6.6 Monte Oliveto: un nobile nel deserto
Con questo sesto itinerario usciamo dai confini del centro storico di Siena per attraversare il contado. Ci dirigiamo verso un luogo sensazionale, immerso nella bellezza della natura ed emblema dell’armonia qui raggiunta dall’uomo.
Andiamo in direzione Sud-Est, nel territorio delle Crete senesi, a circa 30 km da Siena, dove, tra colline di argilla e cipressi, sorge l’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore. La fondazione di questo complesso risale al XIV secolo, ma il suo aspetto attuale è frutto dei lavori di rinnovamento attuati proprio sul finire di quell’inaspettatamente ricco e movimentato Quattrocento. Quella di Monte Oliveto è una delle poche realtà monastiche italiane ad aver mantenuto una comunità sempre attiva di monaci benedettini olivetani dalla sua fondazione sino ai nostri giorni. Per raccontarvi la storia di questo luogo affascinante dobbiamo risalire ad un’epoca anteriore al Quattrocento, partendo dal 10 maggio 1272, giorno in cui nacque Giovanni de’ Tolomei, figlio di Mino di Cristoforo e Fulvia Tancredi.
Ragazzo brillante e volenteroso, Giovanni intraprese sin da giovanissimo la carriera di professore di giurisprudenza presso l’Università di Siena; inizialmente egli conduceva una vita piuttosto spensierata e libertina, finché non fu preda di una profonda crisi religiosa. A questo intimo smarrimento si aggiunse una grave malattia agli occhi che lo portò alla completa cecità in poco tempo. Fu probabilmente l’insieme di questi fattori – e forse anche qualcos’altro che a noi sfugge – a innescare in Giovanni la volontà di una vera e propria svolta, spingendolo a cambiare radicalmente la sua condotta di vita.
Probabilmente grazie alla sua vicinanza all’Ordine dei Domenicani, egli fece un voto alla Vergine, alla quale promise che avrebbe abbracciato la vita religiosa se avesse riacquistato la vista.
Giovanni venne miracolato, e, all’età di quasi 40 anni, decise di ritirarsi in preghiera; nonostante la particolare vicinanza ai Domenicani, il Tolomei non entrò in una vera e propria comunità monastica, ma preferì una contemplazione solitaria. Accadde dunque che, seguito da due amici anch’essi nobili – Patrizio Patrizi e Ambrogio Piccolomini – Giovanni scelse di ritirarsi nel Deserto di Accona, zona collinare nei pressi di Siena, nell’attuale Comune di Asciano, dove i Tolomei, in quanto ricca casata guelfa, avevano dei possedimenti. Qui, in una parte ricca di ulivi e rovi, i tre amici si dedicarono alla vita rurale, vivendo in grotte naturali e in completa povertà.
Come spesso accade agli uomini che si chiudono nel silenzio ricercando la propria essenza e la voce di Dio, egli suscitò l’ammirazione altrui, a tal punto da diventare presto un leader carismatico e, involontariamente, riunì attorno a sé molti adepti, sia nobili che non, desiderosi di prendere parte a questa nuova vita.
Dal momento che il numero dei seguaci era divenuto importante, Giovanni si rivolse al vescovo di Arezzo, diocesi della quale faceva parte il colle di Accona, al fine di avere l’approvazione della sua nascente comunità. Riuscì ad ottenerla e adottò l’abito bianco; data la sua particolare ammirazione per Bernardo di Chiaravalle – anch’egli molto devoto alla Vergine –, Giovanni assunse il nome religioso proprio del grande monaco cistercense. Il 26 marzo 1319, Guido Tarlati, vescovo d’Arezzo, concesse la Charta fundationis per la fondazione del monastero di Santa Maria di Monte Oliveto, sotto la Regola di San Benedetto. Nello stesso anno, questa nuova comunità dovette adottare l’aggettivo di “maggiore” per distinguersi da tutte le altre realtà che stavano seguendo l’esempio di Bernardo de’ Tolomei e della regola olivetana.
Nonostante la fama che ottenne in vita, Bernardo mantenne una condotta umile e dimessa, non allontanandosi mai dal proposito di donarsi al prossimo: infatti, quando nel 1348 a Siena scoppiò la peste nera, Bernardo mandò i suoi discepoli a Siena – recandovisi poi egli stesso – per prendersi cura dei malati e dei moribondi.
Contraendo anche lui la peste, trovò la morte il giorno 20 agosto di quell’anno. Secondo quanto riportato in alcune versioni della sua vita, Bernardo venne seppellito nelle fosse comuni del Santa Maria della Scala, mentre, secondo altre, egli venne inumato nel monastero cittadino di Monte Oliveto, un complesso distrutto poi nel 1554, durante l’assedio di Carlo V. Nonostante la fama di santità di cui godeva già in vita, Bernardo è stato canonizzato solo nel 2009 (il 26 aprile) da papa Benedetto XVI.
Ora che abbiamo ripercorso brevemente le vicende del fondatore di Monte Oliveto, è tempo di introdurvi alle meraviglie pittoriche, architettoniche e scultoree che sono presenti all’interno del monastero e che in gran parte risalgono proprio al Quattrocento.
Come già detto, Monte Oliveto Maggiore è ancora abitato dall’originaria comunità di monaci, e, attualmente, svolge una funzione triplice: è un monumento di grande interesse turistico quindi visitabile, è sede di una fervida comunità di Olivetani, ed in ultimo, ma non per importanza, ha la zona della foresteria ancora in funzione. Ciò vuol dire che è possibile prenotare un soggiorno dedito alla preghiera e alla meditazione, completamente circondati dalla natura e immersi nel silenzio.
Quando si entra nello spazio del complesso, tramite il portale principale, si può subito notare una struttura fortificata, risalente alla fine del Trecento, costruita allo scopo di difendere e proteggere i monaci e non solo.
In epoca medievale era usanza che il secondogenito di una famiglia nobile venisse affidato ad un ordine religioso (il primo di solito era l’erede del patrimonio di famiglia e il terzo dava vita al ramo cadetto, quello militare).
Il complesso si munì di questa struttura al fine di preservare i beni che le famiglie nobili di Siena affidavano ai monaci – mediante i loro giovanirampolli che vi entravano – per evitare di pagare le tasse sopra i suddetti averi, dal momento che, già al tempo, i chierici erano esentasse. Si può facilmente immaginare come, un luogo lontano da tutti e abitato da uomini disarmati ma, al contempo, ricco di ogni genere di beni materiali, potesse essere allettante per banditi ed eventuali malviventi.
Il sentiero nel boschetto e la piscina
Superato dunque il ponte levatoio all’ingresso e il ristorante subito sulla sinistra, ci si troverà in una zona di boschetto, spazio che richiama l’aspetto originale del luogo al tempo della fondazione della prima comunità da parte di Bernardo Tolomei. Imboccando il sentiero che conduce al monastero, ci si imbatte in una grande piscina, un elemento frequente in molte comunità monastiche. L’utilità di questa non era di certo offrire un passatempo ludico ai monaci, bensì una fonte di cibo per il venerdì, giorno in cui, secondo la fede Cattolica, non è concesso mangiare carne ma si può consumare del pesce.
La foresteria
Una volta giunti davanti alla vera e propria abbazia, la struttura della foresteria, di cui fa parte anche la farmacia dei monaci, è la prima che si nota. Se oltrepassate l’arco a sinistra, potete vedere il cortile interno della zona dedicata agli ospiti; se invece avete necessità di un rimedio contro i mali stagionali, o degli ottimi prodotti della terra, potete visitare la farmacia monastica, sempre molto fornita. Lo spazio tra questa e la chiesa con il monastero vede ergersi al centro la monumentale statua rappresentante san Bernardo, opera dell’artista contemporaneo Massimo Lippi. Seguendo verso destra, troviamo l’ingresso sia alla chiesa che al chiostro, i due luoghi oggetto del nostro percorso.
Il Chiostro
Il chiostro quadrangolare, terminato negli anni quaranta del Quattrocento, è davvero degno di nota, grazie ai trentacinque affreschi con la xrealizzati da due dei più grandi artisti del Rinascimento toscano: Luca Signorelli e Giovanni Antonio Bazzi, detto il Sodoma.
Il primo vi lavora alla fine del secolo, tra il 1497 e il 1498, il secondo verrà chiamato agli inizi del Cinquecento ad ultimare l’opera non terminata dal pittore cortonese. Varie sono le teorie che giustificherebbero la scelta del Signorelli di abbandonare il lavoro, ma quel che è certo è che i monaci, per risolvere l’inconveniente, si rivolsero al Sodoma, un artista che, seppur ancora esordiente in quegli anni – con all’attivo solamente una commissione per il Monastero di Sant’Anna in Camprena, in Val d’Orcia –, mostrava già un temperamento tutto particolare.
Sembra che l’abate che li commissionò, Domenico Airoldi di Lecco, non fosse sicuro che il nostro stravagante artista sarebbe potuto essere all’altezza del compito, motivo per cui gli chiese di raffigurare, come prova del suo talento, san Benedetto che dona la regola agli Olivetani, scena anacronistica dato che l’ordine di Monteoliveto fu fondato nel XIV secolo da Bernardo e il ciclo raccontava invece la vita del fondatore deiBenedettini vissuto nel VI secolo.
Dimostratosi perfettamente all’altezza del compito assegnatogli dall’abate, il Sodoma riprese a dipingere gli affreschi là dove Signorelli li aveva lasciati. Durante questo periodo non mancarono momenti di scherzi e burle da parte del nostro pittore verso la comunità di monaci, testimoniati da alcuni divertenti dettagli. Le scene sono fortunatamente ben catalogate e hanno dei cartellini alla base che riportano il nome dell’artista e il titolo dell’opera, per cui non è necessario che vi riporti la descrizione scena per scena.
Vorrei solo segnalare qualche curiosità, come ad esempio quella della scena Come Benedetto risalda lo capistero che si era rotto ad opera del Sodoma, che racconta l’episodio in cui san Benedetto aggiusta, tramite la preghiera, il vaso di legno che era caduto alla nutrice, visibilmente scioccata per l’accaduto.
Sulla sinistra dell’immagine possiamo appunto vedere il santo in preghiera e la donna nell’angolo, mentre sulla parte di destra, possiamo osservare un gruppo di persone che ammira il capistero aggiustato e appeso, tramite una corda, ad una colonna del tempio sullo sfondo. Il personaggio qui sfarzosamente vestito, che occupa il centro della scena, è proprio l’autore dell’opera, il Sodoma, che si autoritrae mentre ci guarda e ci introduce alla scena. Come anche le cronache del tempo ci raccontano, il Sodoma era solito accompagnarsi da molti animali insoliti, tra cui, come anche qui rappresentati, dei tassi.
Un’altra scena degna di nota è Come Benedetto tentato d’impurità supera la tentazione, sempre opera del Sodoma; è interessante perché ci rivela contemporaneamente due fatti, ovvero che anche san Benedetto fu preda di istinti corporali propri dell’essere umano, e, allo stesso tempo, ci mostra una delle punizioni che i monaci erano soliti affliggersi in queste eventualità, ovvero, buttarsi tra i rovi procurandosi delle ferite con le spine di queste piante rampicanti.
Segue poi la scena di Come Benedetto riceve li due giovanetti romani Mauro e Placido in cui, secondo quanto riportato da papa san Gregorio Magno nel secondo libro dei Dialoghi – libro in cui sono descritti anche i restanti episodi del ciclo affrescato di Monte Oliveto –, Mauro e Placido, condotti in giovane età al monastero di Subiaco, vengono educati dal santo e vivono con lui molti momenti illuminati della sua vita. Essi si affidarono a tal punto alla figura del loro maestro da essere protagonisti di un miracolo: per intercessione di Benedetto, Mauro riuscì a camminare sui mulinelli delle acque e a mettere in salvo Placido che vi era caduto.
In questo affresco possiamo osservare sullo sfondo delle imponenti architetture classiche che richiamano la città di Roma, assieme a una scorta di caratterizzati cavalieri e personaggi provenienti da svariate nazioni con, sulla sinistra, la sublime riproduzione di un cavallo bianco dalle briglie celesti.Tra i tanti volti qui riprodotti in questa scena, sembra che il Sodoma abbia anche ritratto Leonardo Da Vinci, Sandro Botticelli e il pittore predecessore nel cantiere Luca Signorelli.
L’ultima scena su cui voglio far porre la vostra attenzione è Come Benedetto dice alli monaci dove e quando avevano mangiato fuori dal monastero, affresco questo ad opera di Luca Signorelli; ancora una volta siamo di fronte ad una scena che ci racconta due fatti: da un lato abbiamo una debolezza umana dei monaci che, nonostante i loro voti di obbedienza, non resistono alla tentazione di consumare un pasto fuori dal monastero, e, dall’altro, abbiamo la benevolenza di Benedetto che, come si vede nell’angolo in alto a destra della scena, rimprovera i due monaci per il loro peccato ma, al contempo, li perdona. Questa rappresentazione è anche un’accurata testimonianza di come dovesse apparire una taverna dell’epoca, con delle donne che servono il pasto e delle altre indaffarate nella faccende domestiche.
La monumentale Biblioteca
Dopo aver visto il ciclo affrescato, prima di entrare all’interno della chiesa, salendo le scale che si trovano in un antro dietro il chiostro, è possibile raggiungere la monumentale Biblioteca: la porta di ingresso posta in cima alla scalinata, così come i capitelli che sormontano le dodici colonne di pietra serena, sono stati finemente intagliati da fra’ Giovanni da Verona, un artista monaco olivetano, tra i più abili intagliatori del Rinascimento, autore qui anche di altre opere all’interno della chiesa abbaziale e personalità che ha lasciato preziosi esempi della sua arte anche in altre parti d’Italia, come ad esempio nella chiesa di Santa Maria in Organo a Verona. Di lui ce ne lascia un ritratto persino il Sodoma nel ciclo del chiostro, nella scena Come Benedetto appare a due monaci lontani e loro disegna la costruzione di uno monastero; qui l’intagliatore è rappresentato con il suo abito olivetano ed uno strumento di lavoro in mano.
La Chiesa
L’ultima tappa del nostro percorso è proprio la chiesa abbaziale, una struttura a croce latina a navata unica, costruita in stile romanico gotico fra il 1400 e il 1417 – rifatta poi nel XVIII secolo – che conserva alcune pregevoli opere d’arte. Tra le varie, soffermate la vostra attenzione (e se potete inserite la monetina per attivare una degna illuminazione) sul coro ligneo, intarsiato dal già citato fra’ Giovanni da Verona.
Si tratta di un coro composto da centoventicinque stalli, distribuiti su due livelli, che riportano nei pannelli diverse rappresentazioni, dai paesaggi a figure geometriche, passando per vasi sacri e uccellini, strumenti e rotoli musicali, fino alle viste su cittadine collinari. La varietà di colori e la sublime tecnica rendono questo insieme di stalli più simile ad un grande dipinto che a un lavoro di intaglio.
Sembra che a questa mirabile opera fra’ Giovanni non vi lavorò da solo, ma si avvalse dell’aiuto del confratello fra’ Raffaele da Brescia, anch’egli intagliatore del quale abbiamo, sempre in questa chiesa, il leggio ligneo che riporta alla base la figura di un gatto, tanto verosimile da invogliare i visitatori a toccarlo e ad accarezzare il suo apparente soffice pelo. Nella cappella del transetto sinistro è presente il crocifisso ligneo che, secondo la tradizione, parlò a san Bernardo Tolomei. Qui termina la nostra visita dell’abbazia di Monte Oliveto ma prima di andare via è da dedicare un’ultima tappa al refettorio dove, ancora oggi, i monaci sono soliti riunirsi per i pasti, oltre alla cantina presso la quale si possono comprare i vini prodotti dai monaci.
Testi a cura di Ambra Sargentoni (Ambra Tour Guide) Coordinamento editoriale: Elisa Boniello e Laura Modafferi
Foto: Archivio Comune di Siena, Leonardo Castelli, Grafica: Michela Bracciali