4.5 La storia sui muri: Terzo di Camollia

(Prima parte)

Il fortino di Baldassarre Peruzzi e l’ardore delle donne senesi

Il nostro percorso prende le mosse da porta Camollia, non prima, però, di essersi spostati un centinaio di metri dalla medesima, lungo via Biagio di Montluc, dove sorgono ancora i resti del cosiddetto “Fortino delle Donne senesi”, progettato dall’architetto e pittore Baldassarre Peruzzi nel 1527 e terminato non prima del 1529. Sulla parete della struttura, nel 1928 la “Società degli Amici dei Monumenti”, fondata nel 1902 e a lungo presieduta dall’allora podestà Fabio Bargagli Petrucci, appose questa lapide a perpetua memoria delle «eroiche donne senesi» che «da questo fortino […] difesero nel glorioso assedio la patria libertà», con riferimento alla “Guerra di Siena” del 1554-55.

Il Peruzzi, che si era trasferito a Roma da oltre venti anni, venne fatto prigioniero e depredato di tutti i suoi averi durante il sacco del 1527, perpetrato dalle truppe spagnole e dai lanzichenecchi tedeschi. Non solo, come scrive Giorgio Vasari nelle Vite, «fu anco molto straziato e tormentato, perché avendo egli l’aspetto grave, nobile, e grazioso, lo credevano qualche gran prelato travestito o altro uomo atto a pagare una grossissima taglia». Riuscì a riguadagnare la libertà grazie ad un ritratto postumo di Carlo di Borbone, il capo delle truppe imperiali che era stato ucciso durante l’assedio, ma anche all’intervento del governo di Siena, il quale, tramite gli ambasciatori Girolamo Massaini e Filippo Sergardi, pagò un pegno di 50 scudi alle truppe spagnole. L’interesse nei confronti di un concittadino ormai così celebre nel campo dell’architettura, era motivato soprattutto dalla necessità di potenziare l’antico sistema difensivo della città, messo a dura prova e dimostratosi inadeguato di fronte al fuoco d’artiglieria delle truppe fiorentine e pontificie nella battaglia di Camollia del 25 luglio 1526, che pure vide i senesi respingere l’assedio e sconfiggere i nemici. Pagato il riscatto, Baldassarre poté lasciare Roma per far rientro nella città natale, ma le disavventure non erano ancora finite. Giunto nei pressi di Porto Ercole fu nuovamente derubato da alcuni briganti, e solo alla fine di giugno arrivò finalmente a Siena con indosso la sola camicia, come racconta ancora Vasari. Già il 10 luglio, a seguito di una petizione pubblica, Peruzzi fu nominato contemporaneamente “Architetto della Repubblica” e “Architetto dell’Opera del Duomo” con una remunerazione «di quel tanto che al Consiglio parrà», stimata il mese successivo in 5 scudi al mese, cioè 60 all’anno. L’incarico formale di sovrintendere al potenziamento del sistema difensivo della città gli fu conferito il successivo 17 settembre. Baldassarre implementò la cinta muraria con otto “torrazzi” (baluardi), tra cui anche il “Fortino delle Donne”. La fortificazione fu progettata con una forma cuneiforme che la rendeva un’autentica macchina da guerra particolarmente attrezzata per il fuoco di fucileria. Per quanto si può evincere dai ruderi superstiti, si presentava a due piani, con una duplice faccia anteriore e una coppia di fianchi dritti e rivolti verso la cinta muraria soprastante, dalla quale era autonoma. La potenza offensiva del fortino raggiungeva un totale di venti bocche da fuoco per la difesa frontale e otto cannoniere nei lati corti. Per quanto si può arguire dalla veduta di Siena elaborata da Francesco Vanni nel 1595-97, era “a cavaliere”, cioè aperto in alto e munito di piattaforma. Anche i recenti restauri hanno evidenziato l’assenza di un ingresso al baluardo, verosimilmente assicurato da gallerie sotterranee che lo collegavano direttamente con la città, passando sotto le mura. Oggi del fortino rimangono solo alcuni resti. È impossibile stabilire se i danni furono inferti dai cannoneggiamenti subiti durante la “Guerra di Siena”, se dopo l’assedio furono gli stessi fiorentini a demolire parzialmente la casamatta, oppure se lo stato di rudere dipenda dal suo secolare abbandono. Il fatto che nei resoconti dell’assedio non si parli mai di cedimenti o cannoneggiamenti nei suoi confronti, e che nel disegno del Vanni s’intraveda ancora in buone condizioni, fa optare per la terza ipotesi.

La popolare denominazione del baluardo peruzziano rievoca il fatto che le donne senesi, di qualunque ceto sociale o età, contribuirono in modo rilevante alla difesa della città durante le angoscianti fasi dell’assedio condotto dalle truppe fiorentine e spagnole nel 1554-55. A riportarlo sono vari autori, come Alessandro Sozzini, nel Diario delle Cose avvenute in Siena dal 20 luglio 1550 al 28 giugno 1555, o Giovanni Antonio Pecci, nel quarto volume delle Memorie storiche-critiche della Città di Siena (1755), ma soprattutto Blaise de Monluc, l’ufficiale francese nominato governatore della città proprio nel 1554. Nel terzo libro delle sue memorie, pubblicate postume nel 1592 con il titolo di Commentaires, e tradotte in italiano nel 1630 da Vincenzo di Bonaccorso Pitti, il comandante transalpino tesse le lodi delle donne senesi, raccontando che non appena fu presa la decisione di opporre resistenza agli assedianti, «tutte le Matrone di Siena si scompartirono in tre schiere» in modo da aiutare gli uomini, per quanto loro possibile, in tutte le necessità del momento, compresa la realizzazione di «Terrapieni, e i Bastioni» come riporta il Pecci. Tornando alle parole del Monluc, si scopre che la prima schiera era capitanata dalla signora Lamia Forteguerri, vestita di viola («pagonazzo»), mentre coloro che la seguivano indossavano un abito «a guisa di Ninfe succinto, e mostrando gli stivaletti», la seconda era guidata da Fausta Piccolomini con abiti di seta rosa («ermisino incarnato»), e l’ultima, con a capo la signora Livia Fausti, vestiva completamente di bianco. Complessivamente le donne così inquadrate erano ben 3.000, fra «Matrone Gentildonne e Cittadine», armate di “Marretti, pale, Corbelli e Fascine, e con simili arnesi fecero la loro rassegna, e andarono a cominciare le Fortificazioni». Secondo quanto riportato da Ascanio Centorio nelle sue Guerre d’Europa, l’esercito composto dalle donne senesi uscì in mostra il 17 gennaio 1553, e ognuna delle tre insegne aveva un proprio motto: in quella della Forteguerri si leggeva «pur che sia vero», in quella della Piccolomini, di colore rosso, «pur che non la butto», mentre nell’insegna della Fausti, bianca con un ramo d’olivo, campeggiava la frase «pur ch’io l’abbia». Monluc ricorda che all’epoca dei fatti non era ancora a Siena (vi arriverà, infatti, il 6 luglio 1554), e a raccontargli più volte questi eventi era stato il maresciallo di Termes, il quale «asseriva di non aver mai veduto in sua vita cosa più bella». Le donne avevano composto anche una canzone in onore della Francia, che intonavano «nell’andare alle loro Fortificazioni». Forse proprio questa frase può aver indotto, in tempi a noi più vicini, ad associare la casamatta nei pressi di porta Camollia alle donne senesi, che asserragliate al suo interno avrebbero coraggiosamente contribuito alla difesa della città. La circostanza, infatti, non viene esplicitamente narrata né dal Monluc né da altre fonti, senza contare che, come abbiamo visto, questa fortificazione non fu eretta nel 1553, ma circa venticinque anni prima.

La stessa denominazione di “Fortino delle Donne senesi” è piuttosto recente e non compare in alcun documento antico, ma solo nella lapide del 1928. A conferma di ciò, in una pianta delle fortificazioni di Camollia rilevata dall’architetto militare Francesco Laparelli poco dopo l’assedio, esso viene chiamato semplicemente «casamatta», e una mappa dei primi dell’Ottocento lo identifica ancora con la significativa dicitura di «rovine della castellaccia». Tali considerazioni, tuttavia, nulla tolgono al valore dimostrato dalle donne senesi nei lunghi mesi di assedio, anzi è ancora il Monluc a menzionare un altro episodio assai significativo al riguardo. Appena assunse il comando dell’esercito cittadino nel luglio del 1554, impartì l’ordine perentorio che nessuno saltasse la guardia nel posto e nell’ora prestabiliti. Ad un certo punto, però, un uomo rimase «impedito» e così la sorella, che doveva essere molto giovane, essendo definita una «fanciulla», lo sostituì infilandosi i suoi vestiti e brandendone l’alabarda. Il giorno dopo, a sentinella ormai terminata, la verità venne a galla, e così la ragazzina «fù rimenata a casa con molto onore», tanto da venir presentata allo stesso Monluc. Non c’è dubbio, dunque, che l’ardore dimostrato dai senesi durante l’assedio destò l’ammirazione del maresciallo francese, ma furono soprattutto le donne a colpirlo. Dopo la “Guerra di Siena” fu spedito a Roma, assediata dalle truppe del Duca di Alba, e paragonando le due esperienze ebbe a scrivere: «voglio dire, che io più mi rincorerei sempre di salvar Siena, senza avere altro meco per combattere, che le Donne Sanesi, che difender Roma, co’ Romani, che ci sono». A giudizio di Blaise de Monluc, insomma, in guerra erano state più affidabili le donne senesi degli uomini capitolini.

«Cor magis tibi Sena pandit»: Siena ti apre il cuore ancor più di questa porta

Risaliamo fino a porta Camollia, intorno al cui portale seicentesco in travertino si legge il celeberrimo motto «Cor magis tibi Sena pandit», ossia “Siena ti apre di più il cuore” di quanto già non faccia questa monumentale porta.

Di una “Porta di Camullia” parla già un documento del giugno del 1082. Essa doveva far parte di una struttura fortificata che difendeva un antico nucleo abitativo, originariamente autonomo dalla civitas di Siena, sviluppatosi lungo la via Francigena e denominato sin dai primi del secolo XI “borgo di Camollia”. Nel corso del XII secolo esso divenne sempre più popoloso, ragion per cui il Comune di Siena decise di assorbirlo all’interno di una nuova cerchia muraria, terminata nella seconda metà del secolo, che ebbe il suo limite settentrionale proprio in corrispondenza della porta Camollia. Di come fosse la sua struttura in età medievale restano soltanto testimonianze iconografiche, come la copertina di Gabella raffigurante la battaglia di Camollia del 1526, opera di Giovanni di Lorenzo Cini. Qui si distingue nitidamente la porta, dotata di antemurale, con gli stemmi della Balzana e del Popolo di Siena ai due lati dell’arco, e la lupa che allatta i gemelli, sorretta da una mensola, sul lato sinistro del medesimo. Quasi completamente distrutta dai cannoneggiamenti subiti nell’assedio del 1554-55, alla fine del XVI secolo Vanni la rappresenta chiusa, diroccata nella parte alta e con alcuni elementi strutturali, probabilmente travi o piloni, che ne ostruiscano l’ingresso, tanto che per entrare in città era stata praticata un’apertura provvisoria sulla destra della porta, le cui tracce sono ancora oggi visibili. Porta Camollia fu ricostruita nella foggia attuale ai primi del Seicento, come provano sia l’epigrafe «A. D. MDCIIII» posta in alto sul fronte interno, che indica il 1604 come probabile anno di esecuzione, sia la lapide dedicatoria dalla parte esterna, sotto l’apparato decorativo che sormonta l’arco, inneggiante al terzo Granduca di Toscana, Ferdinando I: «Ferdinando Med(ices) Mag(no) Duci Etr(uriae) III. S(enatus) P(opulus) Q(ue) S(enensis)». Fu proprio lui, in effetti, a concedere il consenso definitivo al progetto di riedificazione della nuova porta Camollia, che doveva essere pronto da qualche tempo. Il 18 giugno 1603 i «Deputati di Balìa sopra le Strade Ponti et argini dello Stato di Siena» pregarono il Provveditore, che il 24 giugno si sarebbe recato a Firenze in occasione della festività di San Giovanni Battista, di chiedere al Granduca, verosimilmente per l’ennesima volta, il permesso di riaprire la «porta vecchia di Camullia», senza peraltro chiudere quella allora in uso. Ferdinando I acconsentì, tanto che un anno dopo i lavori erano già terminati. Il progetto viene unanimemente attribuito al pittore senese Alessandro Casolani, mentre gli apparati scultorei in travertino sarebbero opera dello scultore fiorentino, ma operante stabilmente a Siena, Domenico Cafaggi detto Capo. Lo schema compositivo, dall’evidente sapore ideologico e propagandistico, mostra con grande enfasi i segni del nuovo regime mediceo della città: sopra la dedica al Granduca in carica, due figure allegoriche con elmo e lorica, sedute in contrapposto, hanno gli avambracci appoggiati su un grande stemma dei Medici sormontato da una corona metallica, mentre di misura più ridotta sono i sottostanti emblemi della tradizione senese, la Balzana, alla destra del fornice, e il Leone del Popolo, a sinistra. Il gruppo statuario è accostabile a quello presente nella facciata del Palazzo dei Cavalieri a Pisa (1564), ma anche alle due coppie di nudi virili, che sorreggono sempre una arme dei Medici, ancora presenti sui bastioni nord orientali della Fortezza medicea (in un caso figure erculee munite di clava, nell’altro dei Davidi). In effetti, da quanto sembra di evincere dal sopracitato documento del 1603, anche l’impianto ornamentale della porta Camollia era stato predisposto per il nuovo ingresso alla Fortezza, salvo essere adattato nella collocazione odierna una volta saltato quel progetto.

Riguardo al motto «Cor magis tibi Sena pandit» scolpito intorno all’arco esterno, secondo una ben radicata tradizione si tratterebbe di un omaggio che i senesi vollero rivolgere al Granduca Ferdinando, venuto in città nel 1604 proprio per l’inaugurazione della porta Camollia. In realtà il sovrano giunse in visita a Siena il 29 maggio 1602, ben due anni prima che fosse costruita la nuova porta, e non risulta che sia tornato nel 1604. In quell’occasione fu raggiunto qualche giorno dopo anche dalla consorte Cristina di Lorena, e la coppia rimase a Siena per diversi giorni, calorosamente accolti e occupandosi di diverse incombenze. Alla luce di ciò l’iscrizione alla porta può essere più verosimilmente interpretata come un’espressione di sincera accoglienza e gentile benvenuto riservato a tutti coloro che fossero giunti in città da nord, e non come un atto di servilismo politico verso i Medici. Sembrano avallare questa ipotesi il fatto che l’epigrafe sia incisa in caratteri capitali e di ampio modulo, dunque agevolmente leggibile anche a distanza, e che riecheggi un altro ben noto motto di origine latina, «Ianua patet Cor magis», diffusosi in età medievale, soprattutto oltralpe, anche come «Porta patet Cor magis».

L’itinerario non è finito!
Scopri le altre tappe nella versione cartacea che puoi trovare all’Ufficio Informazioni in Piazza del Campo, 7 

Testi a cura di Roberto Cresti

I Comuni di Terre di Siena