4.6 La storia sui muri: Terzo di Camollia

(seconda parte)

Partenza piazza Indipendenza, via di Diacceto, via della Galluzza, via Santa Caterina (lapide visita Umberto e Margherita), Fontebranda (lapidi interne alla fonte), vicolo dei Tiratoio, costa di Sant’Antonio, via della Sapienza (lapidi Pietro Leopoldo e Ferdinando III su biblioteca), Costa dell’Incrociata (lapide Arturo Pannilunghi), Banchi di sopra, via dei Rossi (lapide beata Taigi), piazza San Francesco (lapide sotto l’arco), via dei Baroncelli (lapide sotto il portico della Madonna del Fosso), via delle Vergini (lapide fontino di Provenzano), vicolo del Fontino (lapide), via Provenzano Salvani (lapide).     

Introduzione: 

Se ne stanno appollaiate sulle facciate dei palazzi o su impensabili angoli di muro; talora negate alla luce del sole, o magari sotto gli occhi di tutti; qualche volta poste così in alto da impedirne la lettura, altre ben visibili, eppure quasi non viste da nessuno. Sono lapidi, targhe, epigrafi che, spaziando nel tempo, dai secoli del Medioevo fino a poche settimane fa, raccontano pagine di storia pubblica della città e vicende della vita di personaggi, senesi e non, notissimi o pressoché sconosciuti. Pagine di storia spesso decifrabili, ma non di rado oscure e tutte da scrivere. Anche perché, a dispetto dell’apparenza, poche cose sono più mobili delle lapidi, le quali possono essere smurate dalla sede originale e ricomposte in un’altra del tutto estranea, che impedisce di comprenderne il messaggio. Le conosceremo un po’ meglio se vorrete percorrere insieme a noi questi nove itinerari alla scoperta di lapidi e iscrizioni ubicate nelle strade, piazze e vicoli di Siena. Il sesto percorso si dipana per le strade del Terzo di Camollia, con partenza da piazza Indipendenza, a due passi dal Campo, e conclusione presso l’Insigne Collegiata di Santa Maria in Provenzano, attraversando alcuni dei rioni più popolari della città, ossia quelli di Fontebranda, di Ovile e, appunto, di Provenzano.

Umberto e Margherita di Savoia in visita al santuario di Santa Caterina

Partiamo da piazza Indipendenza e imbocchiamo via di Diacceto, accanto al Teatro dei Rozzi, a metà della quale si svolta a destra per la caratteristica via della Galluzza. Giunti al termine della stessa si prende a sinistra via Santa Caterina e dopo qualche passo arriveremo di fronte alla chiesa di Santa Caterina in Fontebranda, oratorio della Nobile Contrada dell’Oca. Proprio a fianco dell’ingresso alla sua sede storica, nel 1888 la «Sedia» della Contrada fece murare una grande lapide a perpetua memoria della visita al santuario cateriniano compiuta il 17 luglio 1887 dal Re d’Italia Umberto I di Savoia e dalla Regina Margherita. 

La coppia reale era giunta in città il giorno precedente, accompagnata dal Presidente del Consiglio Francesco Crispi e da altri ospiti, dove sarebbe rimasta per tre giorni, fino al 18 luglio. Sin dal loro arrivo alla stazione ferroviaria, all’epoca ubicata in viale Mazzini, aveva ricevuto un’accoglienza calorosa da parte dei senesi. L’intero tragitto percorso in carrozza da qui fino al Palazzo della Prefettura in piazza del Duomo, dove era previsto il loro soggiorno, era adornato di fiori, pennoni, arazzi, ed era stracolmo di gente esultante e a stento trattenuta dalle forze dell’ordine. Dopo aver trascorso il primo pomeriggio a visitare il Duomo, i sovrani si recarono al Circolo degli Uniti per assistere al Palio, che era stato posticipato, rispetto alla data canonica del 2 luglio, in modo da permettere loro di potervi presenziare. A vincerlo fu la Contrada della Giraffa, con il fantino Genesio Sampieri, detto il Moro, sulla cavalla Farfallina, che fu premiato da Umberto con una mancia di 200 lire. Entrambi rimasero ammirati dall’intero apparato della festa, soprattutto Margherita che, secondo le cronache dell’epoca, al termine della corsa avrebbe sussurrato queste parole rivolta alla dama d’onore marchesa Paola Pes di Villamarina: «Oh Marchesa, pare di svegliarsi da un sogno e di aver vissuto un giorno in un’altra età», definendo poi il Palio «la visione di un poema ariostesco fatto realtà». Decisamente più “istituzionale” fu il programma delle altre due giornate senesi, che la mattina di domenica 17 luglio, dedicata alla visita dei luoghi principali della città, prese inizio alle ore otto proprio con il santuario di Santa Caterina. Da giorni il governatore dell’Oca Carlo Alberto Cambi aveva fatto affiggere nelle strade del rione dei manifesti per avvertire i contradaioli dell’arrivo dei sovrani, che dovevano essere accolti con ogni onore. In effetti al loro sopraggiungere da via delle Terme, accompagnati da Crispi, ad attenderli in cima a via Santa Caterina (che all’epoca si chiamava via Benincasa, come ricorda anche la lapide) trovarono la comparsa dell’Oca e il governatore, il quale aveva in mano un cuscino di velluto con la quattrocentesca chiave della casa cateriniana. Essa è oggi conservata nel museo della Contrada con una pergamena che ricorda l’episodio. Il corteo scese verso il santuario passando sopra un lungo tappeto rosso, che copriva l’intero tragitto da percorrere a piedi. Ai lati del medesimo era stipata una folla di gente plaudente, e l’intera via era adornata da un arco e dalla bandiere dell’Oca, come racconta dettagliatamente il resoconto de Il Libero Cittadino del 19 luglio 1887. Mentre Umberto chiedeva spiegazioni e conversava con il governatore, Margherita, «con quel suo speciale sorriso aveva un saluto per tutti, si volgeva alle finestre, tutte tappezzate, imbandierate e gremite di popolane, ringraziando col capo e con la pezzola». Giunti all’ingresso dell’oratorio, ad attenderli trovarono due bimbi, Messalina e Duilio Bani, tra di loro cugini, che donarono ai sovrani dei mazzi di fiori. «La Regina visto quell’amore di bambino, che graziosamente le porgeva i fiori, si chinò, lo sollevò e gli diede un bacio. La folla che circondava le LL. MM. proruppe allora in un entusiastico applauso serrandosi più presso ai Sovrani». Duilio Bani, che all’epoca aveva sei anni, essendo nato il 21 marzo 1881 proprio in via Santa Caterina, presi i voti e diventato sacerdote (la sua prima messa fu celebrata nel 1906), oltre ad essere stato uno dei personaggi più popolari della Siena del Novecento, ricoprì per anni le cariche di cancelliere, correttore, conservatore dei tesori e poi custode dell’Oca, da lui amata visceralmente fino alla morte, che lo colse il 23 luglio 1981 a cento anni compiuti. A ricevere i sovrani davanti all’oratorio vi erano anche vari sacerdoti, fra cui il canonico Bernardino Donati e il parroco Alessandro Toti, che li accompagnarono a visitare il santuario. Dopo aver preso messa nella chiesa del Crocefisso, la compagnia di Santa Caterina omaggiò la Regina con una medaglia d’oro, appositamente coniata per celebrare l’evento, corredata da una pergamena con un’orazione della santa, e un libro sulla vita di quest’ultima. In chiesa una graziosa «alunna dell’istituto dei padri di famiglia», Marietta Mugnaini, anch’ella di anni sei, declamò un sonetto dedicato a Margherita, ancora oggi conservato nell’archivio della Contrada, che terminava con questi versi: «E quando vedrai Siena col pensiero,/Ricorda la tua gita in Fontebranda/A Caterina nostra, insieme al vero/Plauso del cor che il popol mio ti manda». La Regina abbracciò e baciò Marietta, chiedendole il nome. Anche all’uscita della chiesa proseguirono le manifestazioni di affetto e riconoscenza da parte della folla presente, e «le donne ad alta voce magnificavano le grazie di S. M. la Regina e la bontà del Re. Salutati da un nuovo applauso i Sovrani risalirono in carrozza per recarsi all’accademia di Belle Arti, e quindi a S. Domenico, lasciando negli Ocaioli una simpatica e profonda impressione».

L’anno seguente l’Oca, a seguito del successo riscontrato durante la visita al santuario cateriniano, inoltrò richiesta alla Real Casa di iscrivere Umberto come «Gran Protettore Onorario» della Contrada. La risposta affermativa arrivò il 7 aprile 1888; contemporaneamente il Re conferì al governatore Cambi l’onorificenza di Cavaliere nell’Ordine della Corona d’Italia, come particolare segno della «Sovrana soddisfazione e benevolenza». Per festeggiare il lieto evento, in occasione della festa titolare la Contrada appose questa lapide ad imperitura memoria della visita dell’anno prima. L’inaugurazione avvenne domenica 6 maggio 1888 alle ore dieci, come riporta Il Libero Cittadino del 10 maggio, alla presenza del «Prefetto, del Sindaco, del Procuratore del Re, del Colonnello comandante il 57° reggimento fanteria, e di altre molte autorità», oltre che di «una folla di popolani». Prima che al suono della marcia reale venisse scoperta la memoria, «lesse brevi ma bellissime parole il giovane Bettino Marchetti», all’epoca poco più che ventenne, essendo nato a Siena nel 1867, che giusto quell’anno aveva conseguito il titolo di architetto, seguendo le orme del padre Pietro, e che nell’ultima parte della sua vita, tra il 1922 e il 1935, quando morì, ricoprì ininterrottamente la carica di governatore dell’Oca. Circa un mese dopo, il 3 giugno, Carlo Alberto Cambi fu ricevuto a Roma da Re Umberto, al quale consegnò personalmente un’artistica pergamena per il suo protettorato, realizzata dal calligrafo Galileo Mugnai e miniata in stile XV secolo da Arturo Viligiardi, allora giovane allievo del pittore Alessandro Franchi.

Tre lapidi sotto le volte di Fontebranda  

Continuando a scendere per via Santa Caterina, arriviamo fino alla Fontebranda, certamente la più nota, importante e imponente tra le fontane senesi; ma forse anche la più antica, come sembrano provare due delle tre lapidi murate sotto le possenti volte. Quanto famosa sia Fontebranda lo dimostra la folta schiera di letterati che l’hanno celebrata e menzionata nel corso dei secoli. Come Giovanni Boccaccio (che nel De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus, et de diversis nominibus maris decantò l’abbondanza e la “blandizia” della sua acqua, da cui avrebbe tratto il nome di “fonte Blanda”, poi Branda), Fazio degli Uberti (il quale, nel trecentesco Dittamondo, la cita tra i cinque luoghi della città da lui visti insieme al Campo, Camollia, l’ospedale di Santa Maria della Scala e il Duomo: «E vidi fonte Branda e Camollia»), Leandro Alberti (che la presenta con queste parole nella Descrittione di tutta Italia del 1550: «l’artificiosa fontana di Branda, da cui sempre escono abondanti, e chiare acque») e Vittorio Alfieri (anch’egli invaghito dalla purezza dell’acqua che da essa scaturiva, tanto da scrivere nel sonetto CXXVIII delle Rime, dal titolo Due Gori, un Bianchi, e mezzo un arciprete: «Fonte-branda mi trae meglio la sete,/Parmi, che ogni acqua di città latina»). È ancora oggi questione controversa, invece, se anche Dante Alighieri abbia fatto riferimento alla Fontebranda senese, oppure ad un’omonima fontana situata in Casentino, nel XXX canto dell’Inferno (vv. 76-78: «Ma s’io vedessi qui l’anima trista/di Guido, d’Alessandro o di lor frate,/per Fonte Branda non darei la vista»). La sua importanza, invece, è dovuta principalmente al fatto che la discreta quantità d’acqua garantita dal bottino della fonte (ossia dall’acquedotto sotterraneo, già in costruzione nel 1226, che andava a scovare il prezioso liquido anche diversi chilometri fuori dalla città) alimentava le poche industrie manifatturiere di Siena, le quali, soprattutto fra XIII e XV secolo, finirono per concentrarsi quasi esclusivamente nelle sue vicinanze e nella vallata sottostante, anche all’esterno della cinta muraria. A partire dagli opifici dell’Arte della Lana, che nella seconda metà del Duecento scelse questa zona per svolgere le varie fasi della lavorazione e produzione di panni, ma anche gli artigiani del vetro, i cuoiai, i calzolai e, dalla metà del Quattrocento, i macellai, con gli “scorticatoi” che furono costruiti proprio davanti alla fonte.

Sotto le sue volte sono murate tre epigrafi. Sulla parete di destra si scorge la più recente, che fu affissa nel 1875 per segnalare la portata d’acqua dell’epoca, espressa in ettolitri, ma anche nella vecchia unità di misura in “barili”, usata a Siena fino all’Unità d’Italia. Scopriamo, così, che allora Fontebranda conteneva 2.590 ettolitri d’acqua, pari a 5.918,15 barili senesi (visto che un barile equivaleva a 43,75 litri, si legge nella targa stessa), all’interno di una vasca di superficie pari a 148 m2 e profondità di 1,75 metri. Le altre due iscrizioni, invece, costituiscono una testimonianza di fondamentale rilievo per ricostruire le più antiche vicende costruttive di Fontebranda. In particolare quella murata nella parete di fondo sotto la volta centrale, dunque in posizione significativamente privilegiata, è la lapide più antica ancora esistente a Siena, risalendo addirittura al 1193. Nonostante sia fortemente consunta e difficilmente decifrabile, vi si legge: «Hec patris et nati sunt nomine facta beati/Induperator erat pius Henrigus Frederici/Hoc opus est Guidone Raneri Nepoleone/ Castellano Crescenti stat Aringerioque/ Ranucio Pontii Bernardo denique Zampli/Consulibus sex Tronbetto Camere dominante/Anni sunt Domini trahe septem mille ducente/Hos undena sequi numeros indictio fervet/Ista Bellaminus iussu perfecit eorum». Dunque la fonte fu realizzata nel 1193, al tempo dell’Imperatore Enrico VI di Svevia, ad opera di un certo Bellamino, su ordine dei sei consoli del Comune senese in carica quell’anno, puntualmente nominati nell’epigrafe, e del camerlengo Trombetto. Sono gli stessi Castellano di Crescenzio, Ranieri dei Ponzi, Bernardo di Ciampolo, Guido di Ranieri, Napoleone e Aringhieri di Sinibaldo, che il 14 dicembre 1193 acquistarono da Sisto di Ballione un fabbricato situato «in pede Campi Fori», nonché una «platea» e un appezzamento di terra nelle vicinanze, per il prezzo di 160 lire di denari senesi; proprietà fondiarie e immobiliari grazie alle quali il Comune gettò le basi per insediarsi nell’area dove più tardi avrebbe edificato il Palazzo Pubblico e creato una porzione della piazza antistante.

La lapide, insomma, attesta la data di costruzione della Fontebranda, ma, in verità, le vicende riguardanti le sue origini sono un po’ più complesse. Essa, infatti, è menzionata già in un atto risalente ad oltre un secolo prima: il 4 novembre 1081 il vescovo di Siena Rodolfo donò alla canonica del Duomo una terra con vigna posta in una località detta «Al Camcello», confinante da un lato con la via che conduceva alla fonte della Vetrice (oggi scomparsa, doveva localizzarsi poco fuori dell’attuale porta Fontebranda sotto la collina del Costone), di sopra con le mura urbane e di sotto con un fossato diretto verso la Fontebranda («de suptus est fossatum quod procedit a Fomte Bramda»). Per un secolo e mezzo questa rimarrà la sua unica memoria documentaria, fino a che il più antico Libro della Biccherna giunto fino a noi, risalente al 1226, non fornisce nuove e ragguardevoli notizie. All’epoca era già custodita dal Comune e servita da un bottino proprio, ancora in fase di escavazione, dato che si parla espressamente di operai pagati per la realizzazione delle volte e per la risistemazione di un tratto pari a 244 braccia (quasi 140 metri). Inoltre era già dotata di un abbeveratoio e un lavatoio, dei quali era stata effettuata una ripulitura, e aveva una piazza antistante, che era stata spianata. La registrazione degli ufficiali di Biccherna, tuttavia, è estremamente interessante anche per un altro motivo, grazie al quale possiamo forse risolvere l’enigma delle sue origini. Tra i vari lavori, infatti, alcuni vengono effettuati su una Fontebranda definita “vecchia”, mentre altri su una detta “maggiore”, e verosimilmente meno antica della precedente («fontis veteris et maioris fontis»). Nel 1226, dunque, esistevano due distinte fonti, entrambe funzionanti e curate dal Comune, situate probabilmente a breve distanza l’una dall’altra. Alla luce di ciò, pare plausibile che il documento del 1081 si riferisca alla Fontebranda più antica, che doveva ubicarsi a monte dell’odierna, più o meno all’altezza del vicolo del Tiratoio; essa risulta già abbandonata a metà del Duecento e ormai sostituita da quella nuova. Quest’ultima, da riconoscere nell’odierna Fontebranda, fu iniziata da Bellamino nel 1193, essendo ormai necessaria una fontana più grande e soprattutto collocata più a valle, in posizione migliore per ricevere l’acqua dal bottino. 

La terza iscrizione, invece, è posizionata sempre nella parete di fondo, ma in corrispondenza della volta di destra, vicino alla porticina d’ingresso del bottino. Anch’essa particolarmente rovinata e quasi illeggibile, recita: «A D MCCXLVI Hoc opus factum est tempore Domini Gualtierij de Calcinaia Senarum potestatis». A quale opera eseguita nel 1246, al tempo del podestà di Siena Gualtieri di Calcinaia, si riferisce la lapide? Secondo Fabio Bargagli Petrucci si tratterebbe o della copertura a volte, dunque del completamente dei lavori di Bellamino, che cinquantanni prima avrebbe realizzato solo la vasca, oltre a lavatoio e abbeveratoio, oppure di importanti lavori ai bottini, grazie ai quali la portata d’acqua di Fontebranda fu decisamente incrementata, tanto da meritare la menzione nella targa. In effetti il Libro della Biccherna di quell’anno conferma che il Comune stava investendo notevoli somme di denaro sull’acquedotto, mentre non si parla dell’edificazione delle volte a copertura del bacino. Tuttavia, un primo pagamento al maestro Iacopo di Sansone per aver allargato la «bocca di leone» da cui sgorgava l’acqua (settembre 1246), e poi un altro al maestro Giovanni per aver scolpito una «lapide scritta» e per un «nuovo leone» sistemato nella fonte (dicembre 1246), lasciano intendere che all’epoca la Fontebranda fosse effettivamente terminata. Quest’ultima annotazione offre una notizia davvero interessante: l’iscrizione fu realizzata da «Magistro Iohanni», cioè dall’allora Operaio dell’Opera del Duomo Giovanni di Guido, che era stato nominato giusto ad ottobre di quell’anno e rimase in carica fino a dicembre del 1253 (morirà ad agosto del 1257); per questo lavoro, che comprendeva anche il «nuovo leone», fu pagato 55 soldi («Item LV sol. Magistro Iohanni, pro pretio leonis novi missi in fontem Brandum et unius lapidis scripti positi ibidem»). Riguardo a quest’ultimo, si tratta, con ogni probabilità, di una bocca d’uscita per l’acqua decorata con una protome leonina, e non di una delle quattro teste di leone, che tengono una palla fra le branche, ancora visibili in facciata tra un’arcata e l’altra, le quali sembrano stilisticamente collocabili a non prima della seconda metà del XIII secolo. Questa lapide, insomma, più che ad opere specifiche, si riferirebbe al manufatto nel suo complesso, il quale nel 1246 fu forse completato con la copertura e ne fu aumentata la portata d’acqua. Il fatto che l’anno seguente la “vecchia fonte” venisse abbandonata e spogliata degli ultimi elementi ornamentali, sembra avallare questa ipotesi. Fu allora che la struttura di Fontebranda cominciò ad assumere la forma che conosciamo, ossia ad impianto rettangolare e suddivisa in tre campate, coperte da volte a crociera a tutto sesto e prive di costoloni, con il fronte principale dove si aprono tre bassi archi a sesto acuto, a loro volta inseriti all’interno di arcate ogivali più alte. Le murature sono in laterizio ad eccezione della parte inferiore dei pilastri degli archi, in conci di calcare cavernoso. La merlatura attuale, invece, non è duecentesca, essendo stata ricostruita una prima volta nel 1472, in seguito demolita, e poi ripristinata ai primi del Novecento. La fonte fu comunque fortificata intorno al 1270, creando la terrazza superiore, dove si appostavano i soldati, e verosimilmente aggiungendo un coronamento merlato, poiché si trovava ancora fuori della cinta muraria e occorreva proteggere un bene così vitale. Nel giugno di quell’anno, infatti, i documenti menzionano la «bicocca» di Fontebranda, che quindi si presentava come una specie di fortino militare. 

Alla fine del XIII secolo, quando divenne più impellente il reperimento di nuove risorse idriche, il governo cittadino pensò di ingrandire la Fontebranda e di estenderne il bottino. Nella seduta del Consiglio Generale del 7 agosto 1296, infatti, fu approvato a larga maggioranza il progetto, già previsto da un capitolo di statuto precedente, che prevedeva l’aggiunta di altre due arcate dalla parte dell’abbeveratoio, cioè sul lato sinistro, delle stesse misure in altezza e ampiezza di quelle esistenti. La disposizione, però, rimase lettera morta, tanto da essere ripetuta puntualmente nel Costituto del 1309-10. Il fatto che nessun documento successivo menzioni questi importanti lavori d’ampliamento, fa presumere che non furono mai realizzati, probabilmente per ragioni finanziarie. Bargagli Petrucci, e con lui molti autori successivi, ritengono, invece, che le due nuove arcate vennero edificate nel corso del XIV secolo; sarebbero quella centrale e di sinistra della struttura attuale. A loro parere, quindi, la Fontebranda duecentesca sarebbe stata costituita dalla sola campata di destra, verso il vicolo del Tiratoio. Aldilà dell’assenza di prove documentarie, questa tesi sembra confutata dagli studi più recenti, che hanno evidenziato come la copertura della vasca sia stata costruita unitariamente; inoltre nessun indizio formale o tecnico sembra ricondurre la struttura della fonte al primo Trecento. Essa, semmai, fu interessata da importanti opere di ristrutturazione, soprattutto del fronte principale, nel corso del XV secolo, le quali, tuttavia, non ne modificarono l’impianto originario.

 

L’itinerario non è finito!
Scopri le altre tappe nella versione cartacea che puoi trovare all’Ufficio Informazioni in Piazza del Campo, 7 

Testi a cura di Roberto Cresti

I Comuni di Terre di Siena