7.1 Il granaio di Siena
La bellezza della Val d'Arbia, da Siena alla grancia di Cuna
«Quand’era piovuto molto, dall’aia si sentiva scrosciare la Tressa; e i piani si allagavano; i pioppi umidi e la creta lavorata luccicavano. Di Siena, dietro quattro o cinque poggi sempre più alti, quasi a chiocciola, si vedevano soltanto le mura; tra la Porta Romana e la Porta Tufi. Dalle mura in giù, i prati e i grani scendevano tagliati da poche strade; riunendosi a spicchi, verso qualche podere; con le case sui cocuzzoli dei poggetti, accerchiate dai cipressi. Si sentiva il treno della Val d’Arbia; quando, secondo i contadini, era segno di piovere».
(Federigo Tozzi, Il Podere)
Porta Romana rivolge il suo sguardo in direzione della Val d’Arbia e poi oltre, verso la Val d’Orcia; idealmente fino a Roma, da cui prende il nome. Una volta superata la porta, lasciamo alle spalle la città murata e iniziamo a pedalare lungo quella che fu la Via Francigena – Romea, strada di cui «Siena è figlia», come ebbe a scrivere lo storico Enrico Sestan in una puntuale sintesi tra storia, sviluppo economico e territorio.
La costruzione di Porta Romana, porta monumentale, una sorta di “biglietto da visita” di straordinaria eleganza e bellezza per chi arriva a Siena da sud, rientrò nel piano di ampliamento delle mura urbane progettato dal Governo dei Nove all’inizio del Trecento. Completata nel 1329, come conferma la lapide con la Balzana che troviamo murata a sinistra del fornice principale, la Porta risponde al ruolo di “rappresentanza civica” che il governo cittadino volle assegnare alle nuove porte, come anche Porta Pispini, costruite in epoca in cui i pericoli esterni risultavano meno pressanti.
A conclusione dei lavori, la costruzione risultò talmente maestosa che Agnolo di Tura del Grasso, autore intorno alla metà del XIV secolo della “Cronaca senese”, la definì «grande e bella, di gran difitio più che porta che sia in Italia».
Questa rimase la preoccupazione principale dei governanti senesi che a varie riprese adottarono misure per aumentarne la bellezza e per tutelarne la visibilità. In tal senso, nel 1408 il Concistoro ordina la demolizione del vicino convento di San Barnaba, reo di impedirne la visuale da Valli e, nel 1484, il Consiglio Generale stabilisce di abbattere una porzione dell’ospedaletto di Santa Caterina delle Ruote, che probabilmente sporgeva sulla strada (odierna via Piccolomini), e oscurava il panorama della campagna circostante, «la quale veduta dipoi coll’occhio si scorge da la porta per infino presso a la volta di Valli, che in vero sarà bellissimo acconcio ed ornato et utile per molti rispecti».
Sempre nell’ottica di ampliarne la bellezza, la porta venne decorata e abbellita con l’affresco, posto sulla grande edicola del torrione, raffigurante “L’Incoronazione della Vergine”, commissionato e iniziato da Stefano di Giovanni detto il Sassetta e, dopo la sua morte, portato a compimento da Sano di Pietro.
Subito in aperta campagna, seguiamo le indicazioni “Francigena sud” lungo un percorso che ci porterà fino a Cuna per poi tornare indietro, su altro tracciato, risalendo le colline sulle quali si adagia la Città del Palio.
Imboccata la Strada di Certosa, incontriamo la bellissima Certosa di Maggiano lungo un tracciato ormai lontano dal grande traffico che scivola verso la Val d’Arbia in un alternarsi di agili salite e altrettanto facili discese.
La fondazione della Certosa di Maggiano è datata 1314 quando il cardinale Riccardo Petroni, certosino, di famiglia ricchissima, decide di costruire un luogo riservato alla meditazione e alla preghiera. Ma nello stesso 1314 il cardinale muore ed il suo esecutore testamentario, il cugino Bindo Falcone, nel 1316, avvia i lavori del complesso monastico che, nel corso del tempo, diventerà un importante centro di ritiro spirituale. Nel 1554, durante l’assedio ispano – mediceo di Siena, la Certosa venne incendiata e in gran parte distrutta; riuscì tuttavia ad esistere fino al 1782 quando il granduca di Toscana Leopoldo II decise di abbattere le diciassette c
elle dei frati ed allineare l’intero complesso, ad eccezione della chiesa che divenne parrocchia. Nel 1969, ormai proprietà di privati, si avvia una totale ristrutturazione per opera di Renzo Mongiardino, scenografo e architetto nominato all’Oscar, volta a coniugare il tenore storico del luogo con quella che è divenuta è la sua natura: un albergo di lusso con diciassette camere come diciassette erano state le celle dei frati.
Siena è ormai dietro di noi e se ci fermiamo un attimo ne possiamo ammirare tutta la sua struggente bellezza, come scrive lo scrittore senese Paolo Cesarini: «Di lassù compariva come un regalo la città sdraiata lunga e rosata sulle colline con le torri ingiallite e il duomo posato sopra che brillava di bianchezza».
La strada diventa sterrata per un breve tratto (attenzione perché la discesa presenta un fondo parzialmente dissestato) e all’altezza di una fontanella si fa ciclopedonale per alcune centinaia di metri, per riprendere poco oltre (seguire le indicazioni Francigena sud) fino alla zona industriale di Isola d’Arbia. Un breve tratto di Cassia ci conduce proprio alla frazione di Isola d’Arbia, località situata lungo la strada del pellegrinaggio medievale, come testimonia la bella chiesa di Sant’Ilario. Ci troviamo in piena Val d’Arbia, storico granaio della Repubblica di Siena, ancora oggi votata alla coltivazione del frumento.
La piccola chiesa di Sant’Ilario è caratterizzata da una facciata romanica decorata ad archi bicolori e da un campanile a vela. Anche la volta del portale è bicroma, mentre una piccola finestra a forma di croce si apre sopra le arcate. Molto hanno fatto discutere i simboli posti sulla sua facciata: un fiore (o croce?) è scolpito su un blocco di pietra incassato nella muratura, in alto a destra, accanto al quale si trova una scena zoomorfa; una croce è incisa anche al centro all’archivolto del portale. Essendo uno dei tanti luoghi di sosta dei pellegrini, era uso lasciare dei “segni distintivi” in vari punti del cammino per provare l’avvenuto viaggio. Il più noto è la “conchiglia”, per chi era stato a Compostela, ma poteva essere una palma se si era recato in Terrasanta, e così per ogni meta di culto e devozione visitata.
Subito dopo Isola d’Arbia, prima di arrivare a Ponte a Tressa, al lato di una breve ciclopedonale adiacente alla SS2 Cassia, si erge una singolare costruzione in evidente stato di abbandono, che non passa inosservata. Si tratta dell’ex Idit di Isola d’Arbia, opificio industriale inaugurato nel 1960 alla presenza delle più alte autorità politiche e religiose, ma, praticamente, mai entrato in funzione. La struttura, in ferro, vetro e cemento, alta circa 50 metri, doveva servire per la produzione di pomodori liofilizzati, costituendo un chiaro esempio di fabbrica innovativa. Un mese dopo la sua inaugurazione, cessò definitivamente la propria attività.
Ciò che rimane del silos ha fatto discutere per decenni politici e cittadini; sulla sua sorte sono state fatte petizioni e richieste di demolizione mai andate avanti, sia perché si sarebbe trattato di un’operazione troppo onerosa, sia perché la struttura è considerata da taluni una “testimonianza di architettura industriale”. La torre, tentativo fallito di industrializzazione di un territorio, risulta eccentrica rispetto alle campagne che la circondano. Questo “eco-mostro”, abbandonato ed in stato di grave degrado, paradossalmente è diventato parte del paesaggio della Toscana meridionale, sul cui riutilizzo si sono susseguite varie ipotesi: farne una struttura turistico ricettiva, un centro attrezzato per chi pratica cicloturismo vista la sua posizione lungo la via Francigena, o anche, e questa è l’ultima in ordine temporale, trasformarlo in un museo di arte contemporanea.
La Val d’Arbia
La Val d’Arbia è un fondovalle alluvionale segnato dal corso meandriforme del fiume Arbia, vera e propria arteria fluviale lungo la quale sono sorti nel tempo importanti insediamenti urbani, testimonianze di una feconda vivacità di traffici commerciali. Fu proprio in simili pianure alluvionali che nel Medioevo si svilupparono scambi commerciali, produzioni agricole e utilizzo di risorse energetiche; qui le acque dell’omonimo fiume furono canalizzate in un sistema articolato di gore per essere utilizzate nello sviluppo delle produzioni agricole e per l’alimentazione di cartiere e mulini, questi ultimi legati al complesso sistema delle grance, il cui esempio più pregnante è costituito dalla Grancia di Cuna.
Oggi, una risorsa della valle e dei territori circostanti è costituita dalla produzione del Val d’Arbia DOP, un vino che comprende le tipologie di vino Bianco, Rosato e Vin Santo.
Arriviamo così a Ponte a Tressa, un tempo noto come Sant’Angelo a Tressa.
Ponte a Tressa
Insediamento fin dall’epoca etrusca, conosce il periodo di massimo splendore a partire dal XII secolo, come attestano documenti che indicano la presenza di un “castellare”, di ben due chiese, di uno “spedale” e di uno o due mulini. Tressa fu in seguito uno dei cosiddetti comunelli delle Masse del Terzo di San Martino di Siena e il centro delle prime, importanti donazioni di beni nei confronti dell’ospedale cittadino di Santa Maria della Scala nelle cui mani finì anche l’antico ospedale di Tressa, costruito nel 1219 ad opera del banchiere Ugolino Quintavalle. L’attuale chiesa di San Michele Arcangelo o Michelangiolo, anticamente dedicata alla Madonna, era posta accanto alla vecchia struttura ricettiva dei pellegrini lungo la Francigena.
Abbiamo detto che Ponte a Tressa faceva parte delle “Masse di Siena”. Dato che nei vari percorsi ricorrerà spesso questa denominazione è giusto specificare che per Masse di Siena si intendeva quella fascia di territorio che si trovava intorno alle mura di Siena per un raggio da sei a otto chilometri. Dal XIII secolo almeno godeva di un particolare stato giuridico-amministrativo ed erano suddivise in tre comunità autonome, corrispondenti ai tre Terzi in cui è territorialmente divisa la città: la Comunità delle Masse del Terzo di Città, quella delle Masse del Terzo di San Martino e quella delle Masse del Terzo di Camollia.
Il territorio delle Masse, costellato di borghi, ville e casolari, era composto da piccoli poderi e orti a coltivazione intensiva, costituendo una specie di cuscinetto fra città e contado, dal quale ancora fino al primo dopoguerra si distingueva per i costumi e modo di parlare.
La riforma giurisdizionale operata da Pietro Leopoldo del 2 Giugno 1777 soppresse la Comunità delle Masse del Terzo di Camollia, ripartendo i 17 Comunelli (cioè i piccoli insediamenti che la costituivano) fra quella del Terzo di Città e quella del Terzo di San Martino.
A Ponte a Tressa lasciamo la trafficatissima SS2 Cassia per piegare, all’altezza di un semaforo, sulla destra per poi, dopo qualche centinaio di metri, iniziare un suggestivo tracciato in macadam che va a intercettare il grumo di case che si addossano alla Grancia di Cuna, la possente mole dal colore rosso dei mattoni con cui è costruita che domina tutto il territorio circostante. Il tracciato sterrato zigzaga in un territorio pianeggiante o appena mosso, privo di alberature, proprio ai piedi delle dolci colline che risalgono il territorio delle Crete punteggiato di radi casolari. Siamo alle porte di Monteroni d’Arbia, importante centro dell’omonima valle che attraverseremo in un altro itinerario.
Grancia di Cuna
Nell’Ottocento, Giuseppe Merlotti, nella sua “Relazione storica di tutte le moderne e antiche parrocchie della campagna comprese nella diocesi di Siena”, così descrive il borgo di Cuna: «Lungo la sinistra della strada Romana, sulle pendici di un delizioso fertil colle ed a principio del Piano della Val d’Arbia, risiede la chiesa di Cuna, col grandioso Palazzo, che fu una delle Grance appartenente allo Spedale di S. Maria della Scala di Siena».
Qui, fin dall’XI secolo era presente uno xenodochio (sorta di ospedale e luogo di accoglienza per i viandanti) e una chiesa, poi, nel Duecento, l’intero territorio passò sotto il controllo senese ed un podere, posto sul “poggiarello di Cuna e Castelluccio”, fu donato al Santa Maria della Scala di Siena che nel 1314 decise di costruire la possente fattoria fortificata (detta grancia) che ancora oggi domina il territorio.
Cuna amministrava case, poderi, botteghe, colombai, fornaci di mattoni e di calcina, mulini ed osterie, e serviva da deposito di grano, farina, cereali che qui affluivano da tutto il circondario. Divenuta il principale fornitore di granaglie della città, funse anche da magazzino di riserva in caso di epidemie e carestie.
Nel 1366 la grancia venne cinta di mura e dotata di una permanente guarnigione armata; nel XV secolo fu costruito un secondo anello di mura, di cui restano integre la porta principale e la torre. che racchiuse la fattoria e tutto il villaggio sorto attorno ad essa.
Proprio per essere posta lungo la Francigena, Cuna ospitò papi e re: nel 1386 Urbano VI, nel 1420 Martino V e nel 1451 Paolo III. Nel 1640 vi morì Carlo di Guisa della famiglia dei Lorena, e la tradizione vuole che le sue viscere riposino ancora nella chiesa del borgo, dedicata ai Santi Giacomo e Cristoforo, che conserva resti di affreschi trecenteschi e quattrocenteschi, tra i quali quello che rappresenta San Giacomo Maggiore e Sant’Ansano (patrono di Siena), attribuito a Taddeo di Ruffolo, detto anche Maestro dell’Osservanza.
Cuna costituisce il punto più a sud di questo itinerario che per tornare a Ponte a Tressa proponiamo su due diversi tracciati. Uno, un po’ più lungo, ma assolutamente senza traffico, lungo lo sterrato precedentemente percorso, l’altro, più breve, sulla SS2. Arrivati comunque a Ponte a Tressa, proseguiamo sulla Cassia fino al km 219 dove prendiamo sulla destra ancora lungo la Strada Comunale di Fonte Murata fino alla zona Renaccio. Qui arrivati, ad una rotonda seguiamo le indicazioni per Firenze – Siena – Grosseto e iniziamo a pedalare in salita per poco più di due chilometri. Si tratta dell’unica asperità della giornata, per altro dalla pendenza mai particolarmente impegnativa, che ci riporterà in quota, di nuovo sulla statale.
Siena si staglia all’orizzonte con il suo inconfondibile profilo, «divisa – citando ancora Paolo Cesarini – alla perfezione dalla campagna dal regolare sbarramento delle mura».
Prima di arrivare a Porta Romana segnaliamo, al km 225 della Cassia, il complesso di Santa Maria a Bellemme, chiesa e ospedale medievale per pellegrini lungo la Francigena edificati prima del 1236 e gestiti dall’Ordine monastico-cavalleresco dei Betlemitani, detto anche Ordine dei Crociferi, fondato in Terrasanta nel XII secolo e rimasto attivo fino al XVII. Nel passato la chiesa assunse una specifica importanza per il legame che esisteva tra questa, la basilica della Natività di Betlemme e l’episcopato che, dopo la conquista dell’Oriente crociato, aveva in essa la propria sede.