4.1 La storia sui Muri: Terzo di Città
(Prima parte)
La risistemazione di piazza dell’Indipendenza
Iniziamo il nostro percorso da piazza dell’Indipendenza, denominazione che questo spazio urbano ha ricevuto nel 1879, quando l’Amministrazione Comunale lo individuò per ospitare il Monumento ai caduti per l’Indipendenza italiana appartenenti alla Provincia di Siena, appena ultimato dallo scultore senese Tito Sarrocchi. La statua, commissionata all’artista nel 1875, oggi non è più presente nella piazza: nel 1958 fu traslata per questioni di viabilità nel quartiere extra moenia di San Prospero, all’interno del giardino di viale Pannilunghi. A parte questo spostamento, piazza dell’Indipendenza ha mantenuto la scenografia acquisita tra gli anni settanta e ottanta del XIX secolo: il marmo di Sarrocchi si ergeva nello spiazzo antistante la loggia a tre fornici, di gusto neo-rinascimentale, edificata dall’architetto Archimede Vestri, che dovette progettare anche le facciate dei palazzi laterali gemelli, recanti in alto lo stemma della famiglia Ballati. Anche il coronamento neo-gotico del fabbricato retrostante la loggia, posto ai piedi della medievale torre detta dell’Orsa (innalzata sopra le case appartenute un tempo ai Gallerani), venne realizzato in quell’occasione. Ai primi dell’Ottocento, invece, la piazza doveva presentarsi con una conformazione molto diversa, più stretta e dominata dalla facciata della chiesa di San Pellegrino, antica parrocchia cittadina menzionata sin dal secolo XI, la cui parte tergale era appoggiata alla torre dell’Orsa. Per questa ragione era denominata piazza San Pellegrino, nome antichissimo confermato ancora negli stradari comunali del 1861 e del 1871. Il suo accesso da via di Città, e dunque dal Campo, era particolarmente angusto, dato che all’angolo con via dei Termini svettava l’altissima torre appartenuta alla famiglia Codennacci (poi Bichi Borghesi), alla quale era appoggiato un cavalcavia, detto arco di San Pellegrino, che la collegava al fabbricato posto sull’altro lato, dove oggi sorge il palazzo dell’Accademia dei Rozzi. Per ottenere uno spazio più ampio e comodo di fronte al teatro che quest’ultima stava costruendo in quegli anni, nel 1812 la chiesa di San Pellegrino, soppresso il titolo parrocchiale già nel 1783, fu definitivamente abbattuta, anche se le opere di demolizione erano già iniziate alla fine del secolo precedente. In questo modo la superficie della piazza fu più che raddoppiata. Inoltre, per creare un migliore effetto scenografico e assicurare al Teatro dei Rozzi un accesso più dignitoso dello strettissimo vicolo medievale ancora esistente, ne venne progettato l’ampliamento, da ottenere mediante la demolizione dell’arco di San Pellegrino e della torre dei Codennacci, già sbassata nel 1772 perché pericolante, e ad una modesta riduzione del Palazzo Bichi Borghesi. Questo intervento fu realizzato nel 1807 grazie al finanziamento della banca Monte dei Paschi e di alcuni cittadini, durante il regno d’Etruria di Carlo Ludovico II di Borbone e della madre reggente Maria Luisa, e al tempo in cui Orso Pannocchieschi d’Elci era prefetto di Siena, come ricorda il lungo testo della lapide che fu apposta a capo della nuova via allargata. Giovacchino Faluschi, nella seconda edizione della sua Breve relazione delle cose notabili della città di Siena (1815), dette conto delle opere e della collocazione dell’epigrafe, asserendo che il testo latino sarebbe stato dettato dall’abate Luigi Lanzi (Treia, 1732 – Firenze, 1810), archeologo, filologo e storico dell’arte, celebre per avere dato alle stampe la Storia pittorica della Italia (1795-1796), il quale stava trascorrendo gli ultimi anni della sua vita a Firenze.
L’insegna del “cavadenti” Umberto Gregori
Proprio di fronte a questa lapide scorgiamo la simpatica e ingegnosa insegna a tondo che pubblicizzava lo studio del dottor Umberto Gregori, nativo di Castiglion del Lago e laureatosi dentista a Siena il 20 giugno 1890. L’animata scenetta rappresenta un paffuto bambinetto che sta estraendo un dente ad un altro, seduto e decisamente provato per l’operazione, non proprio indolore. Il tondo fu realizzato nel 1914 dallo scultore senese Guido Bianconi, e rientra nel genere di analoghe insegne commerciali e professionali in uso tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento, dove veniva impiegata la tipologia del “putto”, ricorrente nella grafica e nelle insegne a rilievo. Si vedano, a tale proposito, le quattro mattonelle in cemento, più o meno coeve, poste sulla facciata della ex fabbrica “Panforte Giovanni Parenti” in via Simone Martini ai numeri 86, 90, 94 e 98, modellate a basso rilievo da Ezio Trapassi nel 1920 e raffiguranti una coppia di bambini intenti a tagliare e gustare il prelibato dolce senese. Verosimilmente lo stesso Gregori dovette aprire in quegli anni anche una farmacia in piazza Tolomei numero 2, che viene menzionata tra quelle presenti a Siena nell’Annuario sanitario Italiano del 1904.
Via di Beccheria, la strada dei “carnaiuoli”
Sin dall’età medievale l’area oggi occupata dal teatro e dalla sede dell’Accademia dei Rozzi ospitava il “quartier generale” dell’Arte della Lana, la potente corporazione che raggruppava tutti i “lanaioli” della città. Nella strada adiacente, invece, significativamente chiamata via di Beccheria,
almeno dal tardo Quattrocento sorgeva il mercato coperto dei “carnaiuoli”, appellativo con cui le fonti senesi più antiche qualificavano i “becharii” (venditori della carne di becco, cioè di caprone, attività particolarmente fiorente nel Medioevo, essendo la base dell’alimentazione carnea dei ceti popolari) e i “macellarii”. Questi due ultimi nomi si cominciano a rintracciare nei documenti senesi solo a partire dal gennaio del 1349. Con motu proprio del 9 novembre 1763 il Granduca di Toscana Pietro Leopoldo decretò che la vendita di carne a Siena fosse concentrata esclusivamente lungo via di Beccheria, obbligando l’Arte della Lana a sistemare gli edifici di sua proprietà retrostanti la propria sede, in modo da potervi collocare le “carnarias tabernas”, ossia le botteghe dei macellai. Nel 1764, a lavori conclusi, fra gli archi a capo di via di Fontebranda e di Beccheria, venne murata una lapide in latino per ricordare che la corporazione aveva curato a proprie spese la risistemazione della strada.
La disposizione granducale del 1763 fu attuata immediatamente, come testimonia l’epigrafe situata al numero 2 di via di Beccheria, che rammenta la bottega di un tal Giuseppe Romboli aperta il 1 dicembre di quello stesso anno. D’altra parte anche Giovanni Antonio Pecci annota nel Giornale Sanese che nel febbraio del 1764 i macellai avevano «principiato a esercitare l’arte loro e aprire botteghe, a tale effetto comodamente adattate», lungo questa strada. I vecchi macelli ancora in uso all’epoca furono demoliti: lo stesso Pecci ne cita uno posto nei pressi della chiesa di San Cristoforo e un altro “accosto” a quella di Santa Maria delle Nevi, ma la stessa fine fecero anche «tutti gl’altri sparsi in diversi posti della città». Nel 1766-68 l’inchiesta voluta da Pietro Leopoldo per censire arti, mestieri e botteghe a Siena, registrò la presenza in Beccheria di nove macelli, tra cui uno che vendeva la cosiddetta “mala carne”, cioè quella di infima qualità, proveniente dalle bestie “morticine” o malate, e perciò molto meno costosa. Soltanto con una legge emanata il 14 giugno 1775 si consentì di aprire rivendite di carne macellata in altri luoghi, e non necessariamente sul posto.
Nel Medioevo, invece, i “carnaiuoli” avevano le proprie botteghe in varie zone della città, anche se quattro erano i principali poli di vendita della carne: ovviamente il Campo, dove si teneva il mercato cittadino di ogni genere di prodotti e beni alimentari, l’arteria costituita da via del Porrione e del Rialto, in diretto collegamento con l’area del mercato, la Galgaria (un tratto dell’odierna via di Città) e la strada di Pellicceria (un tratto dell’attuale Banchi di sopra). In prossimità delle botteghe, ad esempio in via delle Cantine, in via della Stufa Secca e nel “Mercato vecchio” (odierna piazza del Mercato), si trovavano invece gli “scorticatoi”, i laboratori dove gli animali venivano macellati, visto che una disposizione del 1337 impediva che la lavorazione avvenisse dove si vendeva la carne, con multa di 40 lire per i trasgressori. Nel secolo precedente, invece, i “carnaiuoli” portavano gli animali ancora vivi presso i loro banchi, scuoiandoli sul posto e lasciando che “intestina”, “sanguinem” e “pelles” infettassero l’intero ambiente. Anche dopo la regolamentazione trecentesca, comunque, i cattivi odori e la sporcizia conseguenti a questa attività erano notevoli, e i governanti senesi tentarono ogni strada per allontanarla dalle aree abitate della città. A tale scopo nel 1463 fu emanato un decreto in base al quale gli “scorticatoi” dovevano essere concentrati nella zona di Fontebranda, «da la cavina che è ai piei la costa in giù, e da la via che si soglie andare in Val di Piatta in giù e per questo verso la fonte». Dopo un braccio di ferro tra il Comune e l’Arte dei Macellai, che contestava la disposizione, in quanto relegare i mattatoi nell’area di Fontebranda, distante dalle botteghe al dettaglio della carne, sarebbe stato un autentico salasso per una categoria produttiva già largamente in difficoltà da un punto di vista economico, nel 1465 l’attività di macellazione si spostò nel sito individuato, lontano dalle abitazioni cittadine, dove è rimasta fino a tempi relativamente recenti. Probabilmente per venire incontro alle lamentele della corporazione, qualche tempo dopo il Comune le concesse la possibilità di utilizzare via di Beccheria, centrale e prossima al Campo, ma anche ai nuovi “scorticatoi”, per aprire un mercato coperto dove vendere la carne, attrezzato con “ceppi”, “tettoje” e “cavicchiati”. Esso è documentato a partire dal 1486, come attesta la lapide murata a fianco del portone numero 8 di via di Beccheria, raffigurante lo stemma dell’Arte dei Macellai, “una testa di bue in campo rosso”, stranamente mansueto rispetto a quello rampante dei beccai bolognesi o all’irco ugualmente rampante dei fiorentini. Da quel momento la strada prese il nome di Beccheria, attestato a partire dalla metà del XVI secolo.
Divieto di scarico in via di Diacceto
A proposito della necessità di assicurare la pubblica igiene e mantenere il decoro urbano, il problema, che a Siena stava assumendo sempre più i toni dell’emergenza, si cominciò ad affrontare di petto a partire dal Seicento. Per questo motivo vennero sparse in vari punti sensibili del tessuto urbano delle “tabelle” che ribadivano il divieto di scaricare rifiuti e detriti. Come quella situata sotto il parapetto del ponte di Diacceto, nella via omonima, datata al 1618, che prevedeva una multa ai trasgressori pari a 25 lire per il proprietario dei rifiuti, e a 7 lire per chi li aveva trasportati. Essa veniva raddoppiata nel caso in cui l’infrazione fosse avvenuta di notte, cioè con il chiaro proposito di infrangere la legge. Già all’epoca si applicava il principio della responsabilità oggettiva nei confronti del proprietario dei rifiuti, che non poteva scaricare le proprie colpe sul mero esecutore materiale dell’infrazione («e sia obbligato il padrone per il manuale») e, anzi, era costretto a pagare un’ammenda più che tripla rispetto a quest’ultimo.
L’insegna dell’albergo “La Scala”, uno dei più rinominati di Siena
Proprio dal ponte di Diacceto si può vedere, seppur sbiadita dal tempo, l’insegna dell’“Albergo e Ristoratore La Scala” dipinta sulla facciata retrostante dell’edificio che lo ospitava, il cui ingresso era posto in piazza San Giovanni, di fronte alla scalinata del Battistero, ciò che spiega il suo nome. L’albergo e osteria “La Scala” esisteva perlomeno dalla fine del XVII secolo. Nelle Memorie, infatti, Girolamo Macchi chiama il breve tratto coperto di via di Diacceto, compreso fra via dei Pellegrini e il vicolo delle Carrozze, «chiasso dell’Osteria della Scala», con chiaro riferimento al fatto che fiancheggiava la struttura. Inoltre un documento conservato presso l’Archivio Arcivescovile di Siena, datato al 1694, riporta la notizia che un contadino di Colle val d’Elsa, venuto in città per vendere vino di sua produzione, fu colto da un’improvvisa colica e portato “nell’Ostaria della Scala”. Essa è citata anche nel Giornale Sanese tenuto dall’erudito settecentesco Giovanni Antonio Pecci, avendo offerto 21 libbre di cera in occasione della Domenica in Albis del 1725, quando ad essere solennemente traslata in Duomo fu la veneratissima Madonna di Provenzano. Pure il nome dell’adiacente vicolo delle Carrozze si deve alla presenza dell’albergo. La stradina, infatti, ben si prestava ad essere usata come “parcheggio” delle carrozze e dei cavalli di proprietà dei signori che alloggiavano presso “La Scala”, sia perché vi si affacciavano molte stalle e magazzini, sia per essere appartata e chiusa sul lato di via Franciosa, che è stato riaperto solo nel 1982. Il cancello, tuttora esistente dalla parte di via di Diacceto, veniva tenuto chiuso quando non doveva passare nessuno, con un addetto della struttura che provvedeva ad aprirlo quando qualche carrozza doveva muoversi. L’albergo fu costretto a chiudere nel 1935 a causa dell’incombente crisi economica di quel periodo.
L’itinerario non è finito!
Scopri le altre tappe nella versione cartacea che puoi trovare all’Ufficio Informazioni in Piazza del Campo, 7
Testi a cura di Roberto Cresti