2.8 Il cielo sopra Siena: santi, beati, mistici

 

Il battista di Siena

Il cielo sopra Siena è simile a una tavola fondo oro della pittura senese: assiepato di santi, beati, mistici. Non c’è grado della corte celeste dove Siena non abbia un suo degno rappresentante. Perché la storia di questa città si è sempre declinata in un doppio credo (talvolta l’uno all’altro sovrapposti): quello di una religione laica, dal forte spirito civico; quello soprannaturale, che – richiamando ancora certa iconografia – pone la città nelle mani dei santi o sotto il manto protettivo della Vergine (Sena vetus civitas Virginis, era questo il motto stampato sulle monete dell’antica repubblica di Siena). Così «l’anima» della città ha generato, a sua volta, anime elette.

L’agiografia senese vanta molte pagine, e non saranno certo queste sintetiche annotazioni a poterne dare un compiuto resoconto. Ma nel nostro passeggiare per la città si incontrano luoghi, testimonianze, richiami di chi – per dirla con Caterina da Siena – ha vissuto «nella santa e dolce dilezione di Dio». E di costoro merita conoscere qualcosa. Avviamoci, dunque, in questo racconto che, come si sa, può talvolta sconfinare nella leggenda o nel troppo fervore della prosa edificante. Ma tale è il suo fascino.

É giusto iniziare da sant’Ansano, colui che è ritenuto il primo evangelizzatore della città, quando, nella seconda metà del III secolo, Siena era colonia romana (Saena Julia). Portiamoci, quindi, in via di San Quirico dove si trova la chiesa delle Carceri di Sant’Ansano. Così detta perché adiacente alla torre in pietra (in realtà d’epoca successiva) dove Ansano sarebbe stato imprigionato. Sopra il portale della chiesa vediamo i frammenti di una Madonna col Bambino tra i santi Ansano e Caterina da Siena di Francesco Rustici, detto il “Rustichino” (1592-1625), mentre nel sovrastante oculo quattrocentesco è raffigurato il santo titolare e le insegne araldiche del committente, il cardinale Antonio Casini, vescovo di Siena dal 1409 al 1427. All’interno si trovano altre opere, sempre di epoca quattrocentesca (la chiesa viene eccezionalmente aperta il 1 dicembre di ogni anno, festività di Sant’Ansano patrono della città).

Piuttosto scarna è la biografia di Ansano. Sappiamo che nacque a Roma nel 284 da una famiglia agiata di nome Anicia (suo padre era il senatore Tranquillino) e che, giovanissimo, restò preso dal messaggio cristiano a cui lo aveva iniziato la matrona Massima. Ma non erano tempi agevoli per chi professava di credere in un Dio crocifisso anziché venerare l’imperatore. Tant’è che, nel 302, Massima venne martirizzata. Mentre Ansano, denunciato dal padre, riuscì a fuggire, prima a Bagnoregio, poi ad Allerona, finché, su invito di un angelo, raggiunse Siena per unirsi ai parenti di papa Lucio I, martire nel 254. Non trovò vita facile nemmeno a Siena, dove aveva iniziato a predicare e battezzare. Su ordine del proconsole Lisia sarebbe stato imprigionato nella torre che vediamo e – ancora secondo tradizione – dalla finestra in basso avrebbe continuato a battezzare i Senesi che lo chiedevano.

Proprio per seguire le vicende del battista senese, scendiamo in Pian dei Mantellini. Voltiamo a destra e raggiungiamo il Fosso di Sant’Ansano. Si racconta che sia questo il posto in cui Ansano dovette sostenere la “prova del fuoco e dell’olio bollente”. Per quanto l’avesse superata restando illeso, fu ugualmente decretata la sua incarcerazione. Dalla torre-prigione sarebbe uscito soltanto il 1º dicembre 304 (o forse del 303), ma per essere giustiziato. Venne condotto nelle campagne senesi, in località Dofana, e lì martirizzato per decapitazione (in quel luogo fu in seguito costruita una cappella intitolata al martire). Il corpo fu sepolto a Dofana (allora diocesi di Arezzo) e, per anni, i Senesi reclamarono le spoglie del ‘loro’ santo (pare che si fossero tentati anche dei trafugamenti). Finalmente, nel 1107, il vescovo di Siena ottenne di poter traslare i resti di Ansano in Cattedrale. L’arrivo in città delle spoglie fu un avvenimento. Molta gente si riunì attorno alla porta (oggi porta Pispini) da cui fece ingresso il Santo. Il popolo gridava concitato: «il Santo viene, il Santo viene», cosicché, da allora, la porta fu detta San Viene. Nel 1359, un incendio bruciò i poveri resti. Si salvarono le reliquie del braccio destro e del sinistro: con quelli, Ansano, aveva abbracciato e battezzato i Senesi.

Savina sorella dei poveri

Il Fosso di Sant’Ansano conduce in piazzetta della Selva e da qui, a sinistra, ci immettiamo in via di Vallepiatta. Verso la metà della strada, comincia la ripida via del Costone. Al numero 2 è indicata la Casa natale di Savina Petrilli, una delle sante ‘moderne’ (per la precisione una Beata) che può vantare Siena. Nacque nel 1851, secondogenita di Celso e Matilde Venturini. Fin dall’adolescenza manifestò una spiccata spiritualità e la volontà di condividerla con gli altri. Nel 1869 fu ricevuta da papa Pio IX che la esortò a seguire le orme di santa Caterina da Siena. E questo prese a fare. Il 15 agosto 1873, nella cappellina di famiglia, insieme ad altre cinque consorelle, professò i voti di povertà, castità e obbedienza alla presenza dell’Arcivescovo di Siena Enrico Bindi. Da questa piccola comunità nacquero le Sorelle dei Poveri di Santa Caterina da Siena che, a partire dai primi del Novecento, si sono diffuse, oltre che in Italia, in diversi paesi del mondo (Brasile, Argentina, India, Stati Uniti, Filippine, Paraguay). Fedeli al carisma della loro fondatrice, si dedicano prevalentemente ad opere di carità e all’educazione dei giovani. Savina fu proclamata beata da Giovanni Paolo II il 24 aprile 1988.

 

La bimba ha una visione

Proseguendo per la discesa, là dove la strada curva e la visuale si apre sulla basilica di San Domenico, troviamo un affresco che ci introduce alla vita di santa Caterina da Siena. Fu qui che, a sette anni, la bimba Caterina ebbe la sua prima visione. Tornava a casa insieme al fratello Stefano, quando vide Gesù, in abiti pontificali, seduto in trono sopra la basilica domenicana, attorniato dai santi Pietro e Paolo e da Giovanni evangelista. Visione che avrebbe segnato per sempre la sua vita e ispirato, in seguito, due scelte per lei fondamentali: diventare terziaria domenicana ed avere a cuore che l’azione del Pontefice fosse quella di chi è chiamato ad essere un «dolce Cristo in terra». Tale fu la sua afflizione per i mali della Chiesa che non si fece scrupoli nel sollecitare papi ed ecclesiastici a comportamenti coerenti con la loro missione, come quando, in una lettera indirizzata a Urbano VI (la Chiesa era lacerata tra papi e antipapi) vergò parole ferme ed accorate: «Io Catarina, serva e schiava de’ servi di Gesù Cristo, scrivo a voi nel prezioso sangue Suo; con desiderio di vedervi fondato in vero lume … Ora è tempo vostro da sguainare questo coltello; odiare il vizio in voi e nei sudditi vostri, e nei ministri della Santa Chiesa».

L’esperienza mistica vissuta dalla piccola Caterina mentre percorreva la piaggia del Costone è riportata nella Legenda maior (una biografia) redatta da Raimondo da Capua, confessore della santa. Non c’è dubbio che il racconto dell’episodio, tramandatosi nei secoli, abbia aggiunto ulteriore fascino a questa strada che declina, solitaria, verso il rione di Fontebranda. Nel Settecento si ritenne opportuno porre sulla via un dipinto con la scena raccontata da padre Raimondo. Realizzò l’affresco il pittore Giuseppe Nicola Nasini (1657-1736), ma l’esposizione alle intemperie richiese in epoca novecentesca due rifacimenti.

 

I luoghi di Caterina

Come se seguissimo i passi di Caterina, scendiamo per via del Costone fino a trovarsi davanti alla Fonte Branda, per poi salire in via Santa Caterina. Percorsa la prima parte, troviamo, a sinistra, la Costa di Sant’Antonio e, fatti pochi metri, il santuario cateriniano. É detto Casa Santuario, perché qui nacque Caterina il 25 marzo 1347 e in questi ambienti visse insieme alla sua famiglia: il padre Jacopo Benincasa, tintore e commerciante di stoffe; la madre Lapa di Puccio de’ Piacenti; i numerosi fratelli e sorelle (lei era la ventiquattresima, gemella, di ben 25). L’edificio, che all’epoca apparteneva all’Arte della Lana, venne dato in affitto al padre Jacopo nella prima metà del Trecento. In una parte, quella più alta, risiedeva la famiglia, nei fondachi era stato allestito il laboratorio di tintoria. Con il declino dei Benincasa subentrò un altro tintore, che della casa divenne proprietario. Caterina morì nel 1380, fu canonizzata nel 1461, ma per gli abitanti del rione di Fontebranda già da tempo era venerata come santa e chiedevano che la sua casa potesse diventare luogo aperto alla devozione. Nel 1466 il Comune di Siena decise di acquistare l’edificio. Da allora, nel corso del tempo, il complesso ha visto diverse trasformazioni, abbellimenti, interventi artistici, così da diventare un suggestivo luogo di culto, di storia, di arte.

É in questi ambienti che si svolse la breve ma intensa vita di Caterina (33 anni). Un’esistenza sviluppatasi in un crescendo di fervore mistico, penitenza, azione, nonostante l’iniziale contrarietà della famiglia. Fece voto di verginità, indossò l’abito del Terz’ordine domenicano, si unì in mistiche nozze con Gesù, formò un gruppo di discepoli, dettò lettere (avrebbe imparato a scrivere solo a vent’anni) all’indirizzo di governanti, papi, vescovi, sorelle e fratelli nella fede. Tra i destinatari anche Gregorio XI, ultimo dei papi avignonesi, che la stessa Caterina esortò a fare ritorno a Roma. Si dedicò all’assistenza dei poveri, malati, carcerati. Imprese non facili per una giovane donna dell’epoca, spesso messa alla berlina, oggetto di malignità e di calunnie. Nacquero pregiudizi nei suoi confronti persino in ambiente ecclesiastico, così che, nel 1374, fu sottoposta a un interrogatorio dinanzi al capitolo generale dei Domenicani. Era presente frate Raimondo da Capua, colui che poi sarebbe diventato suo confessore e biografo.

Ad innalzarla agli onori degli altari fu, nel 1461, il papa senese Pio II (Enea Silvio Piccolomini). Nel 1939, Pio XII la proclamò patrona d’Italia. Nel 1970, sotto il pontificato di Paolo VI, divenne dottore della Chiesa Universale. Nel 1999 – era papa Giovanni Paolo II – compatrona d’Europa insieme a Brigida di Svezia e Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein).

Entriamo, dunque, nella Casa Santuario attraverso il Portico dei Comuni d’Italia, così detto poiché ogni Comune italiano contribuì alla sua costruzione con la cifra corrispondente all’acquisto di un mattone. Ciò avvenne dopo la proclamazione di Caterina a Patrona d’Italia (19 giugno 1939). A causa della guerra i lavori vennero terminati nel 1947.

Alcuni gradini portano alla loggetta attribuita a Baldassarre Peruzzi e rimaneggiata nel 1553. A destra è l’ingresso all’Oratorio del Crocifisso dove è conservato il Crocifisso su tavola di scuola pisana dei primi del Duecento, proveniente dalla chiesa di Santa Cristina a Pisa, dinanzi al quale Caterina avrebbe ricevuto le stimmate. Gli affreschi sono prevalentemente opera di Giuseppe Nicola Nasini (1657-1736). Sull’altare di sinistra vediamo l’Apoteosi di Santa Caterina di Rutilio Manetti (1571-1639), su quello a destra, Santa Caterina e Gregorio XI di Sebastiano Conca (1680-1764). Altri dipinti ripercorrono significativi episodi della vita della santa.

Transitando ancora dalla loggetta troviamo l’Oratorio della Cucina. Era, infatti, questo l’ambiente occupato dalla grande cucina dei Benincasa (sotto l’altare si vedono i resti dell’antico focolare). Il soffitto a cassettoni con rosoni dorati fu restaurato nel 1594; mentre è dovuto a Girolamo di Marco il rifacimento (1600) del pavimento a maiolica con ambrogette in svariati disegni. Sull’altare, la tavola con Santa Caterina stimmatizzata di Bernardino Fungai (1460-1516), mentre i dipinti della parte superiore sono opera successiva del Riccio (1567-71. Le tele alle pareti rappresentano episodi della vita di Caterina tratti principalmente dalla Legenda maior di Raimondo da Capua. Partendo dalla sinistra, merita notare: 1, Gesù mostra alla santa la croce che essa aveva dato a un povero (Riccio, 1567-71); 4, Comunione della santa (Pomarancio, 1552-1626); 5, La santa libera un indemoniato (Pietro Sorri, 1556-1622); 8, La santa illuminata dallo Spirito Santo (Rutilio Manetti, 1571-1639); 9, Canonizzazione della santa (Francesco Vanni, 1563-1610); 11, La santa ha la visione di Gesù alla colonna (Manetti); 14, Gregorio XI riporta la sede papale a Roma (Pomarancio).

Una volta tornati nell’atrio, a destra è la scalinata che scende nell’Oratorio della Camera, la cameretta dove Caterina riposava e si raccoglieva in preghiera (dietro una grata vediamo la pietra adoperata come poggiatesta). Vi sono conservati, inoltre, alcuni oggetti che le appartenevano: il pomo del bastone, la lanterna adoperata nelle sue visite notturne ai malati dello Spedale di Santa Maria della Scala, il vasetto che conteneva gli unguenti per lenire i loro dolori, un lembo del velo, la borsa in seta con la quale la testa della santa fu trasportata da Roma a Siena.

Sopra il piccolo altare, la tavola dipinta ai primi anni del Cinquecento da Girolamo di Benvenuto con Santa Caterina che riceve le stimmate. Alle pareti un ciclo di affreschi realizzati nel 1896 da Alessandro Franchi, ancora suggeriti dalla Legenda maior.

 

La Mantellata

Usciamo dal santuario. Le scale che, a sinistra, proseguono la Costa di Sant’Antonio portano all’arco del vicolo del Campaccio e quindi a via Camporegio che percorreremo per giungere alla basilica di San Domenico il cui ingresso si trova sull’omonima piazza. É un itinerario di notevole bellezza, poiché mentre sulla sinistra si rivela gradualmente il panorama della città, dinanzi a noi cresce sempre di più l’imponente basilica, con il rosso dei suoi mattoni e la massiccia struttura gotica (tipica degli ordini mendicanti tra Duecento e Trecento) che quasi l’assomiglia a una fortezza (fortezza di fede e di dottrina). É un altro luogo ricco di suggestioni cateriniane. La costruzione della chiesa fu iniziata nel 1226 e, per successivi ampliamenti, terminata nel 1465. Nel 1531, a seguito dei danni provocati da un incendio, ebbe importanti restauri. Il campanile trecentesco agli inizi del Settecento subì uno sbassamento e nell’occasione fu realizzata anche la merlatura. All’interno colpisce subito la maestosa nudità del tempio, un’unica navata che va a spalancarsi sul grande transetto.

Subito a destra è la Cappella delle Volte. Qui santa Caterina ricevette l’abito del Terz’ordine domenicano, sotto queste volte si raccoglieva in preghiera e – dicono i racconti agiografici – presa spesso da rapimenti mistici, dovesse sostenersi al pilastro posto al centro delle due arcate.

All’altare sulla sinistra vediamo ciò che si ritiene essere il ‘vero ritratto’ della santa, poiché dipinto da un suo discepolo, Andrea Vanni (1353-1413). Il Vanni – che alternò l’attività di politico e diplomatico a quella di pittore – apparteneva al cenacolo di giovani che di Caterina condividevano dottrina e ideali. L’affresco era originariamente in altra parete della chiesa, il distacco e la nuova collocazione avvenne nel 1667. Mostra Caterina in abiti da terziaria (mantellata), sorregge un giglio, metafora di purezza; le sue mani mostrano sul dorso i segni di una ferita e questo induce a pensare che il dipinto sia stato realizzato dopo il 1 aprile 1375, data in cui la santa ricevette le stimmate. La giovane donna in ginocchio è una discepola.

Nella parete opposta, due dipinti di Crescenzio Gambarelli (1602) che, sempre sulla scorta della Legenda maior, rappresentano eventi miracolosi avvenuti in questa cappella: la santa dona le proprie vesti a un pellegrino sotto le cui sembianze è Gesù; Gesù restituisce a Caterina la crocetta del rosario di cui lei stessa gli aveva fatto dono. Al centro è la Canonizzazione della santa di Mattia Preti (1672): nella scena si vede Pio II benedire il nipote Francesco Piccolomini, arcivescovo di Siena, al momento della consegna della bolla di canonizzazione di santa Caterina.

Il racconto iconografico di altri episodi legati alla vita della santa prosegue nelle due tele collocate ai lati della parete di fronte all’ingresso, entrambe opera del Gambarelli. In una, Caterina recita il breviario insieme a Gesù; nell’altra è raffigurata la Morte della santa. In quella centrale l’Apparizione di santa Caterina a santa Rosa da Lima, opera del senese Deifebo Burbarini (1619-1680).

Scesi i gradini della Cappella delle Volte, in una teca collocata sul fianco destro della navata troviamo alcune reliquie: il dito pollice della santa conservato in un reliquiario di cristallo e argento, il calice con cui ricevette l’eucarestia da Gesù, le corde adoperate per disciplinare il proprio corpo, la pietra del suo altare portatile, il busto in bronzo nel quale era stata conservata la testa della Santa prima dell’attuale collocazione.

Alla reliquia della ‘sacra testa’ è dedicata la cappella sul lato destro della navata, fatta costruire appositamente nel 1466 ed arricchita da opere pittoriche di grande pregio. Come i due capolavori del Sodoma (1526) ai lati dell’altare, lo Svenimento mistico e l’Estasi della santa. Ancora del Sodoma è l’affresco della parete sinistra, Decapitazione di Niccolò di Tuldo. É un episodio che troviamo raccontato in una delle Lettere indirizzate a Raimondo da Capua e che colpisce per drammaticità e forza narrativa. Niccolò di Tuldo era un gentiluomo perugino che nel 1377 la magistratura senese accusò ingiustamente di spionaggio condannandolo alla morte capitale. Nei giorni antecedenti l’esecuzione della condanna, Caterina andò a fargli visita in carcere cercando di sollevarlo da rabbia e disperazione: «Confortati, fratello mio dolce, ché tosto giognaremo alle nozze. Tu n’andrai bagnato nel sangue dolce del Figliuolo di Dio, col dolce nome di Gesù, el quale non voglio che t’esca dalla memoria; io t’aspettarò al luogo della giustitia.» Come promesso lo accompagnò al patibolo, fu lei a piegargli dolcemente la testa e a vederlo pacificato in Dio «come uno agnello mansueto»,

Sulla parete di destra, un olio su muro di Francesco Vanni raffigura Santa Caterina che libera dal demonio un’ossessa, suscitando nei presenti curiosità e meraviglia. 

Il tabernacolo marmoreo che contiene la testa della santa è opera di Giovanni di Stefano (1466). La ‘sacra testa’ è indubbiamente la reliquia più venerata dai Senesi e dai pellegrini, ma varie e tribolate furono le vicende prima che trovasse questa ricca ostensione. Merita ricordarle. Caterina morì a Roma il 29 aprile del 1380 e venne sepolta nel cimitero della chiesa di Santa Maria sopra Minerva in una tomba esposta alle intemperie e all’umidità. A Fra’ Raimondo da Capua non parve una sepoltura degna, tanto che, trascorso nemmeno un anno, ottenne di trasferire i resti mortali in un sepolcro all’interno della medesima chiesa della Minerva. Nell’occasione chiese al papa Urbano VI di poter effettuare il distacco della testa per farla arrivare a Siena, città natale di colei per la quale già il pontefice intendeva avviare il processo di canonizzazione. Con l’assenso papale si procedette al pio intervento. La testa, posta in una borsa di seta (quella conservata oggi presso il Santuario Casa) fu consegnata a due frati domenicani, Tommaso della Fonte e Ambrogio Sansedoni, che partirono alla volta di Siena. Con il patema del delicato incarico giunsero al convento di san Domenico, e la reliquia fu nascosta in un armadio della sagrestia poiché venne deciso di non esporla al pubblico se non dopo la canonizzazione di Caterina. 

Qualche anno dopo, avvenne che lo stesso Raimondo da Capua transitasse da Siena per recarsi a Bagno Vignoni e che i confratelli domenicani lo informassero di come la testa della santa «non era ancora esposta al pubblico, né era stata accolta con solennità, mentre invece, quando i resti mortali degli uomini di questo mondo sono portati da un luogo ad un altro, sono ricevuti dal popolo e dal clero con onori solenni». Raimondo e i confratelli ritennero, pertanto, che era giunto il momento di «far sì che un giorno, quella Testa fosse ricevuta dai frati con solennità, come se arrivasse allora».

I domenicani decisero dunque di venire allo scoperto; di raccontare al Magistrato supremo della Repubblica senese con quali peripezie l’amato resto mortale era giunto a Siena (fra’ Raimondo se ne sarebbe assunto ogni responsabilità) e quindi, coinvolgendo tutta la città, di poter finalmente solennizzare e rendere visibile la presenza della reliquia.

Le autorità repubblicane dettero il loro placet e la festa fu grande. Nella notte del 4 maggio 1384 una teca di rame dorato contenente la testa venne portata nella chiesa di san Lazzaro, fuori porta Romana, e da lì, il giorno seguente, mosse verso la basilica di san Domenico una affollata processione di popolo, autorità cittadine, gentiluomini, ecclesiastici, bambini recanti gigli e rose. Cerimonia seguita da quindici giorni di predicazione incentrata sulla vita e sulle eroiche opere della ragazza di Fontebranda. Poi la teca fu riposta nuovamente in un armadio di pregio della chiesa domenicana. Lì rimase fino al 1461, allorché, in concomitanza con la canonizzazione di Caterina, fu fatta costruire la cappella destinata ad ospitare la ‘sacra testa’. 

Nel corso del tempo la reliquia è scampata a terremoti e ad altre calamità, come l’incendio sviluppatosi all’interno della basilica nella notte tra il 3 e il 4 dicembre 1531. Fu salvata dalle fiamme per l’intraprendenza di Fra’ Anselmo da Firenze che con un lenzuolo bagnato evitò il peggio. Oggi, in un reliquiario d’argento e smalto, fa solenne mostra di sé, oggetto di preghiere e richieste di grazia.

A conclusione di questo excursus cateriniano, più che altro biografico, un discorso a parte andrebbe fatto sulla spiritualità e la teologia espresse da santa Caterina, tutte imperniate sulla figura di Cristo. Alla ragazza illetterata di Fontebranda (grazie al gruppo di giovani intellettuali che le furono non solo discepoli, ma anche segretari-trascrittori) si deve un corpus di scritti di grande levatura, raccolti nelle Lettere (383, indirizzate a persone le più diverse) e nel Dialogo della Divina Provvidenza, che lei stessa chiamerà Libro. Soprattutto il Dialogo (la santa pone domande, Dio risponde) costituisce la sintesi della teologia e dell’ascesi cateriniana. Non a caso qualcuno ha detto che costituisca la sua tesi di laurea con la quale si è guadagnata il titolo di dottore della Chiesa. In ragione di tutto ciò, persino nella storia della letteratura che va dal XII secolo al primo Cinquecento, quello di Caterina da Siena è pressoché l’unico nome di donna a rappresentare una intellettualità femminile.

 

Gallerani e la Domus Misericordiae

Da piazza San Domenico si procede per via della Sapienza. Al termine, d’angolo con via delle Terme, troviamo la chiesa di San Pellegrino alla Sapienza, di linee settecentesche. Sopra la porta leggiamo la scritta “Domus Misericordiae”, a memoria della preesistente casa di Santa Maria della Misericordia fondata intorno al 1250 dal beato Andrea Gallerani. Una confraternita dedita ad attività di assistenza e beneficenza, che in questo luogo aveva eretto una cappella ed altri locali adibiti ad ospedale. L’istituzione fu attiva fin verso gli ultimi decenni del XIV secolo, allorché, a causa di una scorretta amministrazione, vescovo e Comune ne decretarono la soppressione. Nel 1408, con tanto di bolle papali emanate da Gregorio XII, l’edificio venne destinato alla Casa della Sapienza, cioè alla prima sede dello Studio senese.

Quanto ad Andrea Gallerani (1201?-1251), figlio del nobile senese Ghezzolino Gallerani, sappiamo che intraprese la carriera militare e che fu un fervente uomo di fede. Forse con qualche eccesso di zelo, come quando uccise un uomo, un povero diavolo con il vizio della bestemmia. L’omicidio gli costò l’esilio dalla città. Una volta rientrato a Siena e pentito della colpa, piegò il suo cristianesimo a più miti e caritatevoli attività, fondando, come abbiamo detto, la Compagnia degli Oblati della Misericordia a servizio di poveri e ammalati. Attratti dal suo esempio, numerosi giovani si unirono a lui, tanto che la Congregazione divenne una istituzione cittadina molto importante. Morì in fama di santità nel 1251 e fu sepolto nella chiesa dei domenicani. La sua tomba divenne meta frequente di fedeli, tant’è che nel 1274 il vescovo Bernardo Bandini concesse indulgenze a quanti vi avessero fatto visita; concessione poi confermata da Pio V. Nel 1799, Pio VI accordò all’arcidiocesi di Siena che ogni 20 giugno si potesse celebrare, con messa e uffici propri, la festa del beato Andrea Gallerani (questo il titolo che tradizionalmente la Chiesa gli riconosce).

 

La profetessa

La salita della Costa dell’Incrociata ci porta in Banchi di Sopra, dove volteremo a destra per trovare, sulla sinistra, il medievale Arco dei Rossi che immette nella strada omonima. Al numero 60 è la casa dove il 29 maggio 1769 nacque Anna Maria Giannetti. Il padre Luigi era farmacista, persona intemperante e scialacquatore, si ritrovò presto in miseria. E dunque si trasferì a Roma, con moglie e figlia, in cerca di occupazione. Anna Maria studiò prima presso le Maestre Pie e successivamente in una scuola che preparava a lavori femminili. Iniziò a lavorare come cameriera dai signori Serra, dove conobbe il futuro marito Domenico Taigi, anche lui inserviente a casa dei principi Chigi (si sposarono nel 1789 ed ebbero sette figli).

Condivideva con la mamma uno spiccato senso religioso della vita, e proprio ascoltando da sua madre una lettura sul Giudizio universale, decise di votarsi a un’esistenza di digiuno e penitenza. Nel 1790, nella chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, divenne terziaria dei trinitari scalzi. A partire da questa data e fino alla morte, ella sostenne di avere, poco distante dagli occhi, un globo luminoso (un piccole sole) entro il quale le si manifestavano avvenimenti passati e futuri, lo stato delle anime vive o defunte, e, dunque, il loro destino eterno. In virtù di questo suo carisma predisse il ritorno a Roma di Pio VII dopo l’esilio a Fontainebleau; e dello stesso pontefice diventò provvidenziale consigliera, come quando gli svelò i piani che si stavano tramando per assassinarlo. Doti profetiche di cui si sarebbero avvalsi anche Pio VIII, Leone XII, Gregorio XVI, alti prelati e personaggi politici della Roma del tempo. Ebbe inoltre fama di operare guarigioni, se ne avvalse Maria Luisa Borbone Spagna, regina consorte d’Etruria, che venne guarita dall’epilessia.

Fu attribuita alla Taigi l’origine della profezia detta dei “Tre giorni di buio”. Una predizione in linea con la sua mistica continuamente rivolta al giudizio divino. In quei tre giorni il castigo di Dio si sarebbe abbattuto sulla terra in forma di guerre e di altri mali. Buio e aria pestilenziale ovunque. A far luce solo le candele benedette nelle case dei fedeli in preghiera. I nemici della chiesa, tutti morti nell’oscurità, salvo i pochi convertiti. Poi, al terzo giorno, san Pietro e san Paolo avrebbero designato un nuovo papa e il cristianesimo si sarebbe potuto diffondere nel mondo.

Anna Maria Taigi morì a Roma il 9 giugno 1837. La causa di canonizzazione fu avviata da Pio IX nel 1863, il 4 marzo 1906 Pio X decretò le sue virtù eroiche dichiarandola venerabile, fu proclamata beata da papa Benedetto XV il 30 maggio 1920. Il suo corpo è conservato nella basilica romana di San Crisogono a Trastevere.

 

Il fondatore degli olivetani 

Torniamo su Banchi di Sopra e, piegando a sinistra, troviamo la piazza su cui sorge l’elegante palazzo Tolomei. Appartenne a questa nobile stirpe anche Giovanni Tolomei, figlio di Mino e di Fulvia Tancredi. Nacque a Siena il 10 maggio 1272. Brillante studente di giurisprudenza ne divenne poi docente presso lo Studio senese. Ricoprì anche cariche pubbliche (tra queste, Capitano del Popolo). A interrompere la sua carriera e la vivace vita mondana sopraggiunse una malattia agli occhi che lo portò alla quasi cecità. Chiese allora la grazia di poter riacquistare la vista promettendo a Dio che avrebbe dedicato la propria vita alla preghiera e alla penitenza. La miracolosa guarigione avvenne e Giovanni, nel 1313, in ottemperanza al voto fatto, si ritirò nel “deserto di Accona”.


Così era chiamata la proprietà di famiglia nel comune di Asciano, nella zona delle Crete, caratterizzata da terreni brulli e desertici. Lo seguirono in questo eremitaggio altri due nobili senesi, Patrizio Patrizi e Ambrogio Piccolomini. In breve la comunità crebbe, così che, il 26 marzo 1319, il vescovo di Arezzo Guido Tarlati dei Pietramala approvò la fondazione di un nuovo monastero che si sarebbe chiamato Monte Oliveto (a motivo delle diverse piante di olivo presenti nella zona). I monaci avrebbero seguito la regola di san Benedetto e da quel momento Giovanni assumerà il nome di Benedetto. Nel 1320 venne iniziata la costruzione del monastero e, nel 1344, la congregazione olivetana fu confermata da Clemente VI. Ne fu abate lo stesso Tolomei fino alla sua morte avvenuta il 20 agosto 1348 dopo aver contratto la peste assistendo, insieme agli altri confratelli, gli appestati di Siena. L’ordine olivetano si diffuse anche altrove, tant’è che il monastero senese, per distinguerlo dagli altri, prese la denominazione di Monte Oliveto Maggiore. Il 31 agosto 1768, Clemente XIII dichiarò beato Bernardo Tolomei. Il monastero, a meno di 40 chilometri da Siena, merita indubbiamente una visita per la suggestione del luogo e per i capolavori d’arte che vi sono racchiusi.

Teologo, predicatore, diplomatico

Da piazza Tolomei prendiamo per via di Calzoleria che, con i vicini vicoli, reca tracce dell’originaria struttura urbanistica del quartiere medievale. Sfociamo in Banchi di Sotto e al numero 34 è il Palazzo Sansedoni, il cui prospetto principale affaccia su piazza del Campo come un castello incastonato nell’emiciclo della piazza. Da un aggregato di palazzi risalenti alla prima metà del XIII secolo, il palazzo fu successivamente trasformato in unica signorile abitazione. E qui vennero ad abitare i Sansedoni, che tra i loro esponenti più celebri vantano Ambrogio.

Ambrogio Sansedoni nacque il 16 aprile 1220. Non proprio un bel bambino, con gravi deformazioni agli arti, tanto che fu affidato a una balia fuori dalle stanze di famiglia. La donna ne prese amorevole cura e – come sempre edotti dalla leggenda – sappiamo che poté tornare sanato in famiglia dopo che la nutrice lo aveva esposto dinanzi all’altare della cappella dell’ospedale della Maddalena (primo convento domenicano a Siena). A diciassette anni decise di farsi frate domenicano. Frequentati i primi studi e il noviziato, nel 1245 andò a perfezionarsi a Parigi, successivamente (1248) a Colonia. Avrà come docente il futuro sant’Alberto Magno. Suoi compagni di studi saranno Pietro di Tarantasia (poi diventato papa Innocenzo V) e Tommaso d’Aquino. 

Per la sua cultura teologica venne chiamato ad insegnare a Parigi. Non di meno era apprezzata la sua capacità predicatoria che l’iconografia ha spesso rappresentato con la colomba simboleggiante lo Spirito Santo che gli parla all’orecchio. Dimostrò, inoltre, notevoli doti diplomatiche, grazie alle quali, nel 1245, fu probabilmente evitato lo scisma che andava profilandosi in Germania per il dissidio tra il concilio di Lione e l’imperatore Federico II.

Le vicende politico-religiose vedranno molto coinvolto il Sansedoni. Morto Federico II, il figlio Manfredi intese recuperare i territori imperiali nel Meridione italiano. La Chiesa si invischiò, così, in una lotta contro la Germania chiamando in Italia l’esercito francese di Carlo d’Angiò. Poiché Siena ghibellina era dalla parte di Manfredi, Clemente IV decretò che in città non si potessero più celebrare riti sacri. Allora Ambrogio partì alla volta di Orvieto per essere ricevuto dal papa e argomentargli come il provvedimento mortificasse i Senesi. Talmente appassionata e razionale fu l’esposizione del Sansedoni che il papa dovette ammettere: «Mai un uomo ha parlato così». Opinione diffusa anche tra tutti coloro che avevano avuto modo di ascoltare il Sansedoni a Parigi, in Germania, ovunque fosse intervenuto in veste di mediatore e pacificatore. Purtroppo fallì quando da Napoli – e nonostante il coinvolgimento del papa – tentò di salvare dalla decapitazione Corradino di Svevia, che i traditori avevano consegnato a Carlo D’Angiò.

Rientrato a Siena, fu priore del convento di San Domenico e ricominciò un’intensa attività di predicazione. Morì il 20 marzo 1286, mentre predicava durante il quaresimale. Si dice che stesse facendo un discorso contro l’usura e che la veemenza delle sue parole sia stata così forte da provocargli la rottura di un’arteria. La città lo pianse e lo onorò fin da subito come un patrono. Ci si raccolse in preghiera davanti alle sue reliquie in San Domenico, un suo busto fu collocato sulla facciata del Duomo e fino alla metà del Cinquecento gli sarebbe stato dedicato un Palio. Nel 1597 papa Clemente VIII lo incluse nel Martirologio romano.

 

Fede ed opere

Si prosegue per Banchi di Sotto. Al numero 81, il trecentesco palazzo Piccolomini Clementini, dove ha sede la Compagnia delle Figlie di Sant’Angela Merici, suggerisce il ricordo della contessa Bianca, appartenente a questa grande famiglia senese che tra i propri antenati annovera papa Pio II.

Bianca nacque nel 1877. Crebbe in una famiglia di rigorosa tradizione cattolica, ma anche aperta alle questioni sociali che con l’enciclica Rerum Novarum (1891) la Chiesa avrebbe posto all’attenzione dei propri fedeli. Pietro Piccolomini, fratello di Bianca, fu persona molto impegnata in tal senso ed aprì il palazzo di famiglia a diverse iniziative di carattere sociale: Società di Patronato e Mutuo Soccorso tra Operaie, corsi di alfabetizzazione, incontri culturali e formativi che vedessero insieme nobili, aristocratici, persone del popolo. Pietro morì improvvisamente nel 1907, e Bianca, che lo aveva sempre affiancato in queste attività, ne proseguì l’opera sul versante caritativo e attuando progetti che il fratello non aveva fatto in tempo a realizzare, come la creazione di un laboratorio di sartoria e ricamo.

Con il passare del tempo, per Bianca andò a profilarsi sempre più chiara quella dimensione del cristianesimo che sa unire fede ed opere. E prese a maturare in lei la vocazione a costituire – scriverà in uno dei suoi diari – «una congregazione tutta interna, intima, spirituale, che ci tenesse noi ragazze tutte unite tra noi e unite a Dio» per vivere una fede non di forma ma di sostanza, tesa all’imitazione di Cristo, ad una libertà di spirito e di pensiero.

A Brescia aveva avuto modo di conoscere la Compagnia delle Figlie di Sant’Angela Merici, un ordine religioso indubbiamente innovativo, poiché le donne che vi si consacravano non si ritiravano in convento, non indossavano abiti particolari, continuavano a vivere ‘nel mondo’. A Bianca parve che questa fosse la regola che meglio rispondeva alla propria vocazione. Così, nel 1917, formò a Siena il primo nucleo della comunità insieme a due donne impegnate a coordinare il Laboratorio di sartoria che nel frattempo era stato avviato. Nel 1920 aprì la Colonia agricola (era un’altra delle idee avute dal fratello Pietro) per la formazione ai mestieri agricoli. Mai perdendo di vista la dimensione spirituale, istituì l’Opera Ritiri al fine di organizzare ritiri spirituali per donne che lei stessa guidava con meditazioni e momenti di preghiera. Così come dette vita all’Associazione della “riparazione notturna”, un gruppo di Adoratrici «une con Cristo Sacerdote, vittime con Lui e per Lui» votate a pregare in riparazione dei peccati delle anime consacrate e del clero. Clero con il quale Bianca non ebbe mai rapporti facili, in ragione dell’autonomia da ogni ingerenza clericale che sempre pretese per le sue attività. Ebbe, comunque, proficui contatti con sacerdoti particolarmente illuminati quali don Orione, Primo Mazzolari, Divo Barsotti. Il suo pensiero sul clero lo troviamo chiaramente espresso in una pagina di diario datata 12 dicembre 1937: «Mentre protesto la mia incondizionata sottomissione alla Chiesa, mia amatissima madre, devo confessare che all’interno della mia istituzione non permetterò mai ingerenze sacerdotali, se non in quella parte che riguarda il culto, perché io ho visto purtroppo come è raro trovare nel sacerdote la santità unita alla libertà di spirito.» Da ciò risultano comprensibili i contrasti avuti con le gerarchie ecclesiastiche.

Inferma, ridotta alla cecità, nel 1957 lasciò la guida della Compagnia. Morì a Siena il 14 agosto 1959, qualche mese dopo che papa Giovanni XIII aveva annunciato il progetto di un Concilio per la Chiesa universale. Del rinnovamento della Chiesa che poi scaturirà dal Concilio Vaticano II, Bianca Piccolomini, a suo modo, già ne aveva colto l’esigenza e lo spirito. Il 3 marzo 2016 fu dichiarata venerabile con decreto della Sacra congregazione dei santi.

 

Il pazzo di Cristo 

Costeggiando le Logge del Papa, si giunge in via del Porrione. Al numero 49 ha sede l’Arciconfraternita di Misericordia, la cui fondazione si fa derivare da quella Domus Misericordiae di cui abbiamo già detto, istituita da Andrea Gallerani.

Nel piccolo museo dell’Arciconfraternita troviamo alcuni richiami ad una singolare figura del misticismo senese: Bartolomeo Carosi (o Garosi) detto Brandano, scontroso eremita, irruento predicatore, apocalittico profeta.

Brandano era un contadino di Petroio (Trequanda) dove era nato nel 1483. Anche la sua vita ha un ‘prima’ (di dissoluzione, sfrenatezze, peccato) e un ‘dopo’ (di ravvedimento, virtù, santità). Tutto iniziò quando, per un colpo di zappa male assestato, una pietra andò a colpirgli l’occhio sinistro accecandolo per sempre da quella parte. La disgrazia rese il Carosi quanto mai blasfemo e incollerito verso il Creatore. Finché non gli capitò di ascoltare la predica di un frate, Serafino da Pistoia, che lo convinse a tal punto sull’importanza delle celesti cose, da trasformare lui stesso in un predicatore. 

Il contadino di Petroio cominciò così a girare per paesi e città brandendo la croce (forse da questo gesto derivò il soprannome di Brandano) e annunciando: «il castigo di Dio è vicino… fate del bene che la morte viene». Ragionevolmente a non tutti piacevano i moniti di Brandano, tesi a «riprendere e chiamare a penitentia el misero et ostinato peccatore annunciandoli grandissima pestilentia e fame». Più di una volta rischiò la propria incolumità. Del resto i suoi vaticini (che regolarmente si verificavano) non erano affatto rassicuranti. Come quando, a Santa Vittoria, al gruppo di persone che gli chiedevano quanto dovessero scavare per trovare l’acqua, rispose di «affondare bene perché fra poco l’averete tutte ad empire di ossa di morto», e, a distanza di alcuni giorni, proprio quel luogo fu teatro di una battaglia con un migliaio di morti.

Le cose si complicarono soprattutto quando Brandano decise di andare a predicare a Roma, «non per disputare né insegnare dottrina – diceva – ma per insegnare come si debba tornare a penitentia». Insegnarlo soprattutto ai preti, ai vescovi corrotti e avidi, dimentichi della loro missione; tanto rigidi nella dottrina quanto blandi nelle loro vite. Forse superò la misura il giovedì santo del 1527, allorché, terminati i solenni riti, mentre papa Clemente VII benediceva la folla, gli urlò contro tacciandolo di «sodomita bastardo» e avvertendo i molti presenti che, proprio a causa di un papa peccatore, da lì a poco Roma sarebbe stata distrutta. Dopo qualche mese, guarda caso, sarebbe avvenuto il Sacco di Roma ad opera dei lanzichenecchi assoldati da Carlo V d’Asburgo.

Il profeta senese fu subito arrestato dalle guardie svizzere, incatenato, chiuso in un sacco e gettato nel Tevere. Ma il Carosi riemerse miracolosamente dalle acque. Episodio che lo rese quanto mai popolare e temuto tra i romani, ai quali non erano sfuggiti altri inquietanti prodigi: un fulmine si era abbattuto sopra i palazzi papali, un altro aveva tolto la corona dal capo della statua della Madonna di Santa Maria in Traspontina, nella Cappella Sistina una pisside era inspiegabilmente caduta a terra, una vacca aveva sgravato dentro le stanze della Cancelleria. Insomma, c’era materia a sufficienza per poter credere alle profezie del “pazzo di Cristo”.

Le invettive di Brandano contro Clemente VII trovarono in Siena larghi consensi. Anche perché con il chiaro appoggio del papa si era potuta compiere l’aggressione medicea alla città. E, dunque, abbasso il papa anticristo e nemico di Siena, evviva Brandano, che nel frattempo aveva regolarizzato la sua posizione religiosa entrando a far parte della Compagnia di Sant’Antonio Abate, legata agli agostiniani di Lecceto. Si ebbe, così, un inconsueto caso di ben accetto “profeta in patria”. A Brandano fu concesso di predicare in Duomo, i notabili della città desideravano che fosse padrino di battesimo dei loro figli, le istituzioni gli erogavano denaro «pro elemosina ed amore Dei» da utilizzare per le sue opere a servizio dei poveri, per l’assistenza ai malati del Santa Maria della Scala, per l’educazione religiosa dei giovani.

Il patriottismo di Brandano trovò la più toccante testimonianza nell’esortazione che rivolse a Giulio III: «Io vi avviso Santo Padre, anzi Pastore, che voi non pigliate impresa contro la città vecchia di Siena, che è città dall’alta Reina che l’ha guardata e guarderà, e chi contra ci verrà malcontento se ne partirà».

Brandano morì a Siena il 24 maggio 1554. L’allora arcivescovo Camillo Borghese emise un editto che esortava i Senesi a venerare Bartolomeo Carosi come beato. Il corpo restò esposto per tre giorni nella chiesa di San Martino, sempre gremita di persone. Il Beato ricambiò l’affetto dei suoi concittadini con miracoli e ulteriori prodigi. Poi la salma venne rimossa e sepolta in luogo segreto.

Nel Museo della Misericordia sono oggi esposti il saio con cilicio, la croce e il teschio che Brandano mostrava nelle sue prediche. Nella Collegiata di Santa Maria in Provenzano è conservata la croce con le due Marie.

 

Un grande comunicatore

Torniamo indietro per via del Porrione e, a dritto, giungiamo in Piazza del Campo. Guardando il Palazzo Pubblico, certamente non sfugge il grande disco in rame a forma di sole raggiante che campeggia sulla facciata. Riproduce il trigramma ideato da san Bernardino da Siena e dipinto da Battista di Niccolò nel 1425. 

Piazza del Campo, come si sa, fu luogo (insieme a piazza San Francesco) di celebri prediche bernardiniane. Il frate, la mattina di buon ora, saliva su un pulpito posto nella parte bassa della piazza e prendeva a spiegare al popolo dottrina e sacre scritture. Lo faceva con un linguaggio così efficace e arguto che le sue prediche sono considerate nella letteratura italiana preziosi esempi di lingua viva. Se volessimo vedere quale sia stata la scena, basterà entrare nel Museo Civico dove una tempera su tavola di Neroccio di Bartolomeo raffigura una Predica di San Bernardino in Piazza del Campo. La scena è gustosissima: uomini e donne, separati opportunamente da una lunga paratia, si lanciano sguardi e ammiccamenti, non dimostrando, in verità, grande interesse per le parole del sant’uomo. E infatti Bernardino si vedeva costretto a continui e sferzanti richiami: «… guardare me, hai inteso? Guardare me…; o della fonte, che state a fare il mercato? Andatelo a fare altrove!; o fanciulli che vendete le candele, a voi dico!»terre di siena

Bernardino degli Albizzeschi, di origini nobili, era nato a Massa Marittima nel 1380. Rimasto orfano si trasferì a Siena per studiare, premurosamente assistito dalle zie benestanti. A 22 anni diventò frate dei Minori francescani e cominciò la sua attività di predicatore nel Nord Italia. Lo contraddistingueva un parlare diretto e un’interpretazione del Vangelo molto legata agli aspetti concreti della vita. Certi suoi concetti su etica e imprenditorialità sono entrati nella storia del pensiero economico. Come, ad esempio, l’idea che la ricchezza di alcuni debba creare ricchezza per tutti. E, dunque, guai a quei ricchi che, anziché fare investimenti per il bene comune, usavano il loro denaro nella deplorevole attività dell’usura. Una siffatta predicazione gli procurò, ovviamente, molti nemici. Nel 1425, quando per sette settimane di seguito predicò in Siena, usurai e gestori di case da gioco sollecitarono contro di lui un processo per eresia. La causa finì a Roma, ma anche grazie alla difesa di Giovanni da Capestrano, Bernardino fu completamente prosciolto dall’accusa. Anzi, papa Martino V gli chiese di trattenersi a Roma dove per 80 giorni svolse un’intensa opera di predicazione.

L’Albizzeschi era uomo di vasta cultura: scolaro di Guarino Veronese, amico di celebri umanisti tra cui il Traversi e Leonardo Bruni. Il primo racconto della sua vita si deve a due letterati quali Barnaba Sanese e Maffeo Vegio. Le sue prediche sono giunte fino a noi grazie a un assiduo frequentatore di quei sermoni: Benedetto di maestro Bartolomeo, cimatore di panni, che ‘stenografò’ e trascrisse le parole e perfino i giochi onomatopeici dell’estroso frate francescano. Fra le prediche più famose, quelle del quaresimale senese del 1427. Eccone un saggio di grande effetto. Dovendo spiegare l’Apocalisse, Bernardino si sbraccia dal pulpito e comincia a dire: «… et datus est ei gladius magnus… e dice, che gli fu data una spada lunghissima. – Doh! magiore che Durindana. – O quanto era grande? – Dico che era magiore che tutto questo Campo. – Oh, era quanto di qui alla porta a Camollia? – Anco più: io ti dico che era più lónga che tutta Toscana. – Oh, era più che Italia? – Più. Ella era più che tutta cristianità: dico che era tanto grande, quanto è tutta la terra e ’l mare». E non priva gli ascoltatori nemmeno della colonna sonora di quel roboante Giudizio Universale: «quando l’Angiolo sicondo si pose la tromba a boca, tpu, tpu, tpu, una montagna di fuoco ardente, grande più che la Montamiata, cadde in mare».

Grande comunicatore, Bernardino ideò anche il logo che meglio avrebbe potuto sintetizzare il suo messaggio imperniato sulla figura di Gesù Salvatore degli uomini. Questo, infatti, significa quel disco con le tre lettere (IHS, Iesus Hominum Salvator) che, a guisa di un sole, irradia Grazia e Carità attraverso 12 raggi serpeggianti (12 come gli apostoli); ci sono poi altri otto raggi (quante sono le beatitudini); la fascia che circonda il sole è invece l’eterna beatitudine; il celeste dello sfondo è la fede, mentre l’oro sta a significare la lucentezza dell’Amore. É il brand di un santo giustamente scelto dai pubblicitari come loro patrono.

Per tutta la sua vita, Bernardino non cessò mai l’opera evangelizzatrice. Nel 1444, già molto malato, si recò a L’Aquila. Il vescovo Agnifili lo aveva invitato per predicare e per tentare di riconciliare due contrapposte fazioni. In questa città morì il 20 maggio e lì sarebbe stato sepolto nella basilica aquilana a lui dedicata.

A Siena, un luogo bernardiniano di grande suggestione è il convento dell’Osservanza, sul Colle della Capriola (a circa cinque chilometri dalla città, è raggiungibile anche con i bus urbani N. 3 e 8). Qui san Bernardino risiedette durante le permanenze senesi. Purtroppo la sua cella andò perduta nella ristrutturazione secentesca del convento. É stata però ricostruita con alcuni materiali originari, come la piccola porta d’ingresso. Vi si conservano la tonaca da viaggio, altri indumenti e panni che il santo indossava al momento della morte, la tavoletta con il trigramma, datata al 1425 e verosimilmente usata in ostensione da Bernardino nelle celebrazioni del Nome di Gesù risalenti a quell’anno. Rilevanza documentaria assumono inoltre gli autografi esposti, come la lettera di san Giacomo della Marca. Su una parete è stata collocata la terracotta raffigurante San Bernardino in dolente contemplazione, attribuita prima ad Urbano da Cortona, poi ad epoca più tarda e probabile copia dell’originale terracotta del Cozzarelli. Sull’altare della cella, il busto del santo proveniente dalla facciata della stessa chiesa dell’Osservanza, attribuito al Vecchietta.

All’uscita dal convento scendiamo nel piazzale sul retro della chiesa. La città si rivelerà ai nostri occhi tutta sospesa tra terra e cielo. Come lo furono i suoi santi.

 

Una produzione: toscanalibri.it
Testi a cura di Luigi Oliveto
Coordinamento editoriale:
Elisa Boniello e Laura Modafferi
Foto: Archivio Comune di Siena
Grafica: Michela Bracciali

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