4.9 Lapidi di letterati e musicisti
Due amici del conte Guido Chigi Saracini: Arrigo Boito e George Enescu
Iniziamo il nostro cammino da via di Camollia, dove accanto all’ingresso di palazzo Chigi al n. 85, è posta la lapide che ricorda i soggiorni senesi del celebre librettista e compositore Arrigo Boito, più volte ospite dell’amico Guido Chigi Saracini, nella cui casa «spesso rasserenò il genio ed il cuore».
Nato l’8 marzo 1880 da Antonio Chigi, figlio del colonnello Carlo Corradino, e Giulia Griccioli, Guido mostrò grande passione per la musica sin da giovane studente del collegio fiorentino alla Querce, frequentando il salotto della celebre soprano Gemma Bellincioni e poi iscrivendosi al Conservatorio Luigi Cherubini, dove studiò violino. Sempre in quegli anni fu presente anche nei migliori salotti romani, animati da Annina Piccolomini Caetani, sua grande amica insieme ad Enrico San Martino Valperga, presidente dell’Accademia di Santa Cecilia e del Conservatorio di musica di Roma. Nel 1906 dovette interrompere gli studi musicali e tornare a Siena, poiché con la morte dello zio Fabio Saracini in un incidente di caccia, era diventato l’erede universale dell’immenso patrimonio di famiglia, compresi il palazzo in via di Città, anticamente appartenuto ai Marescotti, poi ai Saracini e da allora Chigi Saracini, e la tenuta di Castelnuovo Berardenga. Da questo momento il conte fu artefice di molteplici interventi mecenateschi soprattutto in campo musicale. A beneficiarne per primo fu il Quartetto fondato da Rinaldo Franci, che nel 1908, morto l’insigne violinista di cui parleremo fra poco, si trasformò in Quintetto Senese, presieduto dal conte stesso e con Piero Baglioni come primo violino. Fu nel 1913, però, che Guido Chigi Saracini promosse il primo, grandioso avvenimento musicale a Siena, avvalendosi della preziosa collaborazione proprio di Arrigo Boito, nominato presidente onorario della manifestazione. Per celebrare il centenario della nascita di Giuseppe Verdi, dal 28 al 31 marzo venne eseguita per ben cinque volte l’allora rarissima Messa da Requiem nella chiesa di San Francesco con enorme partecipazione di pubblico, favorito anche dall’ingresso gratuito voluto dal conte. Composta nel 1874 e dedicata ad Alessandro Manzoni, le esecuzioni senesi dell’opera vennero dirette dall’illustre maestro Edoardo Mascheroni, che si avvalse di un’orchestra di cento professori, per lo più provenienti da Bologna ma anche da Milano, e di un coro formato da duecentocinquanta cantanti, professionisti ma anche di livello amatoriale, la cui buona amalgama fu raggiunta grazie a quattro mesi di prove con il maestro Rinaldo Amaduzzi. Dopo questa occasione Chigi Saracini strinse una salda amicizia con Boito, ospitandolo altre volte sia nel palazzo di via di Camollia, la sua dimora in quegli anni, quando l’edificio ereditato in via di Città non era stato ancora ristrutturato e trasformato nella “creatura” del conte, l’Accademia Musicale Chigiana, sia, e più spesso, nella villa di Castelnuovo Berardenga. Un rapporto prima interrotto dallo scoppio della Grande Guerra, alla quale Chigi partecipò come volontario, finché, ammalatosi, non fu congedato nel 1917, e poi dalla morte di Boito, che si spense nel suo appartamento milanese il 10 giugno 1918. Nato a Padova il 24 febbraio 1842, questi è il celebre autore del Mefistofele, che dopo l’insuccesso e le severe critiche ricevute dalla prima alla Scala di Milano nel 1868, fu da lui rielaborato e presentato, stavolta con enorme fortuna, a Bologna nel 1875. Negli anni seguenti si dedicò, invece, soprattutto alla stesura di libretti per altri compositori, ottenendo un notevole successo con la Gioconda per Amilcare Ponchielli e soprattutto con Otello (1883) e Falstaff (1893) di Giuseppe Verdi.
Proseguiamo in via di Camollia e giriamo a destra per via dei Gazzani. Giunti al Passeggio della Lizza, si staglia la mole dello storico Jolly Hotel Excelsior, accanto al cui ingresso è murata la lapide che rammenta come «in questa casa», cioè nell’albergo, «visse negli anni 1950-1954 il grande musicista» rumeno George Enescu, qui italianizzato in «Enesco», «professore all’Accademia Chigiana».
Nato a Liveni (Romania) il 19 agosto 1881, Enescu fu avviato alla musica sin da bambino, componendo la sua prima opera per violino e pianoforte a cinque anni ed entrando al Conservatorio di Vienna a sette. Da qui si trasferì in quello di Parigi (1899), dove perfezionò gli studi di composizione. Celeberrimo violinista, nel corso della sua attività concertistica è riuscito a toccare vertici altissimi, guidando come direttore d’orchestra quasi tutti i maggiori complessi europei e americani. Tra le sue molte composizioni, meritano di essere ricordate le due Rapsodie rumene (1901), e soprattutto Oedipe (1936), opera teatrale in tre atti su testo di Edmond Fleg. Negli ultimi anni della sua vita, morirà a Parigi il 4 maggio 1955, Enescu fu chiamato dall’Accademia Musicale Chigiana a dirigere la classe di violino durante i corsi di perfezionamento estivi, incarico che tenne per tre stagioni all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento, succedendo a nomi del calibro di Arrigo Serato, Gioconda De Vito e Remy Principe. Come annotato nella targa, nei mesi in cui era a Siena, soggiornava al Jolly Hotel Excelsior. Tra i suoi allievi senesi va annoverato un bambinetto, essendo nato a Busto Arsizio nel 1944, che già a sette anni aveva esordito al Teatro Lirico di Milano impressionando tutti per il suo sconfinato talento: il grande Uto Ughi.
Lodovico Sergardi alias Quinto Settano
Imbocchiamo via del Sasso di San Bernardino e giriamo a destra per via dei Montanini. Poco oltre, ai numeri 114 e 122, ammiriamo l’elegante facciata di Palazzo Sergardi, dove dovette nascere e vivere i primi anni di vita («furono le domestiche mura») il poeta, letterato ed ecclesiastico Lodovico Sergardi, che con lo pseudonimo di Quinto Settano fu «sommo cultore della poesia latina scrisse la satira colla forza di Giovenale colle grazie di Flacco», come recita l’epigrafe affissa accanto all’ingresso.
Lodovico nacque a Siena il 27 marzo 1660, giorno in cui venne anche battezzato in San Giovanni, da Curzio e Olimpia Biringucci, secondo di tre figli maschi, il primogenito Filippo (nato nel 1654) e Giovanni Andrea (nato nel 1663, che diventerà monaco certosino); oltre a questi, la coppia ebbe anche sette femmine, di cui solo tre sopravvissero. In gioventù Lodovico studiò discipline filosofiche, teologiche e fisiche, probabilmente per volere del padre, accademico Intronato ed erudito, nonché autore di una Descrizione della città di Siena (1679) che nell’edizione ampliata del 1686 dedicò ai due figli Filippo e Lodovico. Fra i suoi maestri spiccano Pirro Maria Gabrielli, celebre scienziato fondatore dell’Accademia senese dei Fisiocritici, ma anche il pittore Dionisio Montorselli, sotto la cui guida ricevette anche una formazione artistica. Nel 1684 Lodovico lasciò Siena, dove non sarebbe più tornato, pur mantenendovi sempre diversi contatti e amicizie, per completare gli studi e avviare la carriera ecclesiastica a Roma. Qui ottenne il dottorato “in utroque iure”, ossia in diritto canonico e civile, e già nel 1689, alla morte di papa Innocenzo XI, ebbe l’occasione di farsi notare nell’ambiente curiale, venendo incaricato di tenere l’orazione finale ai cardinali che entravano in conclave. Ciò gli consentì di acquisire la benevolenza del nuovo pontefice Alessandro VIII (che peraltro morì ben presto, nel febbraio del 1691), e soprattutto di quella del nipote, il cardinale Pietro Ottoboni, vicecancelliere di Roma, di cui dal 1690 divenne segretario, o «auditore», come riportano gli Stati delle anime dal 1700 al 1712, periodo in cui Lodovico andò a risiedere con il suo servitore Giuseppe presso il palazzo della Cancelleria, sede della corte cardinalizia di Pietro.
Proprio nel 1689 due gravi lutti colpirono la famiglia: nel giro di pochi mesi morirono prima il padre Curzio (25 aprile) e poi la nonna Lucrezia Accarigi (30 novembre), la quale lasciò a Lodovico la quarta parte dei suoi beni dotali ed extradotali, in modo che il nipote potesse «più facilmente e con maggiore commodità tirarsi avanti nelle lettere e negli studi ed esercitare il talento grande» di cui il «Signore Dio» lo aveva dotato. Riguardo al patrimonio familiare, i due fratelli maggiori trovarono un proficuo accordo per mantenerlo unito, dividendosene, però, la gestione: Filippo, così, prese possesso delle proprietà senesi e maremmane, mentre Lodovico di quelle romane. E quanto i rapporti tra i fratelli fossero ottimi lo dimostra il fatto che nel 1695 il maggiore si impegnò a concedere al minore un vitalizio di 700 scudi all’anno derivante dalle rendite della tenuta di Catignano (Castelnuovo Berardenga), poco fuori Siena, al quale se ne aggiunse un secondo di 400 scudi rilasciato dal cugino Marcello Biringucci. Intraprendere la carriera curiale a Roma, infatti, era assai gravoso da un punto di vista economico, poiché per diventare prelato era necessario dimostrare di avere un’entrata annua di 1.500 scudi; ma i Sergardi erano ben consapevoli dei cospicui vantaggi che ne sarebbero derivati. Una scrittura di poco successiva firmata da Lodovico, con la quale prometteva che mai avrebbe preteso dai due l’effettivo esborso di somme così ingenti, chiarisce che tali fideiussioni erano nient’altro che un ben congegnato escamotage per consentirgli di «entrare in prelatura».
Proprio dagli anni Novanta del secolo prese avvio anche la produzione letteraria di Lodovico, ispirata dalla frequentazione delle accademie letterarie e dai convivi aristocratici che ne conseguivano. Iscritto in Arcadia nel 1691 con il nome di Licone Trachio, di lì a poco divenne accademico d’onore dell’Accademia di San Luca, e nel 1694 fece pubblicare la prima edizione delle Satyrae con lo pseudonimo di Quinto Settano (dal latino “secare” = trinciare), una raccolta di diciotto sermoni in esametri, redatti in un elegante latino, che ottennero un immediato successo letterario, anche all’estero, tanto da convincerlo nel 1712 a lavorare ad una traduzione in volgare per renderli fruibili ad un pubblico più vasto. Ampliata e ristampata più volte, l’opera fu concepita per colpire alcuni contemporanei, nella migliore tradizione delle satire latine. In particolare il principale bersaglio delle sue polemiche fu Gian Vincenzo Gravina, giureconsulto, letterato e tra i fondatori proprio dell’Accademia dell’Arcadia (1690), che sotto le spoglie di Filodemo divenne l’emblema di quell’ambiente curiale e clientelare romano che Sergardi voleva fustigare, evidenziandone con arguzia vizi e debolezze, e anticipando temi più tardi rintracciabili in Giuseppe Parini. La reazione di Gravina, ovviamente, non si fece attendere: in prima battuta, tramite l’erudito spagnolo Emmanuel Martí, stroncò le Satyrae dal punto di vista linguistico e stilistico, e poi con lo pseudonimo di Filodemo sferzò Settano paragonando i suoi scritti a mere “pasquinate”, pubblicate al solo scopo di seminare odio. In verità lo straordinario successo conquistato dalle Satyrae sembra dar ragione a Lodovico, che in una lettera inviata nel 1718 all’amico senese Giulio del Taja raccontò la fortuna dell’opera, mentre in un’altra di poco successiva si dichiarò certo che i suoi versi avrebbero contribuito a moralizzare la società romana dell’epoca, parassitaria e dissipatrice.
In quegli anni la famiglia Sergardi subì un altro grave e improvviso lutto: il 14 settembre 1713 morì a Siena per problemi circolatori il fratello Filippo, lasciando sei figli tutti minorenni. La Curia dei Pupilli ne conferì la tutela alla madre Isabella Forteguerri, previo accurato inventario di tutti i beni del defunto marito, ma subito Lodovico chiese alla cognata di potersi occupare direttamente del secondogenito Lattanzio, all’epoca diciottenne, essendo nato nel 1695. Isabella acconsentì, e già a novembre del 1713 il giovane si trasferì a Roma in un palazzo di piazza Navona affittato appositamente dallo zio per viverci assieme. Ben presto esso divenne sede di una raffinata pinacoteca, dove Lattanzio, divenuto abate e intrapresa la carriera ecclesiastica, continuò a risiedere anche dopo la morte di Lodovico. Nel frattempo quest’ultimo proseguiva la sua brillante ascesa, e nel 1718 fu nominato prefetto della Fabbrica di San Pietro da papa Clemente XI, prestigioso incarico che mantenne anche durante il breve pontificato di Innocenzo XIII (1721-1724). In tale veste si occupò della scalinata di Trinità dei Monti e del restauro dell’obelisco vaticano in piazza San Pietro. Proprio questo intervento, però, lo espose a continue “pasquinate” e satire feroci, dove lo si accusava di aver voluto circondare l’obelisco con sedici colonnette di granito tolte dalla Basilica di San Pietro. Già addolorato da tali critiche, a peggiorare la situazione concorse l’elezione al soglio pontificio di Benedetto XIII nel 1724, che indebolì di molto la posizione di Sergardi all’interno della Curia. Per tale ragione non ottenne la tanto agognata porpora cardinalizia e all’inizio del 1726, ormai privo di incarichi prestigiosi, si ritirò a vivere a Spoleto. Qui morì il 27 novembre di quello stesso anno e fu sepolto in Duomo, all’interno di un’umile tomba. Tre settimane prima aveva dettato il testamento, nominando l’amato nipote Lattanzio erede unico e universale di tutti i suoi beni mobili e immobili, ivi compresi «li celebri libri di stampa in rame», che aveva già inviato a Siena con diverse spedizioni. Solo nel 1869 le sue ceneri furono traslate nella cappella gentilizia di famiglia al cimitero della Misericordia di Siena, come ricorda una lapide lì presente.
L’itinerario non è finito!
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Testi a cura di Roberto Cresti