2.1 Da Cecco Angiolieri a Sigmund Freud

 

S’i’ fosse foco

Nella popolosa galleria dei personaggi celebri, Siena annovera anche un ‘poeta maledetto’, Cecco Angiolieri (1260 ca -1312 ca). É piaciuto ammantarlo di maledettismo forse confondendo un po’ troppo la sua vita con la sua irriverente produzione poetica, come se questa corrispondesse a un puntuale racconto autobiografico. Non va infatti dimenticato che nella poesia comica toscana (un vero e proprio genere letterario) si doveva necessariamente mostrarsi provocatori, dissacranti, polemici. Certo, seduce e diverte il Cecco che, in uno dei sonetti più noti, dice quanto vorrebbe essere fuoco per bruciare il mondo, vento per travolgerlo in una tempesta e acqua per affogarlo. Se fosse Dio manderebbe tutti all’Inferno, o dovendosi accontentare di essere papa si divertirebbe, eccome, a mettere nei guai i cristiani. Da imperatore, invece, sarebbe dell’avviso di tagliare molte teste. E nel caso in cui potesse essere la morte andrebbe dritto da quel tirchio di suo padre (che lo tiene a stecchetto) e da sua madre che del marito è alleata; al contrario, se fosse vita, troverebbe il modo per stare loro il più lontano possibile. L’invettiva termina con un certo compiacimento: ma se io fossi Cecco, cosa che in realtà sono e sempre sono stato, prenderei solo per me le donne giovani e leggiadre, mentre agli altri lascerei quelle vecchie e racchie.

Insomma è chiaro che il poeta gioca a fare il gradasso (in un altro componimento dichiara che «la donna, la taverna e ’l dado» sono le cose che più lo allietano) ma soprattutto bada a mettere in caricatura l’amore angelicato del dolce stil novo, contrapponendogli figure femminili molto concrete, come una moglie insopportabile o l’amata Becchina, di cui è innamorato perso, rivelatasi troppo presto una donna linguacciuta, volgare e lussuriosa. 

Al di là delle suggestioni e di qualche riferimento che si ricava dalle rime, piuttosto scarsi sono i dati biografici su Cecco Angiolieri. Di origini nobili, nacque attorno al 1260 da messer Angioliero e da monna Lisa Salimbeni. Morì a Roma attorno al 1312. Suo padre, Angioliero degli Angiolieri, era tra le persone che maggiormente si distinguevano in città per ricchezza e nobiltà: banchiere di papa Gregorio IX, fece parte, nel 1257 e nel 1273, di quell’organismo pubblico detto i “Signori del Comune”, dopo essere stato per due volte priore. Nobile era anche la madre, monna Lisa della famiglia dei Salimbeni. 

Una famiglia tradizionalmente guelfa, tant’è che Cecco, nel 1281, prese parte alla campagna militare per la conquista del castello ghibellino di Turri, in Maremma. Non deve essere stato un soldato modello. Fu multato almeno due volte per essersi arbitrariamente assentato dal campo. E, sempre a proposito del suo carattere intemperante, altre sanzioni si sarebbe beccato negli anni successivi. Una di queste (1282) è documentata all’Archivio di Stato di Siena. Vi si attesta una multa di 20 soldi «quia fuit inventus de nocte post tertium sonum campane Comunis» (non aveva rispettato il coprifuoco e se ne stava a schiamazzare per strada insieme al suo amico musico Casella). Nel 1291 venne sottoposto a processo con l’accusa di avere ferito tale Dino di Bernardo da Monteluco, ma poi sarebbe risultato innocente.

Quanto all’esilio romano di Cecco, il filologo Celso Cittadini sostiene che l’Angiolieri avrebbe trovato rifugio a casa del cardinale senese Riccardo Petroni. L’abbandono di Siena fu probabilmente dovuto a ragioni politiche. Nessuna notizia si ha sugli ultimi anni di vita, salvo che egli vendette, nel 1302, una sua vigna a tale Neri Perini per settecento lire. Né si conosce l’anno preciso della sua morte, avvenuta comunque prima del 1313. E’ del febbraio di quest’anno il documento attestante che Meo, Deo, Angioliero, Arbolina, Simone, “filii olim Cecchi domini Angelerii”, rifiutavano l’eredità paterna, perché eccessivamente ipotecata. Non sappiamo da chi Cecco avesse avuto questi figli, e un’altra figlia, Tessa, già in precedenza emancipata e perciò non nominata nel documento. Non certo da quella Uguccia Casali che alcuni storici indicarono come moglie di lui, e che, invece, fu moglie di un suo omonimo contemporaneo che gli sopravvisse.

Nella via oggi intitolata al poeta, si trovava la casa degli Angiolieri. Ce lo ricorda una lapide autocelebrativa del 1234, posta sulla facciata del palazzo dal padre di Cecco per ricordare che «questa casa fece edificare Angelerio Solafica quando era cambiavalute esattore sotto il papa Gregorio IX» (l’Angelerio in questione era il padre del padre).

 

Castellare degli Ugurgieri

Se volessimo immergerci pienamente nel tempo di Cecco, conviene raggiungere il Castellare degli Ugurgieri, una struttura fortificata risalente al XIII secolo. In questo angolo di medioevo rimasto pressoché intatto, potrebbe anche risuonare la voce dell’irriverente poeta, che, con i suoi versi taglienti, inveisce contro i quattro antagonisti che gli dannarono la vita: il babbo, Becchina, l’amore e sua madre. Furono loro – confiderà – a prenderlo in trappola come un tordo nella siepe. In primis suo padre, che costituisce una maledizione quotidiana. Subito dopo Becchina, la quale pretende da lui cose che nemmeno Maometto riuscirebbe a procurarle con la sua diabolica magia. Quindi l’amore, che lo fa invaghire di ladre che sembrano figlie di Gaetto (un celebre ladro, non si sa se veramente esistito o personaggio leggendario). Infine sua madre, che non lo sopporta proprio più, al punto che l’altro ieri, incrociandola per strada, le ha rivolto un saluto per cercare di mitigare l’astio reciproco, ma lei gli ha sibilato: va’ via Cecco, che tu possa essere tagliato in due da un colpo di spada.

In conclusione, chiamare Cecco maledetto è un po’ troppo, ma definirlo un indomabile scapestrato si può.

 

L’economista illuminato

Sallustio Bandini (Siena, 1677-1760) fu un’apprezzata figura di intellettuale. Si era laureato in filosofia e diritto e, dopo aver conseguito l’incarico di lettore di diritto canonico presso l’Università senese, intraprese la carriera ecclesiastica diventando arcidiacono. 

Uomo di vasti interessi, dedicò una parte importante dei suoi studi all’economia. Un testo ritenuto fondamentale nella dottrina economica del Settecento è il suo Discorso economico sulla Maremma senese in cui viene evidenziata l’opportunità di liberalizzare commercio e industria con l’introduzione di un’imposta unica sulla terra. Il Bandini si contraddistinse per la modernità delle idee nei campi più diversi: economia, scienza, politica, sacre scritture. Si contende con Francesco Datini l’invenzione della cambiale.

Possedeva una fornitissima biblioteca che, prima di morire, decise di donare alla città e che andò a costituire il primo nucleo di libri e manoscritti della Biblioteca comunale degli Intronati. 

L’arcidiacono Bandini continua a osservare la città con sguardo intenso e autorevole attraverso la statua, opera di Tito Sarrocchi, eretta in suo onore al centro di piazza Salimbeni, davanti alla sede storica della Banca Monte dei Paschi.

 

Nemo propheta in patria

Nel corso della sua lunga storia, Siena non si è fatta mancare niente. Nemmeno qualche eretico di tutto rispetto come Lelio e Fausto Sozzini, zio e nipote. Il cognome lo troviamo talvolta variato in Sozini, Sozino, Socini o Socinus (fu lo stesso Lelio a latinizzare il proprio cognome in Socinus). Le loro facce si guardano, pensose e un po’ sconsolate, in due medaglioni posti sul fianco del palazzo di famiglia (laddove via Bandini termina e inizia via di Follonica). Sotto i loro volti leggiamo che essi «in tempi di feroce dispotismo risvegliarono con nuove dottrine la libertà del pensiero». Mentre nell’epigrafe collocata sulla facciata principale del medesimo edificio (quella prospiciente via Pantaneto) ci si diffonde ancora di più nel ricordare come Lelio e Fausto Sozzini siano stati «contro il soprannaturale vindici della umana ragione» e fondatori «della celebre scuola sociniana precorrendo di tre secoli le dottrine del moderno razionalismo». Tralasciamo di raccontare tutte le discussioni che precedettero la posa di queste pietre ad memoriam (un monumento vero e proprio non fu possibile realizzarlo) osteggiata fin dopo l’Unità d’Italia da certi ambienti cittadini.

Lelio nacque a Siena nel 1525 con una impronta genetica che non poteva smentirsi: già il nonno, Mariano Sozzini (1397-1467) è ricordato come il primo libero pensatore della famiglia. Gli studi di Lelio non furono sistematici, ma spaziarono dalla giurisprudenza alle sacre scritture, all’ebraico, arabo, greco. Appena raggiunta la maturità si trasferì a Venezia. Cominciò a frequentare gli ambienti evangelici e a viaggiare per buona parte dell’Europa: Svizzera, Francia, Inghilterra, Paesi Bassi, Austria, Polonia. A Ginevra incontrò Calvino e tra i due nacque subito un’intesa, anche se in seguito sarebbero sorte, tra i due, divergenze di natura teologica. Lelio, pur avendo fatte proprie le idee della riforma protestante, rifiutava il concetto della Trinità, riteneva Gesù Cristo un essere umano che bene incarnava la sofferenza dei poveri causata dai ricchi e dai potenti. Negava ogni forma di assolutismo riconducendo alla ragione anche la dimensione religiosa. A Basilea trovò consonanza di idee con un altro eretico senese, anch’esso importante riformatore italiano, Bernardino Ochino (1487-1564) il cui nome derivava dall’essere nato nella contrada dell’Oca.

Alla morte del padre, Lelio si trovò in serie condizioni finanziarie, poiché l’Inquisizione aveva sequestrato tutta l’eredità e fatto incarcerare a Roma il fratello Cornelio. Gli altri due fratelli (Celso e Camillo), ritenuti luterani, erano dovuti fuggire da Siena, così come il nipote Fausto. Il 14 maggio 1562 Lelio morì a Zurigo nella casa del tessitore Hans Wyss.

Proprio il nipote Fausto raccolse il pensiero teologico dello zio elaborandolo ulteriormente in quella che fu la dottrina del ‘socianesimo’ e che, oltre al rifiuto del dogma trinitario e della divinità di Cristo, rigettò la dottrina del peccato originale, del potere dei sacramenti e la possibilità di una condanna eterna.

L’attività teorica e predicatoria di Fausto si svolse prevalentemente in Polonia, dove riuscì a ricomporre le diverse componenti antitrinitarie polacche in un unico movimento che venne detto, appunto, sociniano. Avviò pure la redazione di un catechismo (il catechismo racoviano, dalla città di Rakòv) terminato poi dai suoi discepoli. Era il 3 marzo del 1604, quando morì nella città polacca di Luslawice.

Il movimento ebbe vita breve. Nel 1610 giunsero infatti in Polonia i gesuiti costringendo i sociniani a convertirsi al cattolicesimo o ad andarsene. Alcuni entrarono a far parte della chiesa arminiana dei rimostranti olandesi, altri emigrarono in Germania e in Transilvania aderendo agli unitariani. La piccola comunità sociniana rimasta in Polonia si estinse definitivamente nel 1811. 

Lelio e Fausto, secondo la migliore tradizione, non furono profeti in patria. Il loro volto scolpito sui muri della casa natale ha la patina del tempo e delle idee che il tempo, inesorabile, disperde.

 

L’amico di Vittorio Alfieri

Vittorio Alfieri ebbe a Siena un grande amico, Francesco Gori Gandellini, mercante di sete, cultore di lettere e di arti. Nel 1777 lo scrittore astigiano venne ospitato dal Gandellini per circa cinque mesi. Scriverà nella sua autobiografia: «Perciò passai l’Arno, e mi trovai tosto in Siena. E sempre ho benedetto quel punto in cui capitai…». In effetti fu per lui un periodo particolarmente sereno e fecondo. Durante quel soggiorno lavorò al trattato Della tirannide e a ben quattro tragedie (La congiura de’ Pazzi, Virginia, Agamennone, Oreste). Le Tragedie alfieriane ebbero anche un’edizione senese in tre volumi per i torchi della stamperia Pazzini Carli.

Nel corso degli anni Alfieri avrebbe soggiornato a Siena più volte. Si ricorda, ad esempio, la sua presenza al palio del 15 agosto 1783, corso ‘alla lunga’ (cioè lungo le strade della città) per la festa della Madonna Assunta. Le vicende di quella corsa furono oggetto di ben due sonetti dedicati ai protagonisti principali, i cavalli: «Eccoli al teso canape schierati … in loro possanza alteri», leggiamo in uno dei due componimenti. 

Si era innamorato così tanto della città al punto di volervi prendere casa. Oltre che con il Gori Gandellini aveva stretto amicizia con diverse persone, tra cui Mario Bianchi che, infatti, lo ospitò nelle ville di campagna a Geggiano e Montechiaro. 

A intristire questo suo legame con Siena sopravvenne un fatto luttuoso. Agli inizi dell’agosto 1784, Alfieri si era messo in viaggio per raggiungere in Alsazia il suo amore, la contessa d’Albany («quella ch’io andava sempre chiamando e cercando, orbo di lei da più di sedici mesi»). Il 7 agosto, proprio ricordando Siena, aveva inviato al Gori i versi Siena, dal colle ove torreggia e siede. Una sperticata lode alla città dove – a detta del poeta – la Cortesia, bandita da Firenze e diretta a Roma, decide di fermarsi per l’accoglienza a lei riservata dai Senesi e incantata dal loro «bel parlar». Ecco perché – sostiene ancora il poeta – a Siena la cortesia è venerata al pari di una divinità.

Ma poco dopo l’arrivo a Colmar (il viaggio era durato settimane) all’Alfieri sarebbe giunta la notizia dell’improvvisa morte di Francesco Gori. Il poeta, sconsolato, scriverà per lui i versi: «Il giorno, l’ora, ed il fatal momento, / In cui, dolce mio amico, io ti lasciava; / E quell’estremo abbraccio, ch’io ti dava, / (Chi l’avrìa detto estremo!) ognor rammento.»

Alfieri sarebbe tornato a Siena nell’autunno successivo, ma dirà che «il soggiorno di Siena senza il mio Gori, mi si fece immediatamente insoffribile».

Francesco Gori venne sepolto nella chiesa di San Giovanni Battista della Staffa (nell’attuale piazzetta Grassi). Nel vestibolo della chiesa c’è la lapide sepolcrale che l’Alfieri dettò e fece intagliare in marmo a sue spese. L’epigrafe, scritta in latino, dice: «Qui giace Francesco Gori Gandellini cittadino senese, il cui nome è forse divenuto meno noto ai posteri di lui stesso, poiché, vero dispregiatore di ogni vanità, non volle divenire famoso, strappato ai suoi da morte prematura, a nessuno lasciò più acerbo lutto che a Vittorio Alfieri astigiano, il quale estimatore disinteressato della sua virtù da lui stesso profondamente conosciuta, gli fece erigere in breve tempo questo monumento sepolcrale, a ricordo di una imperitura amicizia». Ma il vero monumento letterario che Alfieri eresse in memoria dell’amico senese lo si trova nel dialogo La virtù sconosciuta.

 

Perché piazza Manzoni 

Percorsa tutta via Pantaneto e superato l’Arco di San Maurizio (un tempo porta della cinta muraria duecentesca) girando a destra si può raggiungere piazza Alessandro Manzoni. Un’appartata ansa del tessuto urbano dove sorge la basilica di Santa Maria dei Servi dal cui sagrato è possibile godere di un panorama stupendo.

Verrà spontaneo chiedersi per quale ragione questo luogo sia intitolato ad Alessandro Manzoni. Dobbiamo, allora, andare ad impicciarci delle vicende private della famiglia Manzoni e, in particolare, di Matilde, ultima dei nove figli di Alessandro e di Enrichetta Blondel. 

Matilde, malata di tisi, morì a Siena, a soli venticinque anni, il 30 marzo 1856. Una vicenda che commuove e per certi aspetti indigna, poiché l’ultimogenita del Manzoni si ritrovò orfana di mamma quando aveva tre anni e, di fatto, abbandonata dal padre per il resto della sua vita. A otto anni, dopo che il padre si era risposato con Teresa Borri, fu messa in collegio dalle suore, a sedici ne uscì e, insieme alla sorella Vittoria, trovò ospitalità presso la zia Luisa Maumary che aveva sposato Enrico Blondel (fratello di Enrichetta) e, rimasta vedova, si era unita in seconde nozze a Massimo d’Azeglio. Sarà proprio questa zia, una quarantenne vivace e anticonformista, a far cambiare aria alle due sorelle Manzoni portandole con sé in Liguria e in Toscana. Proprio in terra toscana Vittoria conoscerà Giovanni Battista Giorgini, detto Bista, benestante e di bell’aspetto, con cui si unirà in matrimonio. Grazie alla generosità del cognato, anche Matilde, che già manifestava i primi sintomi della malattia, potrà continuare a vivere insieme alla sorella ed avere così l’affetto di una famiglia.

Il Giorgini era docente di istituzioni canoniche presso l’Università di Pisa e quando un decreto del Granduca stabilì che alcune facoltà, fra cui quella di Giurisprudenza, da Pisa sarebbero state trasferite a Siena, dovette, pur con disappunto, trasferirsi anche lui. Così, nel gennaio del 1852, Vittoria e Bista traslocarono a Siena nella villa Bonelli, fuori porta Pispini, portandosi con loro anche Matilde. 

Nelle sue Memorie di famiglia Vittoria dirà: «Matilde, poco dopo il nostro arrivo là, parve rifiorire. Facevamo lunghe passeggiate fuori della città, e ci piacevano tanto quei luoghi un po’ tristi e grigi, ma però tanto belli, e nei quali, più spesso che altrove, si incontrano le memorie e gli avanzi pittoreschi di altri tempi. […] Cara Siena! ho poi pianto molto là, e ci ho lasciato la povera Matilde e la mia Luisina [la figlioletta morta di scarlattina nemmeno decenne] … ma quanti dolci ricordi di quelli anni, di quei luoghi, di quelli amici, che ci furono di tanto conforto anche nei giorni del più tremendo dolore!»

Ancora più della malattia, la pena di Matilde fu quel senso di orfananza dovuto al disinteresse paterno. Anche da Siena partiranno ripetute lettere per chiedere al padre di venire a trovarla. Nelle risposte – quando c’erano – un paternalismo sussiegoso sembra prevalere sempre sull’affetto di cui Matilde avrebbe desiderato tanto un segno. Pure il repertorio delle scuse addotte da Manzoni per rinviare continuamente la sua visita alle figlie è quasi stucchevole: la brutta stagione, gli acciacchi della moglie, le ristrettezze economiche, la revisione del saggio sulla Morale cattolica, addirittura le improrogabili incombenze della bachicoltura.

In una lettera indirizzata a Vittoria, il Manzoni scrive: «[…] Ti dirò dunque che se, all’aprirsi della stagione, le mie circostanze (giacché, pur troppo, bisogna sempre cascar lì) me lo permettono, sono determinato di venire, o con Teresa [la moglie], o con Pietro [figlio secondogenito], a deliziarmi con voi altri miei carissimi nella villetta senese. […] Per me t’assicuro (vedi egoista!) che l’immagine di Siena mi ride più di quella di Pisa.» Dopo ulteriori e lamentevoli promesse, Manzoni verrà finalmente a Siena per qualche giorno nell’ottobre del 1852. 

Nella primavera del 1855 la famiglia Giorgini cambierà abitazione spostandosi in un appartamento con affaccio sulla Lizza. Ci si illuse che in quella casa ben esposta al sole anche le condizioni di salute di Matilde andassero migliorando. Vittoria annoterà che la sorella «[…] parve riaversi; godeva di quel bel verde lungo la Lizza, e di quell’aria primaverile». Manzoni scrive a Matilde: «Spero che il progresso della bona stagione avrà aiutato quella tua convalescenza. E corro anch’io col pensiero alla casa che guarda sulla Lizza, e se corro nell’andarci, non fo lo stesso nel partirne».

Ricomincia così un asimmetrico carteggio tra padre e figlia, dove l’uno seguita il proprio birignao scusatorio e l’altra invia messaggi sempre più disperati. E’ l’ottobre 1855 quando Matilde, a fatica, verga queste righe: «Scusa caro Papà, temo di far male a lamentarmi così, temo di seccarti, ma non di parerti esigente […]. Sai che sono dei mesi che non mi scrivi e non t’immagini che cos’è per me una riga tua? Tutte le mattine aspetto l’ora della posta con smania; e mi dico sempre, oggi certamente avrò una lettera, e invece tutti i giorni non c’è nulla».

Da lì a qualche mese la malattia si farà ancora più virulenta. Tosse senza requie, emottisi, svenimenti, dolori per tutto il corpo. Finché il pomeriggio del 30 marzo 1856 Matilde muore. Il prete di Santo Stefano alla Lizza registrerà nell’anagrafe parrocchiale che «la nobildonna Matilde Manzoni, di anni 25, benestante, celibe, si spense fra le braccia della sorella Vittoria e quelle di Gaetano Giorgini, padre del suo cognato Bista, che pure a lei fu padre amorosissimo». 

Venne sepolta nel chiostro della chiesa dei Servi. Accanto riposa la nipotina Luisina, deceduta l’anno dopo. Il Manzoni dettò entrambe le lapidi. Su quella della figlia leggiamo: «Matilde / figlia di Alessandro Manzoni / qui riposa / spenta dal lento morbo / il XXX marzo 1856 / nell’ultimo anno del quinto lustro / lasciava desiderio di sé / per una vita bella di tutte le virtù / che sublimano il sesso / il padre i fratelli / e la sorella Vittoria / moglie di Gio. Battista Giorgini / la raccomandano alle preghiere / dei pietosi senesi». 

Ecco perché Matilde riposa in questo angolo di Siena dove il cielo slarga in azzurro e in precipizi di rondini. Ed ecco perché sarebbe stato giusto che questa piazza avesse portato esplicitamente il suo nome.

 

Freud e gli incubi di Porta Romana

Dal retro della basilica scende la scalinata che conduce a Porta Romana, bell’esempio di fortificazione medievale. Lungo i due lati della strada che va verso la porta, restano solide cancellate dell’ex manicomio di San Niccolò, istituito nel 1818 per dare ricovero ai dementi, ma anche ai ‘tignosi’ e alle ‘gravide occulte’. Con gli anni la struttura crebbe sempre di più fino a diventare, nella prima metà del Novecento, un vero e proprio villaggio. Aprì e chiuse definitivamente i suoi cancelli nel 1999.

Questa di Porta Romana è una zona di silenzi e solitudini, spesso ricordata nelle pagine di scrittori e viaggiatori. Ma la descrizione più singolare del luogo ci è data da Sigmund Freud che aveva visitato Siena nel settembre del 1897. Nel suo libro L’interpretazione dei sogni analizza un proprio sogno dove porta Romana gli appare come un varco all’esodo degli ebrei. Il sogno – scrive l’autore – era legato a certi avvenimenti accaduti a Roma, in ragione dei quali sarebbe stato necessario portare in salvo i bambini. Nel soprammettersi delle visioni oniriche, la scena si sposta «davanti a una porta, una porta doppia secondo l’uso antico (la Porta Romana di Siena)». Il sogno prosegue in un crescendo di drammaticità: «Ero seduto sull’orlo di una fontana ed ero molto abbattuto, quasi in lacrime. Una donna – custode o suora – faceva uscire due ragazzi e li consegnava al padre, che non ero io. Il maggiore dei due era chiaramente mio figlio più grande: non vidi il viso dell’altro. La donna che aveva portato fuori il bambino, gli diede un bacio dell’addio. La si notava a causa di un naso rosso. Il bambino rifiutò di baciarla, ma, stringendole la mano per salutarla, disse: auf geseres e a noi due (o a uno di noi): auf ungeseres. Credo che queste ultime parole significassero una preferenza».    

Sarà lo stesso Freud a spiegare che il sogno era stato frutto di un complesso intrico di pensieri prodotti da uno spettacolo che aveva visto a teatro (intitolato Il nuovo ghetto), dal problema ebraico, dalla preoccupazione sul futuro dei figli ai quali non era possibile dare una patria e una libertà che consentisse loro di poter circolare dappertutto. Dopo di che, citando la struggente poesia del Salmo 137 («Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo») prosegue: «Siena è famosa quanto Roma per la bellezza delle sue fontane; per Roma devo cercare nel sogno una sostituzione qualunque con un’altra località a me nota. Vicino a Porta Romana a Siena avevamo visto un grande edificio illuminato. Apprendemmo in seguito che si trattava del manicomio. Poco prima del sogno avevo saputo che un mio correligionario era stato costretto a rinunciare al suo posto, ottenuto con molta fatica, in un manicomio statale». Infine Freud, attraverso una serie di congetture sulle due parole misteriose e apparentemente senza senso (geseres e ungeseres) conclude che il nesso poteva trovarsi nei termini ebraici gesäuert-ungesäuert (lievitato / non lievitato): «Nella loro precipitosa fuga dall’Egitto, i figli d’Israele non fecero in tempo a far lievitare la pasta del pane e, in ricordo di questo, ancora adesso mangiano pane non lievitato in tempo di Pasqua».

Incubi a parte, si presume che il soggiorno senese di Freud sia stato tranquillo e gradevole. Non sono mancati professionisti del pettegolezzo ad indagare se, in quella vacanza senese, Sigmund fosse stato da solo o con la cognata Minna Bernays. Prove non sono emerse, a differenza di quel che sarebbe accaduto l’anno dopo in un lussuoso albergo delle Alpi svizzere dove, invece, l’adulterio risultò firmato sul registro che assegnava una camera matrimoniale al dottor Sigmund Freud e signora. Ma la signora (intesa come moglie) era rimasta a casa, dove si vide recapitare una cartolina del marito che decantava la bellezza del paesaggio e il «modesto alberghetto» (che, invece, era tutt’altro).

La signora Martha Freud ricevette una lettera anche da Siena, datata 6 settembre 1897, dove si leggeva: «Tratto con gli osti. Ieri ho ridotto la cena da 10,9 a 9 lire e oggi il pranzo da 6,65 a 6 lire».

Considerata la banalità delle notizie fornite, verrebbe quasi da insospettirsi.

 

Una produzione: toscanalibri.it
Testi a cura di Luigi Oliveto
Coordinamento editoriale:
Elisa Boniello e Laura Modafferi
Foto: Archivio Comune di Siena
Grafica: Michela Bracciali

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