conforme al disegno progettuale che egli stesso, o altri da lui incaricati, doveva presentare pubblicamente nella sala del Consiglio di Palazzo Pubblico. Due parti di questo straordinario documento sono oggi conservate al Victoria and Albert Museum di Londra e al Metropolitan Museum di New York. I venti mesi pattuiti per l’ultimazione dell’opera, tuttavia, si trasformarono in dieci tormentati anni, duranti i quali si succedettero una serie infinita di episodi e difficoltà: già Jacopo era partito a rilento e aveva scolpito pochi marmi quando, tra il 1411 e il 1412, si recò a Lucca per lavorare al Duomo, dove venne invischiato in una vicenda dai contorni ben poco edificanti. A più riprese il Comune senese gli intimò di tornare in città e proseguire i lavori, per i quali aveva già riscosso lauti anticipi di denaro. Successivamente al progetto originario fu apportata una variante: su proposta degli Operai della fonte, il 18 gennaio 1415 il Consiglio Generale deliberò di realizzare «la decta fonte più larga dalla parte dinanzi che di sopra», modifica che l’11 dicembre dell’anno successivo portò alla stipula di un nuovo contratto con Jacopo. Da quel momento le opere procedettero più speditamente, anche se il Comune dovette sollecitare più volte lo scultore, che ogni tanto indugiava a terminare i preziosi, quanto fragili, marmi. Finalmente, un lungo e dettagliato atto notarile del 20 ottobre 1419 prova che la fonte era stata consegnata, per cui Jacopo ricevette il saldo di 2.680 fiorini d’oro senesi. Il parto era stato decisamente travagliato e i tempi di esecuzione si erano dilatati a dismisura. Tanta attesa, però, fu abbondantemente ripagata: la Fonte Gaia scolpita dal maestro, da quel momento significativamente soprannominato “Jacopo della Fonte”, era davvero stupenda e, tra i tanti, ne è fedele testimone lo scrittore e filosofo francese Michel Eyquem de Montaigne, che passando per Siena nel 1580, rimase particolarmente colpito dalla «magnifica fontana che riempie una vasca assai capiente attraverso varie cannelle e nella quale la gente attinge acqua purissima». 

Tuttavia il marmo della Montagnola senese, ben meno consistente di quello di Carrara, abitualmente utilizzato da Jacopo, e per di più esposto agli agenti atmosferici, fu alla base della consunzione delle preziose sculture, che già nel XIX secolo versavano in pessime condizioni. Nel 1844 Gaetano Milanesi e Gaspero Pini lanciarono un accorato appello al Gonfaloniere di Siena, Mario Nerucci, e ai Priori del Magistrato Civico affinché fosse realizzata una «copia in marmo in tutto eguale e somigliantissima» alla Fonte Gaia, idea che venne immediatamente approvata, ma rimase lettera morta per anni. Finché nel 1858 il comitato appositamente nominato non riannodò le fila di quel progetto, affidando allo scultore senese Tito Sarrocchi l’incarico di eseguire le copie perfette dei marmi di Jacopo. Il 24 gennaio 1869 la Fonte Gaia con le nuove sculture venne inaugurata tra il giubilo generale e l’unanime plauso della cittadinanza. Nell’occasione fu anche traslata rispetto alla posizione originaria, di 9,60 metri verso sinistra, per sistemarla in simmetria e centrale rispetto al Palazzo Pubblico, e di 1,60 metri all’interno della piazza per renderla parallela rispetto alla linea degli edifici fronteggianti. Anche l’orientamento fu leggermente modificato. Dopo varie peripezie, più di uno spostamento e il necessario restauro compiuto dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, i marmi originali lavorati da Jacopo sono oggi esposti all’interno del complesso museale di Santa Maria della Scala.   

5 febbraio 1460: la visita di papa Pio II alle maestranze dell’Opera del Duomo 

Con l’interruzione del cantiere del “Duomo Nuovo”, avvenuta nel 1357, le cinque campate rimaste incompiute, prospettanti sull’attuale piazza Jacopo della Quercia, costituirono un eccellente e ampio spazio al coperto dove far lavorare i maestri di pietra (magistri lapidum) e di legname a servizio dell’Opera del Duomo, soprattutto durante la delicata fase del taglio dei materiali. I documenti attestano che l’area in questione ebbe tale destinazione a partire dai primi anni del XV secolo, tanto che lo stesso Jacopo della Quercia avrebbe lavorato qui i marmi per la Fonte Gaia, come detto sopra. Ai primi del Cinquecento tre campate vennero tamponate, in modo da creare un grande edificio chiuso e di notevole altezza, che dal 1869 ospita il Museo dell’Opera del Duomo. Le altre due, invece, rimasero all’aperto, di fronte all’odierno ingresso del complesso museale. E proprio qui, su una parete del “Duomo Nuovo”, trasformata nel Quattrocento nel muro di appoggio di un laboratorio per maestranze, è vergato il ricordo, lasciato da una mano ignota, ma verosimilmente un lapicida dell’Opera Metropolitana, della visita effettuata da papa Pio II il 5 febbraio 1460, secondo il computo oggi corrente (del 1459 nello stile ab incarnatione Domini utilizzato allora, e come scritto dall’anonimo). Vi si legge, infatti: «MCCCCLVIIII adì V di febriaio PPA P II vene i questa butiga». Al di sotto presumibilmente la stessa mano aggiunse anche lo stemma Piccolomini.  

Enea Silvio Piccolomini (Corsignano, odierna Pienza, 1405 – Ancona, 1464) era salito al soglio pontificio il 19 agosto 1458, e dopo pochi mesi, il 24 febbraio 1459, si era fermato a Siena lungo la strada per Mantova,  dove aveva convocato i principi e i potentati dell’Europa cristiana per organizzare la Guerra Santa contro i Turchi. Vi rimase almeno un paio di mesi (se non più, come riportato dal cronista senese Allegretto Allegretti, secondo cui sarebbe partito alla volta della città lombarda il 7 maggio) con l’obiettivo, poi centrato parzialmente, di dirimere le molte questione politico-istituzionali che angustiavano il regime cittadino del momento. Chiusa la complicatissima dieta di Mantova il 14 gennaio 1460, cinque giorni dopo Pio II lasciò la città dei Gonzaga e il 31 gennaio entrò nuovamente in Siena, dove rimase diversi mesi con l’intera corte papale. Pochi giorni dopo il suo arrivo, quindi, Enea Silvio visitò i laboratori dell’Opera Metropolitana, come si legge nella parete del “Duomo Nuovo”. Nei Commentari egli stesso ricorda che celebrò in città le festività pasquali, e subito dopo si recò ai bagni di Macereto e di Petriolo, sempre nello Stato senese, per curarsi un grave attacco di gotta. Rientrò a Roma solo ad ottobre del 1460.

La “rinascita” dell’Aquila, una delle diciassette Contrade di Siena

Da piazza Jacopo della Quercia ci dirigiamo verso via del Capitano e proseguiamo per via San Pietro. Proprio a capo della strada, all’altezza del n. 2, nel 2018 la Nobile Contrada dell’Aquila ha affisso un’iscrizione per ricordare il terzo centenario della sua “rinascita” dopo un lungo periodo di inattività, avvenuta nell’estate del 1718. Fu, all’epoca, un autentico “terremoto”, che squassò il mondo del Palio e delle Contrade di Siena, cambiando per sempre la loro storia. Per tutto il Cinquecento, alle origini dei diciassette rioni in cui si suddivideva la città, la Contrada dell’Aquila era stata una delle più attive, ma dall’inizio del XVII secolo era letteralmente sparita, tanto da non aver mai preso parte alla corsa nel Campo con i cavalli (il Palio alla tonda come lo conosciamo oggi), che ormai dagli anni trenta di quel secolo si era imposta come il gioco preferito dei senesi. Non solo: oltre a non aver mai partecipato al Palio, non convocava il consiglio e le adunanze dei contradaioli, non effettuava la questua nelle strade del proprio territorio per autofinanziarsi, non svolgeva alcuna delle attività civiche che caratterizzavano gli altri rioni. Era una Contrada estinta a tutti gli effetti, e tale la consideravano le confinanti Selva, Pantera, Onda e Tartuca, che ormai da tempo avevano allungato i loro tentacoli sul suo antico territorio. In parte giustificate dalla perdurante inattività, confermata appena un anno prima, rispetto al fatidico 1718: quando il 12 aprile 1717 la neo Governatrice di Siena, la principessa Violante Beatrice di Baviera, aveva fatto il suo solenne ingresso in città, l’Aquila non aveva aderito al cerimoniale d’accoglienza predisposto dall’autorità pubblica, mancando al primo momento di vera legittimazione delle Contrade come parti costitutive della società senese. 

Forse fu proprio questa clamorosa assenza a smuovere le acque, tant’è che in occasione del Palio del 16 agosto 1718 l’Aquila tornò sorprendentemente a riaffacciarsi nell’agone senese. Come era uso all’epoca, ad organizzare a proprie spese quella corsa fu la Contrada dell’Oca, vittoriosa a luglio, che mise in premio 36 talleri e fissò il termine entro cui gli altri rioni potevano iscriversi. L’ultimo giorno utile arrivò il colpo di scena: l’Aquila, per mano del neo eletto capitano, il cavaliere Ascanio Bulgarini, dichiarò di voler partecipare, essendo stata ufficialmente ricostituita. L’atto che ne sanciva la “rinascita” era stato sottoscritto da diciannove persone di varia estrazione sociale abitanti nel territorio della Contrada, in una riunione tenuta il 7 agosto presso la bottega dello speziale Antonio Fancelli in piazza Postierla, dove ancora oggi esiste una storica farmacia. Per questa ragione la targa è stata murata all’ingresso di quest’ultima in via San Pietro. Oltre al Bulgarini in veste di capitano, nel corso dell’adunanza erano stati nominati nobili protettori Francesco Nerucci e Giovanni Antonio Pecci, autentico deus ex machina dell’iniziativa. L’istanza, tuttavia, incontrò la massiccia resistenza dei quattro rioni confinanti, soprattutto della Selva, che presentarono immediatamente ricorso presso il Tribunale di Biccherna. Sostenevano che l’Aquila, dopo un così lungo periodo di inerzia, non poteva più essere considerata una vera Contrada ma era solo un «aggregato» di persone; per tale ragione potevano accampare diritti territoriali ormai acquisiti sulle strade un tempo di sua giurisdizione. Bulgarini, però, per nulla intimidito, comparve di fronte alla Biccherna, dove respinse tutti i rilievi e ribadì il diritto dell’Aquila di partecipare al Palio. Per rinforzare le sue ragioni, produsse una ricca documentazione attestante il passato glorioso della Contrada, per raccogliere la quale fu risolutivo l’apporto del Pecci, noto storico ed erudito. La mole di prove addotte dal Bulgarini convinse i Quattro Provveditori di Biccherna, i quali il 12 Agosto 1718 sentenziarono che l’Aquila doveva essere considerata una Contrada a tutti gli effetti e, in quanto tale, aveva diritto di partecipare a quel Palio e ad altri futuri. Restava da dirimere la questione più scottante, ossia l’effettiva determinazione del suo territorio, che di lì a pochi anni porterà all’entrata in vigore del Bando sopra la nuova divisione, e riforma de’ Confini delle Contrade della Città di Siena approvato da Violante di Baviera il 13 settembre 1729 e promulgato il 7 gennaio dell’anno dopo. Nonostante il diffuso timore di disordini causati dalla querelle, quel Palio d’agosto del 1718 fu corso regolarmente e vinto dalla Chiocciola. 

Presa ormai la decisione e smorzata ogni polemica al riguardo, l’Aquila si iscrisse regolarmente al Palio del 2 luglio 1719, conquistando la sua prima “storica” vittoria grazie al fantino Giuseppe Maria Bartaletti, detto Strega, e al cavallo Vegliantino. L’agognato drappellone fu portato nella chiesa di San Pietro in Castelvecchio, a poca distanza dalla nostra lapide, lungo l’omonima via, il cui parroco Michele Lenzi ricevette 10 scudi «per avere permesso alla Contrada di adunare il Consiglio in detta chiesa». Un premio sospiratissimo, che gli aquilini non pensarono mai di cedere o riutilizzare come spesso capitava allora, e che ancora oggi custodiscono gelosamente nel proprio museo, potendosi vantare di possedere il più antico drappellone originale nella sua integrità.

Un frammento di lapide in via San Pietro con lo stemma dei Piccolomini

Proseguendo per via San Pietro, arriviamo alla chiesa che presta il nome alla strada, proprio a fianco alla quale, in cima alla scalinata tra i n. 33 e 35, si trova un frammento di lapide sovrastato da uno stemma della famiglia Piccolomini (una croce caricata di cinque crescenti di luna). Ciò perché l’epigrafe ricorda con queste semplici parole l’ascesa al soglio pontificio di Enea Silvio Piccolomini, annunciata il 19 agosto 1458, mentre l’incoronazione avvenne la successiva domenica 3 settembre: «Pio Papa II Senese assumpto al sacro pontificato a dì XVIIII d’agosto MCCCCLVIII». Il conclave che portò all’elezione di Enea Silvio si aprì il 16 agosto 1458, dieci giorni dopo la morte di Callisto III (Alfonso Borgia). Il favorito sembrava essere il cardinale Guillaume d’Estouteville, arcivescovo metropolita di Rouen, che capeggiava la fazione filo-francese. Proprio questo elemento, tuttavia, convinse i principali Stati e signori italiani ad allearsi per scongiurare il rischio di eleggere un papa transalpino, nel fondato timore, riacceso dalla vittoria nella Guerra dei Cento Anni, che potesse risvegliarsi l’interesse di Re Carlo VII nei confronti della politica italiana. Dopo una riunione clandestina fra quasi tutti i cardinali italiani, convocata nottetempo dal veneziano Pietro Barbo (futuro papa Paolo II) nei gabinetti del conclave, perciò detta “congiura delle latrine”, si formò la maggioranza che il 19 agosto consentì l’elezione del senese. Piccolomini ottenne nove voti, mentre d’Estouteville solo sei. Venne aperta, così, l’abituale procedura dell’accessus, che garantì ad Enea Silvio prima l’assenso di Rodrigo Borgia e poi quello di Giacomo Tebaldi, che modificarono i loro voti iniziali. A quel punto ne bastava solo un altro per eleggere il senese con la maggioranza dei due terzi, e fu Prospero Colonna, l’unico cardinale italiano favorevole al d’Estouteville, a cambiare idea gridando «anche io voto per il cardinal di Siena e lo elevo a papa». Ai residui seguaci del francese non restò che modificare la preferenza a vantaggio del Piccolomini, che fu eletto papa all’unanimità.

Il motivo per cui la lapide e l’arme Piccolomini furono murate sulla facciata di questo piccolo edificio posto tra la chiesa di San Pietro e il Palazzo Bichi-Brigidi-Buonsignori, oggi sede della Pinacoteca Nazionale di Siena, è legato alla permanenza in città di Pio II e della corte papale nel 1460, dopo la Dieta mantovana indetta per organizzare la Crociata contro gli infedeli. Mentre il papa fu ospitato nel Palazzo Vescovile, gli altri cardinali e dignitari del seguito trovarono sistemazione in sedi ecclesiastiche, quali i conventi di Santa Maria dei Servi, Sant’Agostino, San Domenico e San Francesco, oppure in residenze magnatizie messe a disposizione dalle famiglie proprietarie. Come si evince dai documenti del Concistoro risalenti al 1460, il cardinale Rodrigo Borgia, vice-Cancelliere del pontefice nonché egli stesso papa dal 1492 al 1503 con il nome di Alessandro VI, prese alloggio proprio nel palazzo in via San Pietro, all’epoca di proprietà della famiglia Tegliacci. Egli vi aveva già abitato durante il passaggio a Siena dell’anno precedente, salendo verso Mantova, e con evidente gradimento, visto che scrisse una lettera a Luigi Tegliacci chiedendo nuovamente ospitalità. Particolarmente onorato, lo stesso proprietario fece affiggere la lapide, corredata dallo stemma Piccolomini, a ricordo del lieto evento. Da segnalare, tra gli altri illustri cardinali alloggiati a Siena in quei mesi, che Juan de Torquemada soggiornò a Palazzo Pecci in via del Capitano, Pietro Barbo nella dimora di Tommaso Luti in via del Porrione, Prospero Colonna presso l’Abbadia di San Donato e Guillaume d’Estouteville nel convento di Sant’Agostino.      

L’attività di meretricio bandita dalle strade della Tartuca

Procedendo per via San Pietro, sulla destra essa riceve la via di Castelvecchio, in ripida discesa. Proprio a capo di questa strada è murata una targa in cui si ricorda quanto prescritto da un bando degli Esecutori di Gabella del 12 agosto 1704, ossia che «nissuna meretrice ben che maritata descritta o non descritta puol habitare in questa strada sotto pena di scudi dieci». Scendendo qualche metro, sempre sulla destra, via San Pietro si incrocia con via Tommaso Pendola, e anche a capo di quest’ultima si nota una iscrizione simile alla precedente, ma stavolta sovrastata da uno stemma Medici. Essa riporta quanto ordinato in un bando del 17 settembre 1689 dagli Esecutori di Gabella, che tra i loro compiti avevano anche quello di riscuotere le tasse sull’esercizio della prostituzione, ossia «che in questa strada e nelle case che corrispondono in essa con porte non abitino meretrici e donne di mala vita ancorché maritate sotto la pena di scudi dieci». Nel giro di pochi anni, dunque, le donne di piacere vennero bandite dalle due strade principali della Contrada della Tartuca, coincidenza che fa supporre un intervento diretto della medesima. Anche perché sin dagli Statuti comunali di primo Trecento esistevano norme che proibivano l’esercizio della prostituzione in prossimità dei complessi religiosi, con una distanza variabile fra le duecento braccia (più di cento metri) o, più spesso, cento braccia (più di cinquanta metri), e giusto nel 1685 la Tartuca aveva consacrato e aperto al culto il proprio oratorio, dedicato a Sant’Antonio da Padova, che si ubicava a metà di via delle Murella (l’odierna via Tommaso Pendola). 

La zona di Castelvecchio dovette essere abitata da meretrici sin dall’età medievale, e d’altronde il dedalo di stradine, corti e vicoli che la caratterizza, unita ad una certa marginalità dal centro urbano, la rendeva assai appetibile per tale attività. Non a caso nell’elenco dei luoghi dove queste dovevano avere «ricetto», stilato nel maggio del 1620 dagli Esecutori di Gabella, compare anche il Castelvecchio, insieme al vicolo degli Orbachi e alla via di Salicotto con le stradine adiacenti, come il vicolo del Vannello e di Coda. Non sfuggirà al lettore più attento che il criterio adottato per l’individuazione di questi luoghi era quello di mantenere un postribolo “pubblico” per ognuno dei Terzi in cui si dipartiva il territorio urbano, come succedeva sin dal Trecento, quando questi si dislocavano in Vallepiatta (Terzo di Città), presso la porta di Campansi (Terzo di Camollia) e nella Val di Montone (Terzo di San Martino). Da dove, peraltro, fu spostato nel 1415, probabilmente nel limitrofo rione di Salicotto, perché «e’ giovani non vi vanno per vergogna di essere veduti», trovandosi «dietro il palazo» del Comune. La presenza delle meretrici, tuttavia, era invisa a buona parte dei residenti, portando con sé disordine e caos, oltre ad offendere la morale comune, i quali, a partire dal primo Seicento, investirono del problema le Contrade, ormai cristallizzate nel territorio di competenza. A premere sulla pubblica autorità, affinché allontanasse le prostitute dal proprio rione, iniziò l’Onda nel 1613, ma suppliche in tal senso vennero avanzate anche dalla Torre, dal Bruco (1663) e dalla Giraffa. Talora ottennero gli effetti sperati, riuscendo quantomeno a trasferirle dalla via principale, ma più spesso si trattò di una guerra persa in partenza. Nonostante i bandi e le rivolte popolari, infatti, la maggior parte dei postriboli sopravvisse, compreso quello, ben noto, in via di Castelvecchio, resistendo fino alle chiusure forzate del secondo dopoguerra.

L’itinerario non è finito!
Scopri le altre tappe nella versione cartacea che puoi trovare all’Ufficio Informazioni in Piazza del Campo, 7 

Testi a cura di Roberto Cresti

I Comuni di Terre di Siena