8.6 Il monachesimo benedettino a Siena

Ordine di san Benedetto

Durante il Medioevo, prima della nascita degli Ordini mendicanti, la vita religiosa europea era per la maggior parte benedettina. Nel 529 d.C. san Benedetto da Norcia aveva fondato il monastero di Montecassino dove, alcuni anni dopo, scrisse una Regola nella quale indicava i precetti della vita comunitaria monastica: i concetti cardine erano la stabilitas loci, ovvero l’obbligo di risiedere per sempre nello stesso monastero (contro il vagabondaggio allora piuttosto diffuso di monaci o sedicenti tali) e la conversatio, vale a dire la buona condotta morale, la carità reciproca e l’obbedienza all’abate. La vita di tutti i giorni era organizzata intorno alla preghiera e al lavoro, alternati nel segno del motto «ora et labora» (prega e lavora); al tempo stesso l’opus Dei, ovvero la preghiera quotidiana corale, recitata in comune, era supportata dalla lectio divina, momento intimo di meditazione del monaco sulla parola di Dio.

Pochi decenni dopo la morte di san Benedetto, avvenuta nel 547, il monastero di Montecassino fu distrutto e non più ricostruito per molto tempo. La comunità monastica e la tradizione benedettina sembravano essere scomparse. Tuttavia, copie della Regola erano sopravvissute nelle biblioteche romane tanto che, intorno alla fine del VI secolo, papa san Gregorio Magno lodò quella Regola e il suo autore, accrescendone in tal modo la popolarità. A poco a poco i benedettini cominciarono a diffondersi in gran parte del territorio italiano ed europeo finché, nell’anno 816/17, un importante sinodo dichiarò la Regola di san Benedetto vincolante per tutti i monaci: centinaia di comunità monastiche osservarono così i precetti del santo di Norcia e i monasteri divennero al tempo stesso centri di vita religiosa e sedi di sviluppo culturale ed economico.

Primi luoghi della presenza benedettina a Siena: monasteri di Sant’Eugenio e Santa Bonda

La più antica realtà benedettina in territorio senese è costituita dal monastero di Sant’Eugenio. Venne fondato in epoca longobarda, nel 730, proprio nel periodo in cui il monachesimo di san Benedetto cominciò a fiorire con impulso sempre maggiore. Situato a pochi chilometri dalla città, venne eretto in un territorio donato ai monaci dal castaldo (funzionario) regio Warnefrido e nel corso dei secoli fu sottoposto a restauri che ne alterarono l’impianto architettonico originario. Abbandonato dalla comunità monastica nel 1786 e soppresso poi nell’Ottocento, del primitivo complesso rimangono la chiesa, i due chiostri di cui quello maggiore in stile rinascimentale e una piccola cappella cinquecentesca con volta affrescata a grottesche. La chiesa, anch’essa ampiamente rimaneggiata con l’abbattimento del campanile e il rifacimento della facciata in cotto, è caratterizzata esternamente da un tiburio cilindrico che racchiude la cupola. All’interno si conserva una ricca ed eterogenea serie di pitture databili tra il Quattrocento e il Seicento, realizzate da artisti quali Benvenuto di Giovanni, il Riccio e il Sodoma.

Poco distante da quello di Sant’Eugenio, sorse il monastero benedettino femminile dei Santi Abbondio e Abbondanzio, detto poi di Santa Bonda, anch’esso di origine antichissima, fondato nell’anno 801. Oggi di proprietà privata, l’originaria struttura romanica è testimoniata dai resti architettonici della chiesa rintracciabili nell’abside esterna semicircolare con paramento in bozze di tufo e motivo ornamentale ad arcatelle pensili. Luogo di alta spiritualità in periodo medievale, il monastero fu frequentato da santa Caterina e dal beato Colombini, senese contemporaneo della santa e fondatore dell’Ordine dei gesuati, che qui fu sepolto per qualche tempo.

San Bernardo Tolomei e i monaci benedettini olivetani

Agli inizi del XIV secolo prese vita un nuovo movimento monastico benedettino, fondato da san Bernardo Tolomei, un’altra figura religiosa di straordinario rilievo cui la città di Siena, insieme a santa Caterina e a san Bernardino, ha dato i natali. Erede di una delle famiglie nobili più potenti della città, nacque nel 1272 e fu battezzato con il nome di Giovanni; studiò diritto e, ancora giovanissimo, diventò docente di giurisprudenza nella prestigiosa università senese. Furono i domenicani, già presenti a Siena da anni, a trasmettergli una fede autentica e un grande amore per la carità e la preghiera, virtù che lo accompagneranno in tutto il suo percorso. All’età di quaranta anni, colpito da cecità, promise di votarsi alla vita religiosa se avesse recuperato la vista, cosa che miracolosamente avvenne. Così, insieme ad alcuni compagni, anch’essi di nobili origini, si ritirò ad Accona, una desolata terra di famiglia a circa trenta chilometri a sud- est della città, per vivere da eremita all’interno di grotte, dedicandosi alla preghiera, al lavoro manuale e alla penitenza.

Alcuni anni dopo, nel 1319, esortato a strutturare la sua comunità dal vescovo di Arezzo, ottenne un decreto di erezione per il futuro monastero, da istituire sotto la regola di san Benedetto, e dette vita così alla Congregazione di Santa Maria di Monte Oliveto, il cui nome manifesta già la devozione alla Vergine con in più il riferimento al Monte degli Ulivi di Gerusalemme, luogo della preghiera e della cattura di Cristo prima della Passione, oltre che della sua Ascensione. Seguendo la Regola benedettina, egli assunse il nome di Bernardo in onore del grande abate cistercense Bernardo di Chiaravalle e abbandonò la primitiva scelta eremitica per l’adozione della vita in comune, anche se i monaci indossarono un abito bianco al posto di quello nero tradizionale dell’Ordine, per quel desiderio di onorare Maria Santissima che caratterizza ancora oggi la spiritualità della Congregazione. L’altro elemento peculiare degli olivetani fu la temporaneità della carica di abate che, anziché protrarsi fino alla morte, durava un solo anno;

Bernardo rifiutò da principio di essere nominato tale, non ritenendosene degno, ma poi i monaci, a prova della sua eccezionale personalità, lo elessero per ventisette anni di seguito facendogli ricoprire quella carica dal 1321 fino al 1348, quando la peste interruppe la sua esistenza presso il monastero di San Benedetto ai Tufi, detto anche Monte Oliveto Minore, alle porte di Siena. Prima della sua morte, infatti, oltre al monastero di Monte Oliveto Maggiore, la primitiva casa madre, egli aveva fondato altri dieci monasteri e nel 1344 aveva ottenuto da papa Clemente VI l’approvazione canonica della Congregazione.

Venerato mentre era ancora in vita, Bernardo ricevette presto riconoscimenti pubblici della sua santità e la Congregazione olivetana lo ha considerato beato sin dalla sua morte. Nel 2009, dopo una lunghissima causa di canonizzazione, è stato proclamato santo da papa Benedetto XVI.

Abbazia di Monte Oliveto Maggiore

Circondata dalla pace del magnifico paesaggio delle crete senesi con i suoi sorprendenti calanchi, nel luogo argilloso un tempo chiamato ‘deserto’ di Accona, la sua prima pietra fu posta nel 1319, ma la costruzione si protrasse nei secoli. L’abbazia si presenta come un complesso articolato e imponente, interamente costruito in mattoni rossi, cui si accede tramite un ponte levatoio e un edificio medievale, adibito a porta di ingresso fortificata, sovrastato da una torre quadrangolare con merlature alla sommità.

La struttura è quella classica delle abbazie benedettine, con un chiostro principale e altri più piccoli, una chiesa, una sala capitolare e un refettorio. Cuore del monastero è il chiostro grande, luogo che indica simbolicamente la stessa vita monastica come comunione con i confratelli e con Dio: da qui si può accedere ad ogni altro ambiente e la mancanza di tetto ha la precisa ragione di mantenere un contatto fisico con il cielo, quindi con Dio. Le pareti sono dipinte lungo tutto il perimetro con scene raffiguranti Storie della vita di san Benedetto.

Realizzate tra il 1495 e il 1505 da Luca Signorelli e Giovanni Antonio Bazzi, detto il Sodoma, esse rappresentano una delle più importanti testimonianze della pittura italiana del Rinascimento maturo. Accanto al chiostro sorge la chiesa, costruita nel Quattrocento ma rinnovata in forme barocche nella seconda metà del Settecento. L’interno, con pianta a croce latina, è uno scrigno luminoso di opere d’arte tra le quali spicca il coro ligneo intagliato e intarsiato tra il 1503 e il 1506 da fra’ Giovanni da Verona, un monaco olivetano che risiedette per alcuni anni a Monte Oliveto e che qui realizzò questo capolavoro, parte del quale venne poi collocata nel Duomo di Siena. Composto da stalli o scranni uniti tra loro, il coro è un elemento tipico delle chiese monastiche perché funzionale alla preghiera in comune dei monaci o opus Dei, momento essenziale della vita all’interno del monastero. Allo stesso fra’ Giovanni si deve anche il disegno della monumentale biblioteca, luogo fondamentale nella tradizione olivetana, costruita in stile rinascimentale, con impianto a tre navate divise da colonne con capitelli in pietra serena. Vi si conservano manoscritti e incunaboli di raro valore.

Da sempre centro di straordinaria importanza, abitata ancora oggi da una nutrita comunità di monaci, l’abbazia di Monte Oliveto Maggiore è casa madre di tutte le comunità olivetane nel mondo e il suo abate è ex officio abate generale dell’intera Congregazione benedettina olivetana. Il simbolo che la contraddistingue è un monte a tre cime, con una croce che sovrasta quella centrale e due rami di ulivo in quelle laterali.

Monastero di San Benedetto ai Tufi

A distanza di pochi anni dalla fondazione dell’abbazia di Monte Oliveto Maggiore, san Bernardo Tolomei dette vita al monastero di San Benedetto a Porta Tufi, detto anche Monte Oliveto Minore, che rappresentò dunque la prima filiazione della casa madre. Soppresso nel 1808 e poi distrutto, era posto lungo l’odierna strada che conduce al Camposanto della Misericordia, poco fuori dalla cinta muraria di Siena, in una posizione che esplicita l’essenza stessa della spiritualità olivetana, fatta di solitudine e preghiera ma anche di carità e accoglienza nei confronti di pellegrini e bisognosi.

Notevole fu il peso storico che questa realtà ebbe nella vita senese dell’epoca, perché rappresentò il legame tra Monte Oliveto Maggiore e la cultura cittadina del tempo. Inoltre, san Bernardo vi trascorse l’ultimo anno della sua vita per assistere i malati durante la Peste Nera del 1348. Ucciso egli stesso dal morbo, sebbene il suo corpo non fosse mai stato ritrovato in quanto sicuramente gettato in una fossa comune, come accadeva a tutti gli appestati, per coloro che lo veneravano il monastero ne divenne la tomba e il culto cominciò a diffondersi subito dopo la sua morte.

La chiesa poté dirsi ultimata nella seconda metà del Trecento mentre i lavori di costruzione e ampliamento del resto del complesso si protrassero fino alla fine del Quattrocento. L’importanza di questo monastero è rivelata anche dalla straordinaria qualità delle opere d’arte che le fonti attestano essere state presenti al suo interno, eseguite da artisti di grande rilievo ed oggi disperse in varie sedi: tra di esse si segnalano il gruppo scultoreo raffigurante il Compianto su Cristo morto realizzato da Francesco di Giorgio Martini, oggi nella chiesa dei SS. Niccolò e Giacomo a Quercegrossa, il dipinto di Beccafumi con le Stimmate di Santa Caterina, conservato presso la Pinacoteca Nazionale di Siena, e gli stalli del coro di fra’ Giovanni da Verona, trasferiti presso la casa madre di Monte Oliveto Maggiore.

Chiesa di San Cristoforo

Il culto di san Bernardo è particolarmente legato alla chiesa cittadina di San Cristoforo, che sorge nella centralissima piazza Tolomei, dominata dall’omonimo palazzo della potente famiglia, elegante esempio di architettura gotica civile duecentesca. La chiesa venne costruita tra il secolo XI e il XII e la sua importanza è attestata da documenti medievali che testimoniano il suo utilizzo per le riunioni del Consiglio generale del Comune.

Se le tracce più antiche sono riscontrabili in parte dei muri perimetrali esterni e nell’abside, l’aspetto attuale della chiesa si deve alla trasformazione di inizio Ottocento, in seguito ai danni riportati dall’edificio nel terribile terremoto che colpì la città nel 1798. Furono gli stessi Tolomei a finanziare il rifacimento della facciata in forme neoclassiche, oggi in mattoni ma all’epoca coperta di intonaco, secondo il gusto del tempo. Scandita da semicolonne che sostengono un timpano con trabeazione, essa presenta ai lati due nicchie all’interno delle quali sono poste le sculture di Giuseppe Silini raffiguranti san Bernardo e la beata Nera Tolomei, altra figura religiosa della famiglia, terziaria domenicana come santa Caterina. Bernardo stringe in mano un teschio, simbolo del rifiuto dei piaceri della vita tipico di penitenti ed eremiti, allusione alla prima fase della sua esperienza spirituale nel deserto di Accona.

Del patrimonio artistico della chiesa, di cui molte opere sono oggi conservate presso il vicino Museo Diocesano d’Arte Sacra, fa parte anche il gruppo scultoreo dell’altare maggiore raffigurante il Transito di San Benedetto, realizzato alla fine del Seicento da Giovanni Antonio Mazzuoli per il monastero olivetano di San Benedetto ai Tufi e trasferito nella sede attuale dopo la sua soppressionione.

Vallombrosiani a Siena Abbadia Vecchia e Abbadia Nuova

Quella degli olivetani non fu la sola presenza benedettina nel territorio senese. Nel 1039 san Giovanni Gualberto, monaco presso il monastero benedettino di San Miniato a Firenze, dopo aver accusato di simonìa (compravendita di cariche ecclesiastiche) il suo abate, si ritirò nei vicini boschi di Vallombrosa e, insieme ad altri due monaci, fondò un’abbazia dando vita ad una nuova forma di osservanza monastica, che univa le austerità e le penitenze della vita eremitica alla convivenza con i confratelli. Il punto di divergenza fondamentale rispetto alla regola benedettina fu la proibizione del lavoro manuale a favore di un’esistenza totalmente dedita alla preghiera e alla pura contemplazione, che ebbe come conseguenza l’inedita introduzione nei monasteri di fratelli laici, chiamati conversi, addetti esclusivamente a tali lavori. Nel 1055 la Congregazione di Vallombrosa fu approvata da papa Vittore II.

La presenza dei vallombrosani a Siena, attestata dalla prima metà del XII secolo, è legata all’abbazia di San Michele al Monte di San Donato, meglio conosciuta come Abbadia Vecchia, situata a pochi passi da quella che è oggi la via del passeggio cittadino. Del complesso rimane soltanto la chiesa che, fatta eccezione per il tiburio ottagonale, ha perduto le originarie forme romaniche e mostra all’interno un aspetto barocco risalente alla fine del XVII secolo. Il prospetto a capanna, sebbene alterato dal restauro della prima metà del Novecento, presenta la parte inferiore in pietra e quella superiore in laterizio, con rosone centrale. Ai lati di quest’ultimo si vedono ancora gli stemmi dei Cavalieri di santo Stefano, cui la chiesa venne concessa dal granduca di Toscana dopo l’abbandono dei vallombrosani nella seconda metà del Cinquecento. Passata poi ai carmelitani, divenne sede di parrocchia nel 1816.

Il secondo monastero vallombrosano in città fu quello intitolato ai santi Filippo e Giacomo, detto di Abbadia Nuova, edificato nel corso del Duecento e, come l’Abbadia Vecchia, abbandonato tre secoli più tardi. Occupato poi dalle monache di santa Chiara e in seguito dai monaci olivetani, venne soppresso nel 1866 e successivamente adattato per ospitare una caserma militare. A parte il chiostro, rimane ben poco dell’antico monastero: la chiesa doveva avere una facciata in laterizio su basamento in pietra, con un grande occhio centrale e un interno a pianta rettangolare con tre navate e cinque altari. Venne purtroppo quasi completamente demolita durante la Seconda Guerra mondiale quando i tedeschi in fuga la minarono, facendola saltare in aria.

Camaldolesi a Siena Monastero di Santa Mustiola e Chiesa di San Vigilio

Altra forma del monachesimo benedettino presente a Siena fu quella camaldolese. La Congregazione venne fondata da san Romualdo, monaco ravennate vissuto a cavallo tra il X e l’XI secolo. Abbandonato il monastero di cui faceva parte per assecondare la sua vocazione alla solitudine e il desiderio di rinnovare la vita eremitica, visse dapprima in territorio veneziano e poi in Catalogna; rientrato in Italia e ricevuto intorno al 1012 il terreno di Camaldoli, vi costruì un eremo e un cenobio, indipendenti tra loro. Con la sua riforma, infatti, egli non creò nessun vinco

lo tra monasteri ed eremi, rifiutando il precetto benedettino secondo cui un eremita, prima di divenire tale, dovesse essere a tutti i costi un cenobita. Gli eremiti vivevano dunque isolatamente, in celle separate entro il recinto dell’eremo, dediti alla preghiera e al canto dei salmi, mentre i cenobiti o monaci risiedevano in edifici comuni, intenti in opere di ministero spirituale. Lo stesso simbolo dei camaldolesi, due colombe che si abbeverano ad un calice, traduce in immagine questo concetto indicando la vita contemplativa degli eremiti e quella attiva dei monaci che si dissetano alla stessa fonte, Cristo.

L’esperienza camaldolese all’interno delle mura cittadine di Siena, è testimoniata da quello che era un tempo il complesso conventuale di Santa Mustiola, o della Rosa, poco distante da Porta Tufi, oggi sede dell’Accademia dei Fisiocritici. Sorto sul finire del XII secolo, il primitivo impianto romanico è andato completamente perduto a causa delle trasformazioni realizzate nel corso dei secoli; rimangono il grande chiostro cinquecentesco, la sala delle adunanze in stile neoclassico e la chiesa, adibita ad auditorium e sala per conferenze. Le sue più antiche strutture sono ancora visibili nel transetto e nell’elegante campanile a vela a tre fornici, mentre l’interno è barocco, con grandi altari, stucchi ed affreschi settecenteschi.

L’altra sede dei camaldolesi in città fu la centrale chiesa di San Vigilio. Eretta nel secolo XI dall’antica famiglia senese degli Ugurgieri, nel 1131 venne donata ai monaci che fino al 1420 risiedettero nell’attiguo monastero, oggi sede dell’Università di Siena. Passata ai gesuiti e poi ai vallombrosani, la chiesa è divenuta Cappella universitaria nel 1991 per volere dell’allora arcivescovo Gaetano Bonicelli, con l’intento di garantire un’adeguata cura pastorale agli studenti. L’edificio presenta una facciata in laterizio terminate con un timpano racchiuso da un frontone dentellato. L’interno, costituito da un’aula rettangolare sui cui si aprono cappelle laterali, presenta una ricca ornamentazione scultorea e un maestoso soffitto ligneo a cassettoni in cui si inseriscono tele di Raffaello Vanni raffiguranti il Giudizio universale.

I Comuni di Terre di Siena