8.5 Santi e beati del Medioevo senese
Pochi luoghi hanno dato alla storia cristiana un contributo così ricco in termini di fioritura di eminenti personalità di santi e beati quanto quello offerto dalla città di Siena nel corso del Medioevo. Dopo l’anno Mille la città venne a trovarsi lungo il tracciato della Via Francigena, asse non solo commerciale, ma anche e soprattutto culturale e spirituale, che le fece conoscere uno sviluppo straordinario e la rese tappa di pellegrini provenienti da tutta Europa.
E’ in quei secoli che il profondo senso religioso che permeava ogni strato della popolazione, favorito anche dall’impulso apportato dai nuovi Ordini mendicanti, creò terreno fertile per le straordinarie esperienze di fede di tali e tante figure che ancora oggi, a distanza di secoli, colpiscono per la forza del loro messaggio. Per comprenderne le ragioni non bisogna mai perdere di vista il fatto che Siena fosse, già a partire dal XII secolo, una città che si identificava completamente nella devozione alla Vergine Maria, al punto da farne il simbolo stesso del nascente Comune cittadino e coniare monete recanti l’iscrizione Sena vetus civitas Virginis (Antica Siena, città della Vergine). Del resto, gli inizi della fede cristiana in terra senese sono antichissimi, legati alla figura di colui che fu il primo evangelizzatore della città, di cui divenne poi uno dei patroni: sant’Ansano martire.
Nato a Roma nel 284, convertitosi al cristianesimo in giovane età grazie alla madre Massima (anch’essa martire e poi santa), giunse a Siena, in quel tempo colonia romana, per sfuggire alle persecuzioni di Diocleziano, cominciando da subito a diffondere il Vangelo e a battezzare la popolazione. Nuovamente osteggiato dalle autorità romane, sarebbe stato catturato e rinchiuso nella torre adiacente alla chiesa di via san Quirico, detta delle Carceri di Sant’Ansano, in quello che era il nucleo abitativo più antico della città. Dalla finestra della sua prigione egli avrebbe continuato a battezzare coloro che accorrevano in quel luogo, desiderosi di abbracciare la fede cristiana, finché il proconsole Lisia lo condannò a morte, sottoponendolo all’immersione in una caldaia di pece bollente nella zona chiamata oggi Fosso di sant’Ansano, dietro lo Spedale di Santa Maria della Scala. Uscito miracolosamente indenne da quella tortura, venne condotto fuori città, nella località di Dòfana, allora facente parte della diocesi di Arezzo, e decapitato il 1° dicembre del 304 (o 303 secondo alcuni storici), nel luogo in cui oggi sorge una cappella a lui intitolata.
Molti secoli dopo, nel 1107, il vescovo di Siena, spinto dalle pressioni della popolazione che acclamava Ansano come suo santo, riuscì a farne riesumare il corpo per ricondurlo a Siena mentre la testa fu portata ad Arezzo e dargli degna sepoltura nella Cattedrale, in un altare di marmo dove però fu gravemente danneggiato nell’incendio scoppiato nel 1359. Da allora, della preziosa reliquia, sono rimaste alla diocesi senese solo le due braccia: il sinistro è conservato in un reliquiario del XIV secolo oggi presso il palazzo arcivescovile di Siena, mentre il destro si trova in Cattedrale, all’interno di un’urna posta sull’altare fatto ricostruire con nuove e più imponenti forme a partire dal 1583, in base al rinnovato fervore religioso generato dal Concilio di Trento. Pochi anni dopo, nel 1596, sempre in accordo al gusto dell’epoca, lo stesso altare fu ornato dalla tela di Francesco Vanni raffigurante Sant’Ansano che battezza i senesi, dipinto che sostituì la magnifica, celeberrima pala dell’Annunciazione tra Sant’Ansano e Santa Massima (o Margherita), capolavoro di Simone Martini e Lippo Memmi, che in quello stesso anno venne spostata nella chiesa delle Carceri di sant’Ansano, dove rimase fino al 1798 per essere poi trasferita definitivamente agli Uffizi.
Il 1° dicembre, giorno del martirio di Ansano, Siena onora solennemente il suo patrono con un corteo che prende le mosse da Piazza del Campo per giungere in Cattedrale, dove l’Arcivescovo e i diciassette correttori (sacerdoti) delle Contrade concelebrano la santa Messa, simbolo di una città intera che rende omaggio al suo santo e, attraverso il culto, esprime la propria identità collettiva.
Santi Canonizzati della Chiesa di Siena
La Chiesa universale deve a Siena e al suo territorio quattro testimoni di fede di straordinaria grandezza – san Galgano, san Bernardo Tolomei, santa Caterina e san Bernardino – riconosciuti come santi attraverso quello che si definisce processo di canonizzazione, un iter che può durare anche molti anni, a volte secoli, e che si conclude con una sentenza definitiva di santità emessa dal Pontefice.
E’ opinione comune tra gli studiosi che il primo processo di canonizzazione di cui ci siano pervenuti gli atti sia proprio quello di san Galgano, avvenuto nel 1185, a soli quattro anni dalla morte del santo. La sua vicenda umana e spirituale si svolse in un territorio periferico della diocesi, a Chiusdino, paese di fondazione molto antica situato tra la Val di Merse e le Colline Metallifere, ma ebbe riflessi importanti anche nella città di Siena. Nato intorno al 1150 da nobile famiglia, divenne cavaliere e trascorse la giovinezza in maniera dissoluta, finché non gli apparve in sogno san Michele Arcangelo che lo esortava a costruire una piccola comunità sull’esempio dei primi discepoli di Cristo. Decise quindi di ritirarsi sul colle di Montesiepi dove, conficcata la spada nella roccia in segno di rinuncia a quella vita ingannevole, fondò un piccolo cenobio eremitico con regola cistercense, dove visse dedicandosi alla preghiera e alla penitenza.
Alla sua morte la fama di Galgano si era già diffusa e la sua eredità spirituale divenne patrimonio dell’Ordine cistercense che intorno al 1220 eresse la grande abbazia ancora nota ai giorni nostri per le sue magnifiche rovine.
In poco tempo l’istituzione divenne molto ricca e potente, tanto che lo stesso Comune di Siena cominciò a scegliere regolarmente i suoi tesorieri chiamati all’epoca camerlénghi tra i monaci di San Galgano, grazie alla reputazione di abilissimi amministratori di cui essi godevano a livello europeo. Nel 1474 i monaci si vollero dotare di una residenza cittadina e, nelle vicinanze di Porta Romana, fecero costruire un bel palazzo rinascimentale, detto di San Galgano, con facciata in bugnato liscio di arenaria.
Nei pressi del palazzo, oggi sede universitaria, sorge poi un altro luogo legato alla figura di Galgano: la chiesa del Santuccio, un tempo parte dell’ex monastero agostiniano femminile di Santa Maria degli Angeli. Oltre a custodire un ciclo di sei affreschi dedicato al santo, opera di Ventura Salimbeni, l’edificio ne ha infatti ospitato per molto tempo – dal 1549 al 1925 – la preziosa reliquia della testa, all’interno di uno straordinario reliquiario in argento con sbalzate storie della vita di Galgano, capolavoro dell’arte orafa che i monaci, ad ulteriore conferma dello stretto rapporto con la città, commissionarono nella seconda metà del XIII secolo all’orafo senese Pace di Valentino.
Le monache del Santuccio, dal canto loro, portarono avanti e incrementarono il culto regalando ciocche di capelli e fascette di stoffa con su scritto «Sancte Galgane ora pro nobis» (San Galgano prega per noi) che, una volta messe a contatto con la reliquia, si credeva avessero virtù taumaturgiche. Del resto, prima ancora di essere collocata stabilmente al Santuccio, almeno due volte l’anno la sacra testa veniva portata a Siena dall’abbazia, nelle solennità di Pentecoste e dell’Assunzione, e condotta in processione per le vie della città, insieme al braccio destro di sant’Ansano e alla testa di santa Caterina. Nel 1977, dopo le insistenti richieste della popolazione, la reliquia fece ritorno a Chiusdino, dove è tuttora conservata all’interno di una custodia moderna, opera dello scultore Bino Bini, mentre il reliquiario duecentesco è esposto al Museo dell’Opera del Duomo di Siena.
Nel periodo compreso tra il Duecento e il Quattrocento, considerato l’età d’oro della città, la chiesa senese conobbe un fervore spirituale senza precedenti dovuto all’affermarsi dei nuovi Ordini mendicanti e largamente alimentato dal carisma di quelli che sono i suoi tre santi più venerati. L’esperienza di vita e di fede collocata più indietro nel tempo è quella di san Bernardo Tolomei (1272-1348) creatore del nuovo Ordine benedettino degli Olivetani, che conta ancora oggi comunità sparse in tutto il mondo facenti capo all’abbazia di Monte Oliveto Maggiore, fondata da Bernardo stesso; la sua canonizzazione
è stata lunghissima ed ha subìto molte battute di arresto per concludersi solo in anni recenti, nel 2009, quando Benedetto XVI lo ha proclamato santo. Ben più veloce fu quella di Caterina da Siena (1347-1380), canonizzata nel 1461 dal papa senese Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini. La portata del messaggio spirituale di Caterina e l’importanza che la sua figura ha rivestito nella storia della Chiesa universale hanno fatto sì che nel 1939 ella fosse proclamata patrona d’ Italia – insieme a san Francesco d’Assisi – da Pio XII, quindi dottore della Chiesa nel 1970 da Paolo VI e infine compatrona d’Europa nel 1999 da Giovanni Paolo II. Nato nello stesso anno in cui morì Caterina, quasi a significare una sorta di passaggio di testimone tra i due, Bernardino da Siena (1380-1444) venne dichiarato santo da papa Niccolò V nel 1450, addirittura prima della santa, con un processo durato solo sei anni. Apice del filone francescano, egli dette impulso al movimento detto “dell’Osservanza”, promotore di un ritorno alla Regola primigenia di san Francesco come risposta alla decadenza che l’Ordine stava conoscendo in quei tempi. Per una trattazione più diffusa delle vicende dei tre santi e della loro testimonianza di fede si rimanda ai volumi ad essi dedicati all’interno di questa stessa collana.
Beati della chiesa senese
Tappa obbligata del processo di canonizzazione, la beatificazione autorizza il culto nell’ambito di una Chiesa locale, anziché di quella Universale come avviene per i santi, ma, al pari di essi, sancisce la presenza in Paradiso del beato, che può quindi intercedere con Dio per coloro che lo pregano. La mistica senese annovera un numero considerevole di beati che hanno dato esempi fulgidi di vita evangelica e che hanno costituito attraverso i secoli, e continuano a costituire ancora oggi, un punto di riferimento importante per i fedeli.
Beato Pietro da Campi detto Pier Pettinaio
Nato nel 1180 a Campi, un piccolo villaggio del Chianti senese, fin da ragazzo fu mandato a Siena come garzone in una bottega artigiana che si trovava nel cuore della città, nel vicolo che unisce Banchi di Sopra e via dei Termini, a lui intitolato verso la fine dell’Ottocento. In quella bottega, che pare divenne sua, si fabbricavano e vendevano pettini da telaio e per cardare la lana da cui il soprannome di Pettinaio – attività cui si dedicò per tutta la vita e nella quale si distinse per integrità e generosità straordinarie. Si racconta che nei giorni di mercato, per evitare di danneggiare coloro che vendevano la sua stessa merce, egli arrivasse tardi, dopo i Vespri, oppure che comprasse materiale di bassa qualità per poi disfarsene affinché nessuno potesse più venderlo truffando i compratori. Sposato ma senza figli, l’incontro con la spiritualità francescana che si stava diffondendo a quell’epoca lo portò a trascorrere un’esistenza da santo laico, rivolta alla preghiera, all’aiuto dei bisognosi e all’assistenza dei malati dello Spedale di Santa Maria della Scala. Data la sua fama e la sua onestà, lo stesso Comune gli affidò vari incarichi come scegliere i detenuti ai quali concedere l’amnistia o individuare i poveri cui assegnare le elemosine pubbliche.
Rimasto vedovo, donò tutti i suoi averi e divenne terziario francescano, appartenente cioè al Terz’Ordine di san Francesco, che accoglieva laici, uomini e donne, desiderosi di vivere nel mondo secondo la via tracciata del santo di Assisi. Gravemente malato, si ritirò presso il convento dei frati minori, dove istruì i novizi e rivolse l’ultimo periodo della sua vita alla contemplazione e alla preghiera. Morì nel 1289, all’età di centonove anni, e venne sepolto nella stessa basilica di San Francesco dove, pochi giorni dopo, il Consiglio Generale deliberò che si costruisse in suo onore un altare con ciborio. Non ci sono fonti che attestino dove questo fosse collocato e nel 1655 purtroppo scomparve per sempre a causa dell’incendio che devastò la basilica. Un secolo dopo la sua morte, la città lo invocava già come suo protettore e ne venne istituita la festa solenne il giorno 4 dicembre. Perfino Dante, nel XIII canto del Purgatorio, esaltò l’efficacia della sua preghiera, attribuendo alle sue «sante orazioni» la salvezza dell’anima della nobildonna Sapìa Salvani. La sua fama di santità venne confermata nel 1802, quando papa Pio VII lo proclamò beato, riconoscendone ufficialmente il culto nella chiesa senese. La contrada priora della Civetta, dove Pier Pettinaio aveva la sua bottega, nel 2000 ha istituito in suo ricordo una Compagnia a lui intitolata, impegnata nelle opere caritatevoli.
Convinto del valore delle azioni più che delle parole, Pier Pettinaio non ha lasciato scritti, piuttosto sono famosi i suoi silenzi, tanto che egli è conosciuto anche con l’appellativo di Tecelano (santo del silenzio) e la sua iconografia lo rappresenta spesso con un dito sulle labbra. E’ così che appare raffigurato in un riquadro dello sportello dell’Arliquiera, l’armadio delle reliquie nella sagrestia vecchia dello Spedale di Santa Maria della Scala, realizzato tra il 1445 e il 1449 da Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta. Con lo stesso gesto che indica il silenzio è presentato anche in un recente dipinto di Giovanni Gasparro, commissionato nel 2019 per la Collegiata di Provenzano, dove in più il beato stringe in mano un foglio bianco, con le parole cancellate: sono i peccati che egli era solito elencare prima della confessione, cassati nella notte da un angelo inviato dal Signore. Anche la Cattedrale custodisce un’opera che lo ricorda e che fa riferimento ad una precisa visione del beato nella quale, all’interno dello stesso Duomo, gli apparvero prima degli angeli che spandevano cenere lungo la navata centrale, quindi Cristo che percorreva la navata lasciando orme per andare a sedersi su
un trono sopra all’altare maggiore, dove lo aspettava la Madonna; entrava poi san Francesco che riusciva a calcare perfettamente le orme lasciate da Gesù fino ad arrivare all’altare maggiore ed essere accolto da Cristo e dalla Vergine. Il dipinto, collocato nei pressi della Porta del Perdono, fu realizzato intorno al 1635 da Raffaello Vanni, mentre un’altra versione dello stesso soggetto, eseguita dal padre Francesco, si trova oggi nella sede della Misericordia di Siena.
Beato Andrea Gallerani
Andrea Gallerani nacque a Siena nei primi anni del Duecento da una nobile famiglia e in gioventù si macchiò di un delitto che dovette scontare con l’esilio. Rientrato in città, per poter espiare la propria colpa, iniziò a dedicarsi completamente alle opere di carità radunando intorno a sé un gruppo di concittadini desiderosi come lui di condurre un’esistenza umile al servizio del prossimo e impiegando i suoi beni per dare vita ad un ospedale pubblico, chiamato Casa della Misericordia, che sorse presso l’attuale chiesa di San Pellegrino alla Sapienza e in parte dei locali dell’odierna Biblioteca Comunale degli Intronati. Morto il Gallerani nel 1251, i suoi seguaci, impropriamente detti frati della Misericordia perché non appartenevano ad un Ordine religioso ma ad un’associazione caritativa, divennero poco a poco sempre più numerosi, attratti dall’esempio del fondatore, e cominciarono ad indossare una veste con la lettera M. Nel 1408, tuttavia, a causa di una cattiva amministrazione, l’ospedale venne soppresso e l’edificio fu adibito dal Comune a Casa della Sapienza, destinata ad ospitare gli scolari poveri dello Studio senese. La Confraternita di Misericordia riprese vita molto tempo più tardi, nel 1835, grazie al fondamentale apporto della Compagnia di sant’Antonio abate, e nel 1852 le venne attribuito il titolo di Arciconfraternita.
Considerato santo mentre era ancora in vita, Andrea Gallerani venne sepolto nella basilica di San Domenico e la tomba fu meta così frequente di fedeli che il vescovo Bandini, nel 1274, concesse una speciale indulgenza a chi la visitasse durante il lunedì santo. Il culto, sempre profondamente vivo nella città, è stato confermato nel 1798 con la beatificazione da parte di papa Pio VI e la sua festa si celebra a Siena il 20 giugno. L’opera più antica dedicata ad Andrea Gallerani è un tabernacolo a due sportelli, dipinti su entrambi i lati, che si trova presso la Pinacoteca Nazionale di Siena, datato non oltre l’ultimo decennio del XIII secolo; gli sportelli esterni sono attribuiti a Dietisalvi di Speme, mentre quelli interni a Guido da Siena, e rappresentano un esempio straordinario di pittura preduccesca; in una delle scenette di Guido il beato tiene in mano un paiolo in rame con all’interno del cibo da distribuire ai poveri, che diventerà suo tradizionale attributo iconografico, insieme al pane. E’ così che viene raffigurato ad esempio nel busto alla sommità della ghimberga (timpano appuntito) che sovrasta il portale laterale destro della facciata del Duomo, opera seicentesca di Tommaso Redi. Di nuovo presso la Pinacoteca di Siena è conservata invece una magnifica tavola risalente alla prima metà del Trecento, opera della bottega di Simone Martini, in cui sull’abito del beato compare il monogramma della Misericordia, chiara attestazione del legame che nella prima metà del XIV secolo veniva ormai stabilito tra lui e l’istituzione.
Beato Ambrogio Sansedoni
Nel palazzo di famiglia affacciato su Piazza del Campo, edificio tra i più belli e maestosi della città, nacque nel 1220 Ambrogio Sansedoni. Si narra che, a causa di alcune deformità agli arti, venne presto affidato alle cure di una nutrice e miracolosamente guarito quando ella lo espose davanti ad un altare. A soli diciassette anni, attratto dalla nuova spiritualità dei domenicani che all’epoca avevano già cominciato a costruire a Siena la loro basilica, entrò nell’Ordine compiendo in città il noviziato per poi andare a perfezionarsi a Parigi e successivamente a Colonia, dove ebbe per maestro il futuro sant’Alberto Magno e per compagno san Tommaso d’Aquino.
Spostatosi nuovamente a Parigi, questa volta come professore, si mise in luce per l’efficacia della sua predicazione, che costituiva del resto, insieme all’insegnamento, il carisma stesso dei domenicani e il mezzo con cui essi perseguivano il loro fine: la salvezza delle anime. Abilissimo persuasore, nel 1245 impedì il verificarsi di uno scisma in Germania per i contrasti tra il Concilio di Lione e l’imperatore Federico II. Alla morte di quest’ultimo, suo figlio Manfredi tentò di recuperare i territori imperiali nel Sud d’Italia e, poiché Siena si schierò con lui, papa Clemente IV la punì con il divieto di celebrare i riti sacri. Ambrogio accorse allora dal papa, che si trovava ad Orvieto, e difese la sua città con tale vigore da convincere il pontefice. La fama delle sue straordinarie capacità diplomatiche ebbe grande risonanza e gli procurò richieste di intervento in diverse occasioni nelle quali, con la sola forza delle parole, egli placò conflitti e portò pace. Rientrato a Siena dopo tanti viaggi, fu priore del convento dei domenicani e cominciò anche in città un’intensa attività di predicazione. Nel 1286, proprio nella foga di un discorso contro l’usura, morì colpito da un malore; sepolto nella basilica di San Domenico, la devozione da parte del popolo fu immediata, così come le guarigioni prodigiose attorno al suo sepolcro. Nel 1443 il suo culto come beato fu concesso da papa Eugenio IV alla città, che ne celebra la festa il 20 marzo.
L’arte senese ha glorificato Ambrogio Sansedoni per secoli, rappresentandolo in abiti domenicani, principalmente con due attributi iconografici: il modellino della città di Siena, che egli stringe in mano a sottolineare il suo ruolo di protettore, e/o una colomba bianca che gli sussurra all’orecchio, simbolo dello Spirito Santo che lo guidava nelle predicazioni e nell’attività di pacificatore. E’ così che viene dipinto da Sano di Pietro nell’affresco quattrocentesco della Sala delle Lupe nel Palazzo Pubblico e scolpito da Tommaso Redi due secoli dopo nel busto collocato al sommo della ghimberga del portale centrale del Duomo.
Beato Gioacchino da Siena
Nato a Siena da nobile famiglia nel 1258 e battezzato con il nome di Chiaramonte, manifestò fin dall’infanzia una profonda venerazione verso la Madre di Dio che lo portò ad entrare, appena quattordicenne, nell’Ordine mendicante dei Servi di Maria, fondato a Firenze intorno al 1233 da un gruppo di sette laici. Desiderosi di dedicarsi ad una vita fatta di povertà, penitenza e preghiera, i serviti cominciarono ad attrarre un numero sempre crescente di persone e ad istituire nuove comunità anche al di fuori del territorio fiorentino. Giunti a Siena nel 1250, incontrarono subito il favore della popolazione per via del culto mariano che li accomunava alla città e dettero inizio alla costruzione di una chiesa con annesso convento. Qui Chiaramonte fu accolto da san Filippo Benizi, a quel tempo priore generale dell’Ordine, e proprio per l’amore che lo legava alla Madonna scelse il nome di Gioacchino, il padre della Vergine, per esserle così unito ancora più intimamente.
Eccetto un anno passato nell’aretino, egli trascorse tutta la sua vita nel convento senese, dedicandosi ai sofferenti e svolgendo i lavori più umili e pesanti. Si narra che, venuto a trovarsi accanto ad un malato di epilessia, desiderando condividerne il dolore, offrì sé stesso a Dio, chiedendogli che il paziente fosse guarito e che quell’infermità ricadesse su di lui. Il Signore lo ascoltò e la malattia lo accompagnò tutta la vita, non facendogli mai perdere il desiderio e la forza di mettersi al servizio degli altri. Colpito da un’ulteriore morbo che gli provocava piaghe ulcerose, lo nascose ai confratelli e non volle pregare per esserne liberato. Morì nel giorno del venerdì santo del 1305 e fu sepolto nella basilica di Santa Maria dei Servi, dove tuttora si trovano le sue spoglie, traslate in un’arcareliquiario fatta realizzare nel 1686. Venne dichiarato beato da papa Pio V nel 1609 e la sua festa viene celebrata a Siena il lunedì dopo la Pasqua di resurrezione. Ad un episodio della vita del beato è dedicata la bellissima tela di Rutilio Manetti raffigurante il Miracolo del cero (1635), custodita all’interno della stessa basilica dei Servi: la scena coglie il momento della Messa in cui Gioacchino, colpito da un attacco di epilessia, lascia andare il cero che teneva in mano e questo rimane miracolosamente sospeso in aria, come tenuto da un angelo del Signore.
Beato Giovanni Colombini
Proveniente da una ricca famiglia senese, dove era nato nel 1304, Giovanni fu un giovane raffinato e amante degli agi della vita mondana. Divenuto abile commerciante di stoffe pregiate, si dedicò per molto tempo agli affari tra Siena e Perugia, dove era proprietario di un’altra bottega. Grazie al suo successo fu chiamato anche a ricoprire importanti cariche pubbliche come quella di priore del Consiglio del popolo durante il governo dei Nove, che lo portò così a detenere, oltre a quello economico, anche un certo potere politico.
Sposatosi con Biagia Cerretani, che gli dette due figli, all’età di cinquanta anni, secondo quanto riportato da alcune fonti, ebbe una conversione fulminea dovuta alla lettura della storia di santa Maria Egiziaca, la prostituta divenuta penitente. Da quel momento decise di intraprendere una vita fatta di preghiera, povertà e imitazione di Cristo.
Dopo un cammino spirituale compiuto presso la certosa di Maggiano e il monastero di Santa Bonda, entrambi alle porte della città, convinse anche la moglie a seguire la strada dell’annuncio del Vangelo attraverso atti plateali. Donati tutti i loro averi ai bisognosi, si recarono come sguatteri presso quello stesso palazzo in cui Giovanni era stato priore, dove si sottoposero alla pubblica umiliazione, scherniti e derisi da tutti. A piedi nudi e con una tunica malconcia, il beato andava nelle piazze per predicare la povertà e l’allegrezza, come presupposti per l’ottenimento della grazia divina, attraendo sempre più seguaci e imitatori che furono chiamati Gesuati per la loro abitudine di ripetere frequentemente il nome di Gesù. Nel 1360 Giovanni Colombini fondò ufficialmente la Congregazione dei Gesuati, i cui membri presero a girovagare per le città e le campagne della Toscana assistendo i bisognosi, cantando laudi e recitando preghiere secondo lo stile dei giullari del tempo, cosa che valse loro l’appellativo di “folli di Dio”.
Ritenuti pericolosi dalle autorità civili, che temevano che quella rinuncia alla ricchezza diventasse contagiosa, Giovanni e i suoi seguaci furono messi al bando dalla città, ma utilizzarono l’esilio per diffondere con ancora più vigore il richiamo al radicalismo evangelico. Accusati così di eresia, nel 1367 si recarono a Viterbo per incontrare papa Urbano V, di ritorno da Avignone, che, appurata la loro fede genuina e sincera, approvò la Congregazione, stabilendo che da quel momento essi si sarebbero chiamati Poveri di Cristo e avrebbero indossato un saio bianco. Giovanni morì pochi mesi dopo, in pace con la Chiesa, presso il monastero di San Salvatore sul monte Amiata ma il suo corpo fu traslato a Siena e oggi si trova presso l’altare della Madonna nella moderna chiesa dell’Alberino. Fu proclamato beato circa due secoli più tardi da papa Gregorio XIII e Siena lo festeggia il 31 luglio. La Congregazione, dopo alterne vicende, venne soppressa da papa Clemente IX nel 1668.
Un’immagine del beato Colombini nella sua iconografia classica si trova all’interno del Santuario di Santa Caterina, nel cosiddetto Oratorio della cucina, dove Alessandro Casolani dipinse una tela che lo ritrae con il saio bianco legato in vita da una cintura, il mantello grigio e gli zoccoli ai piedi; lo sguardo è rivolto verso il cielo dove, tra le nubi, compare Gesù crocifisso, quel Gesù che egli aveva così ardentemente cercato di imitare.