5.9 Siena capitale del vino

Territorio di vigneti e di grandi etichette apprezzate nel mondo, Siena è una provincia che ha le produzioni vitivinicole di altissima qualità nel proprio DNA, nella storia scritta dagli uomini e dalle donne che nel corso dei secoli hanno “affinato” conoscenze, tecniche, con lungimirantevisione, innovazione e promozione territoriale. Non sono casuali le cinque DOCG (Denominazione di origine controllata e garantita) e le numerose DOC (Denominazione di origine controllata) presenti in provincia di Siena: non c’è praticamente lembo di terra che non sia “certificato” partendo dal Chianti Classico, passando per San Gimignano, fino a Montalcino e Montepulciano. Nomi di cittadine storiche, che devono al prodotto principe parte della loro notorietà internazionale.

Brunello, Nobile, Chianti Classico e Vernaccia sono un poker d’assi che pochi altri territori possono vantare; a cui vanno aggiunte le rampanti produzioni di Chianti Colli Senesi, Orcia e il Grance Senesi; senza dimenticare i grandi rossi, dal Rosso di Montalcino e di Montepulciano, i vinsanti, le produzioni vitivinicole della Valdarbia e della Valdichiana. Quella di Siena è la prima provincia toscana in fatto di produzione (oltre 1 milione di ettolitri) di cui circa il 90% di rosso; con una superficie vitata di circa 22 mila ettari pari al 33% della superficie vitata toscana. Vino è turismo, nelle Terre di Siena. Montalcino è celebre nel mondo per la sua storia e per le sue bellezze naturali e artistiche, ma è il Brunello il primo motivo per una visita fra le belle colline contraddistinte dai vigneti di Sangiovese. Città d’arte è Montepulciano, con la sua bella Piazza Grande e il Duomo, le chiese del centro storico e l’imponente San Biagio; gli edifici nobiliari come il suggestivo Palazzo Comunale. Ma nella cittadina del Poliziano è il Vino

 Nobile ad essere motivo di visita, sempre più appeal nei mercati nazionali ed esteri per le produzioni enologiche di Montepulciano. Che dire del Chianti Classico che prima di altri territori ha saputo esportare il binomio vino-terroir? Chianti Classico vuol dire paesaggi unici, relax, dimore che profumano di Toscana, ma anche vigneti a perdita d’occhio ed un calice rosso rubino di Gallo Nero. Le torri slanciate di San Gimignano sono inebriate sempre più dagli aromi inconfondibili di un bianco d’autore nella terra dei rossi, la Vernaccia; e la campagna della Val d’Orcia impreziosita da gioielli architettonici si distingue anche per vini rossi robusti ed espressione del territorio di origine.

La coltivazione della vite in Toscana è una pratica presente da oltre due millenni, già ai tempi degli etruschi. Da almeno ottocento anni è parte integrante del paesaggio senese. Merito di terreni e condizioni geo-climatiche particolarmente favorevoli. Ma soprattutto merito di uomini che in una metaforica catena mai interrotta di esperienze e conoscenze hanno tramandato la produzione di uno degli alimenti che maggiormente caratterizza oggi il made in Italy: il vino. Chianti, Brunello, Nobile, Vernaccia, sono, infatti, conosciuti ed apprezzati in tutto il mondo da secoli. E negli ultimi centocinquant’anni hanno raggiunto ogni angolo della terra. Già Dante nella Divina Commedia scrive quanto fosse buona e apprezzata la Vernaccia di San Gimignano, così come Giovanni Boccaccio nel suo Decamerone inserisce il vino tra i rimedi che il bandito Ghino di Tacco usa per far guarire l’abate di Cluny, suo prigioniero e malato di gastrite. È poi il poeta umanista Angelo Poliziano a cantare nel XV secolo le lodi del Nobile, uno dei vini preferiti dall’illuminista francese Voltaire. Mentre sicuramente un gran bevitore di vino Chianti era Cecco Angiolieri che al dado e alle femmine accompagnava la frequentazione della “taberna” o di uno dei diciannove vignaioli presenti a quel tempo nella città di Siena.

La storia dell’arte poi è ricca di episodi che richiamano al vino, a coppe piene e a filari che disegnano le campagne senesi, come nel celebre affresco di Ambrogio Lorenzetti che in palazzo pubblico a Siena volle disegnare gli Effetti del Buon Governo in campagna e non mancò di raffigurare lunghi filari a “cavalcapoggio”, accanto a olivi e messi mature. Così come Duccio di Boninsegna nelle sue Nozze di Cana o nell’ ”Ultima cena” diede al vino un ruolo da protagonista. E senza dubbio, i senesi nel vedere quelle opere sacre pensavano oltre che al divino anche al vino che, in cuor loro, non poteva che essere rosso Chianti.

Del resto sempre rosso era il vino che bevevano i golosi ritratti da Taddeo di Bartolo nel suo ciclo Inferno, affrescato nella collegiata di San Gimignano. Come dire che il vino poteva essere santo e al tempo stesso diabolico. Come accadde a quei due frati benedettini sorpresi da San Benedetto a mangiare e, appunto, bere, fuori dal monastero, dipinti nella flagranza del reato da Luca Signorelli che, insieme al Sodoma, lavorò al ciclo di affreschi del chiostro grande dell’abbazia di Monte Oliveto Maggiore ad Asciano. Tuttavia lo stesso Santo è altrove raffigurato mentre fa uso di vino che era ammesso dalla rigida regola benedettina. Era dunque il contesto a fare la differenza tra santità e peccato. Oggi potremmo dire tra uso e abuso. Del Chianti sono stati moltissimi gli estimatori celebri, dallo scienziato Galileo Galilei che, nel suo podere di Grignanello a Castellina in Chianti lodava il «vino come sangue della terra», al grande musicista Giuseppe Verdi. Così scrive la sua compagna: «Verdi sta benone, mangia, corre per il giardino, dorme e beve Chianti, nient’altro che Chianti.

Evviva dunque il Chianti e chi gliel’ha procurato così buono!». Relativamente più recente è la storia del Brunello che con questa denominazione apparve per la prima volta nel XIX secolo. Ma Montalcino, che era famosa per la coltivazione dell’olivo, già produceva vino nell’antichità, se è vero che anche Carlo Magno, che di ritorno da Roma avrebbe fatto erigere la celebre abbazia di Sant’Antimo, lo poté gustare. Come poterono gustarlo i senesi asserragliati nella fortezza di Montalcino nel lungo assedio del 1559 ad opera dei feroci spagnoli. Per mascherare il pallore delle privazioni dell’assedio si frizionavano il viso con boccali di «rozzentissimo et sapido vino rosso». La storia recente del vino di Montalcino poi è fatta di grande successo e popolarità fino ad essere considerato uno dei vini più buoni al mondo. Agli etruschi risalgono invece le origini del Nobile di Montepulciano la cui cittadina, fondata dal mitico Porsenna, fu oggetto di un’invasione da parte dei Galli Sennoni, richiamati dal mercante di Chiusi Arrunte, ma allettati dal vino rosso di quei colli. È nella Biblioteca Vaticana, poi un manoscritto della fine del Seicento che, sotto forma di poemetto, canta le lodi di quel vino «frutto di sapiente lavoro: Come vuoti la coppa di un sorso propizio, nessuna violenza o selvaggia angheria turba l’ingegno e la serenità dello spirito; anzi, il liquore dà forza all’intelletto e ali al talento».

Si deve senz’altro a Bettino Ricasoli la formula magica del vino Chianti, quel sapiente dosaggio di uve Sangiovese, Malvasia bianca e Canaiolo che ne ha permesso la diffusione e il successo in tutto il mondo e che ne fa ancora uno dei prodotti di punta del made in italy. Nel 1872 scrive: «il vino riceve dal Sangioveto la dose principale del suo profumo (a cui io miro particolarmente) e una certa vigoria di sensazione, dal Canajuolo l’amabilità che tempera la durezza del primo, senza togliergli nulla del suo profumo per esserne pur esso dotato; la Malvagia, della quale si potrebbe fare a meno nei vini destinati all’invecchiamento, tende a diluire il prodotto delle due prime uve, ne accresce il sapore, e lo rende più leggero e più prontamente adoperabile all’uso della tavola quotidiana». Ecco la formula alchemica che permetterà al Chianti di essere bevuto in ogni tavola del mondo: «7/10 di uva Sangioveto, 2/10 di Canaiolo e 1/10 di Trebbiano e Malvasia».

Ricasoli aveva impiegato oltre trent’anni di attività agronomica per arrivare a questa formula, grazie anche alla consulenza scientifica, e all’amicizia, di un professore pisano, Cesare Studiati, che analizzava in laboratorio i risultati delle fermentazioni delle uve di Brolio. E che prestava il proprio sapere anche ad un altro pioniere del mondo vitivinicolo italiano, quel Clemente Santi che da Montalcino inviava a Pisa campioni di Malvasia da analizzare per il suo Moscadello e che fu il primo, nel 1865, a presentare in una esposizione a Montepulciano una bottiglia di vino rosso con la dicitura “brunello” (con la b minuscola). Poi la sorte di proseguire quel cammino intrapreso toccò al nipote Ferruccio Biondi Santi che, dopo essere stato volontario garibaldino nella terza guerra d’indipendenza, si mise a studiare il Sangiovese per realizzare un vino da invecchiamento. Capì che, prima o poi, i gusti sarebbero cambiati e passati ad apprezzare vini rossi decisi piuttosto che giovani di pronta beva. Il tempo gli ha dato ragione. E se Montalcino è passato dal produrre il Moscadello, un vino dolce, al Brunello ed è diventato celebre in tutto il mondo lo si deve anche alla sua lungimiranza.

 

Brochure a cura di di Primamedia, Siena
Testi di Cristiano Pellegrini (varie fonti storiche) Coordinamento editoriale: Elisa Boniello e Laura Modafferi
Foto: Archivio Comune di Siena
Grafica: Michela Bracciali

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