9.1 La battaglia di Montaperti (4 settembre 1260): i luoghi della città

La battaglia di Montaperti (4 settembre 1260): i luoghi della città

4 SETTEMBRE 1260: IL MITO DI MONTAPERTI 

La battaglia di Montaperti a Siena l’abbiamo tatuata sulla pelle e così, ogni 4 settembre, viene spontaneo ritornare sempre a quella giornata. Questo evento, a distanza di secoli e dopo molte altre battaglie combattute dai senesi, continua ad affascinare perché rappresenta il più importante accrescimento della consapevolezza della nostra storia. Oggi abbiamo molte più notizie sulla mobilitazione, sulla composizione dell’esercito, sull’eco che lo scontro ebbe non solo in Italia ma in altri paesi della Cristianità. Non fu, infatti, solo uno scontro di “campanili”, ma si trattò di una guerra con conseguenze importanti che accelerò il processo di conquista del regno meridionale da parte della coalizione angioino-papale-guelfa. Ora sappiamo che molta mitografia popolare si appoggia su una “reinvenzione” dei fatti: la Madonna del Voto in Duomo non è quella della vigilia dello scontro, ma è un’immagine che fu invocata nel 1631 per evitare che la peste colpisse Siena. Quella invocata per Montaperti è probabilmente la cosiddetta Madonna dagli Occhi Grossi, oggi esposta nel Museo dell’Opera del Duomo. L’episodio è comunque significativo proprio per la parte “riscritta” e “reinventata” connessa a quella data: insomma Montaperti è un mito che ha attraversato quasi intatto i secoli ed è stato raccontato, a seconda del bisogno e anche in modi apparentemente contraddittori. Difatti la prima versione si presenta all’insegna del negazionismo, che coinvolge tanto la memoria senese quanto quella fiorentina. Quella senese perché già nel Cinquecento erano scomparsi tutti i documenti pubblici relativi al secondo semestre del 1260, fatti sparire in periodo guelfo per non urtare suscettibilità politiche e assetti diplomatici? O, più verosimilmente, sottratti in epoca medicea quando Cosimo de’ Medici (dopo la vittoria nella Guerra di Siena del 1554-1555, descritta nel percorso 6) assunse la sovranità dello Stato Senese e Montaperti era un’onta troppo pesante? Ma, del resto, lo stesso accade anche nella memoria fiorentina perché i cronisti che si occuparono della battaglia tesero a minimizzare (o addirittura a sottacere) la partecipazione senese allo scontro, enfatizzando, invece, il ruolo dei soldati di Manfredi. Per non parlare poi di memorialisti come Benedetto Dei che, nel ‘400, censurò del tutto la battaglia, per dare rilievo, per l’anno 1260, al solo scontro di Santa Petronilla (precedente a Montaperti) che vide i fiorentini vincitori sul manipolo tedesco. Il fiorentino arriva a dire, addirittura, che nel 1260 i guelfi di Firenze avevano sconfitto quegli esuli ghibellini fiorentini che avevano cercato asilo a Siena. Poi il mito si appanna e rinasce nel Quattrocento, con il cambiamento di alleanze politiche della città e, soprattutto, con un ritrovato orgoglio civico e un nuovo senso di riacquisita libertà. E, dopo l’oblio logico del tempo mediceo, solo nel tardo Ottocento Montaperti diventa il simbolo della difesa dell’autonomia comunale e della difesa della libertà. Che cosa resta del mito di Montaperti oggi? Le aste del Carroccio in Duomo, una campanina nel museo della Contrada Leocorno, almeno secondo la tradizione, lapidi che ricordano luoghi di partenza, fatti, personaggi.

SAN CRISTOFORO: da dove si decise di andare in battaglia e dove si tornò vittoriosi

Chiesa di San Cristoforo

Secondo la tradizione, la chiesa di San Cristoforo, in piazza Tolomei, riveste un ruolo determinante prima e dopo Montaperti. Qui si decide l’intervento di Siena dopo l’arrivo dei superbi ambasciatori fiorentini; qui i senesi, preoccupati di non racimolare denaro sufficiente per coprire i costi della battaglia, accolgono l’offerta di Salimbene Salimbeni di centomila fiorini per la difesa della città. Qui, dopo la vittoria, vengono portati i prigionieri, tra cui uno dei tracotanti ambasciatori che avevano posto l’ultimatum della resa a Siena (l’altro pare morto sul campo), e il bottino di guerra perché la chiesa di San Cristoforo è un luogo, oltre che sacro, politico e istituzionale. In San Cristoforo si apre e si chiude, così, il cerchio della storia di Montaperti. E ancora in questo luogo si discusse del dopo Montaperti: incassare la vittoria contro Firenze e finirla qui? Proseguire la guerra? Punire Montalcino che, in qualche modo era stata la “miccia” che aveva dato fuoco all’intera vicenda?

MADONNA “DAGLI OCCHI GROSSI”, Maestro di Tressa (attr.), 1225 c.ca.

In piazza Jacopo della Quercia, accanto alla Cattedrale, troviamo la sede del Museo dell’Opera della Metropolitana dove, oggi, è conservato il dipinto de La Madonna dagli Occhi Grossi.

L’icona mariana, tra le più antiche presenti a Siena, è attribuita al cosiddetto Maestro di Tressa, uno dei “primitivi” della pittura senese, attestato nella prima metà del XIII secolo. È detta “dagli occhi grossi” probabilmente per gli ex voto in forma circolare che le erano stati apposti intorno.

Madonna “dagli occhi grossi”, Maestro di Tressa

Perché è importante? Perché potrebbe essere questa l’immagine, allora posta sull’altare maggiore del Duomo, davanti alla quale il Podestà di Siena Bonaguida Lucari (personaggio del quale non c’è altra traccia nella storia dell’epoca e che quindi è, probabilmente, frutto di invenzione) e tutto il popolo senese fecero atto di voto alla Madonna, affidandole la città alla vigilia della battaglia di Montaperti (anche se il “dedicarsi alla Madonna” o il “votare” una città alla Madonna è un rituale più tardo che inizia in tempi ben successivi, come, del resto, tutte le cronache dedicate a Montaperti). 

In origine il dipinto si presentava in modo ben diverso. Sicuramente il pannello aveva dimensioni più ampie e doveva costituire un vero e proprio dossale in cui la figura principale era, presumibilmente, affiancata da storie della Vergine. Questo lo si deduce non solo da fonti testuali concordanti, ma anche dal raffronto con il Paliotto del Salvatore, attribuito allo stesso autore, oggi conservato nella Pinacoteca Nazionale.

Nel dipinto attuale la raffigurazione risulta, inoltre, priva delle gemme colorate incastonate che un tempo contornavano la Vergine col Bambino e che ora hanno lasciato “malinconici” spazi vuoti. La Madonna dagli Occhi Grossi ha assunto, in realtà questo nome solo in epoca recente, a partire dal 1862. In passato era stato utilizzato per designare un’altra icona La Madonna del Voto, opera di Dietisalvi di Speme, cosa che ha generato non poca confusione tra gli storici dell’arte moderni, anche in virtù del fatto che fu proprio la Madonna del Voto a sostituire l’opera del Maestro di Tressa sull’altare maggiore, intorno al 1280 circa.

IN DUOMO E ASTE DEL CARROCCIO

Siamo accanto al Duomo: bisogna entrare. Mentre ammirate la bellezza dei dettagli e dell’insieme di questo edificio, arrivati nei pressi dell’altare maggiore, addossati alle colonne della navata centrale, sotto la cupola, noterete due lunghissimi pali in legno, che stonano un po’ con l’eleganza, la preziosità e l’imponenza di quanto c’è intorno. 

Ma per quale motivo sono posizionati lì? È ragionevole chiederselo perché non è certo per ragioni estetiche. Sono lì perché rappresentano in modo tangibile il simbolo della vittoria di Montaperti. Come attestano le fonti, sono le aste montate sul Carroccio senese che venne portato in battaglia: tra l’altro, fino al Trecento, questo veniva esposto solo durante cerimonie particolari o importanti. Poi venne smantellato, troppo logorato dal tempo e di questo “simbolo” oggi restano, appunto, solo queste due “antenne” di circa 15 metri ciascuna.

IN DUOMO: LE TOMBE DI DUE “GERRIERI” 

Le aste del Carroccio di Montaperti, Duomo di Siena

In Duomo, una all’ingresso del portale di destra e una davanti alla porta centrale, vi sono anche sepolture particolari: vi riposano due giovani nobili senesi caduti a Montaperti. Sono Andrea Beccarini e Giovanni Ugurgieri. Le lapidi, poste sul pavimento, vengono cambiate nel tempo. Un erudito del Seicento, Isidoro Ugurgieri, ricordava che fino alla metà del secolo precedente nella sepoltura del suo avo, oltre all’iscrizione, c’era anche la statua del giovane a cavallo. Ma soprattutto le due tombe, usurate di certo da chi nel tempo vi aveva camminato sopra, vennero rifatte nel 1839, durante il restauro di tutto l’impiantito della Cattedrale. In quell’occasione vennero anche aperte e dentro vi furono trovati resti di ossa e ferro. Questo restauro spiegherebbe la foggia troppo “moderna” delle lapidi attuali e anche alcuni errori come quello sulla tomba del Beccarini datata 24 aprile 1260 invece del celebre 4 settembre.

PALAZZO CHIGI SARACINI: i Marescotti e la leggenda di Montaperti 

Palazzo Chigi Saracini, oggi sede dell’Accademia Musicale Chigiana, in origine si chiamava palazzo Marescotti e prendeva il nome da Guido o Guittone Marescotto dei Marescotti, che per primo ne iniziò la costruzione.

L’importanza rivestita nel corso del XIII secolo dall’edificio è ben simboleggiato da una cronaca che narra le gesta di Montaperti, quando: “salì un tamburino su una delle torri di Mariscotti, da dove si godeva lo scenario su tutta la nostra gente e la gente del campo fiorentina… la maggioranza della gente al piede della torre, era inginocchiata e prega Dio e la Santa Madre di Dio, la Vergine Maria, per ottenere la forza e la resistenza contro questi maledetti cani, nostri nemici fiorentini”.

La tradizione vuole che il tamburino di cui narra la cronaca fosse Cecco Ceccolini che il 4 settembre 1260 urlava alle donne senesi, inginocchiate per strada, l’evolversi della battaglia.

La cronaca, anche se è solo una leggenda, pone l’accento non solo sul ruolo strategico che aveva l’edificio nella via di Galgaria, come si chiamava al tempo via di Città, ma anche sull’influenza della famiglia Marescotti stessa. L’edificio restò di proprietà dei Marescotti fino al XVI secolo passando prima nelle mani della famiglia Piccolomini Mandoli e, successivamente, in quelle dei Saracini dei quali porta ancora il nome.

 

 

Torre dei Marescotti

CASTELLARE DEGLI UGURGERI: da dove un’antica tradizione vuole che si sia mosso l’esercito 

Secondo un’antica tradizione l’esercito senese, per andare a combattere a Montaperti, si sarebbe radunato nel castellare degli Ugurgeri. Se state osservando il Castellare, vi starete chiedendo: “Ma dove sarebbero entrati?”. In realtà il “Castellare degli Ugurgieri” è un gruppo di abitazioni fortificate e chiuse intorno a una corte, secondo un modello assai diffuso a Siena nell’ XI e nel XII secolo. Queste abitazioni venivano costruite all’interno o appena fuori la cerchia cittadina e riproducevano, in piccolo, i castelli del contado. I documenti, pertanto, provano l’esistenza dei castellari dei Salimbeni, dei Malavolti, dei Rossi, dei Marescotti, giusto per citare i più famosi. L’unico ancora esistente, almeno in parte, è proprio questo degli Ugurgieri, caratterizzato dalla corte interna circondata da edifici a notevole sviluppo verticale e, sul retro, dal duecentesco palazzo di famiglia, riconoscibile per la parte inferiore in pietra e per quella superiore in laterizio, arricchita da grandi archi gotici a forma di bifora.

Quindi cosa c’entra con Montaperti? Il 4 settembre del 1960 la Contrada Priora della Civetta, che qui ha la sua sede, la sua Società e il suo museo, fece apporre una lapide in ricordo di Giovanni Ugurgieri, uno dei comandanti dell’esercito senese che in quella battaglia di 700 anni prima morì. L’Ugurgeri, come detto, venne sepolto sotto il pavimento del duomo sulla soglia della porta centrale della Cattedrale.

CONTRADA PRIORA DELLA CIVETTA: il Palio di Montaperti

E visto che nel Castellare ci siamo, è bene sapere che nel museo della Contrada Priora della Civetta è conservato il drappellone che la Contrada vinse proprio nella Carriera dedicata ai 700 anni dalla battaglia di Montaperti. Il 4 settembre 1960 si corre questo Palio straordinario (nei quale si ricordano anche ai Giochi Olimpici di Roma) e la Civetta trionfa con la cavalla Uberta de Mores montata dal fantino Giuseppe Gentili detto Ciancone. L’accoppiata, capitanata da Giorgio Bardini, partì per prima e mantenne questa posizione fino al bandierino. Secondo arriva il Leocorno che, dopo questa Carriera, rompe tutti i rapporti con la Civetta, già inaspriti da qualche tempo. Il sorteggio delle dieci Contrade partecipanti al Palio straordinario avviene il 21 agosto, di fronte a una Piazza gremita come non mai. Il 1° settembre sono assegnati i cavalli e il Palio viene corso davanti a grandi personalità, tra cui la principessa Maria Pia di Savoia con il marito Alessandro. Si racconta che molti contradaioli della Civetta aspettassero l’esito della corsa nel Castellare e che, tra di essi, ci fosse anche una donna, Messinella, nota contradaiola che aveva stretto un patto con Sant’Antonio, il Santo Patrono della Contrada: nell’accendergli il grosso cero propiziatorio, cosa che faceva a ogni Carriera, mormorò “Senti, Sant’Antonio, stavolta te l’ho rimesso, ma se si perde per me resti al buio!”. Sant’Antonio l’ascoltò. Il drappellone venne benedetto anche in San Cristoforo e lì la Contrada lo riportò dopo la corsa per cantare il Maria Mater di ringraziamento per la vittoria riportata sul Campo e per ricordare che, proprio in quella chiesa, i senesi decisero di scendere in battaglia a Montaperti contro quelli che ritenevano i nemici della libertà.

 

PROVENZAN SALVANI: LE SUE GESTA A MONTAPERTI E LE RIME DANTESCHE

Vicino al castellare degli Ugurgeri, in via del Moro, è apposta la lapide con i versi che Dante Alighieri dedica a Provenzan Salvani, celebre protagonista di Montaperti (in realtà più del “dopo” che della battaglia stessa). Perché in questa via? Perché era la zona in cui la famiglia Salvani nel Duecento aveva i suoi palazzi e le sue torri.

Provenzan Salvani a metà del XIII secolo emerge nel contesto politico popolare filo-svevo del Comune di Siena tanto che è citato da Dante Alighieri nel XI Canto del Purgatorio (vv. 122-123): “Quelli è, rispuose, Provenzan Salvani; ed è qui perché fu presuntuoso a recar Siena tutta a le sue mani”. 

In città Provenzano è l’uomo di Manfredi; prima della battaglia di Montaperti, egli serve al sovrano per garantire l’ancoraggio della città alla causa sveva e Manfredi serve a Provenzano per garantirsi una leadership nel contesto delle istituzioni senesi, e anche dopo Montaperti Salvani resterà il garante della politica senese filo-manfrediana. Ed ecco che arriviamo all’accusa di Dante (oggi definiremmo Provenzano “un golpista”): la più o meno reale egemonia di Provenzano su Siena è da leggersi proprio a seguito del rapporto con il sovrano e con il potere che gli concede tanto da arrivare alla “presunzione” più alta: il volersi insignorire di Siena. E Dante gli risparmia l’Inferno solo per il supremo atto di generosità che Provenzano compirà dopo la battaglia di Tagliacozzo, quando si umilia davanti ai senesi nel Campo per chiedere l’elemosina e riscattare l’amico Mino Pagliaresi preso prigioniero da Carlo d’Angiò. Provenzano Salvani morirà nella battaglia di Colle Val d’Elsa nel 1269, quando i ghibellini senesi vengono sconfitti da Firenze e dalla coalizione guelfa, e la colpa, dicono le cronache, “fu el tradimento ordinato da misere Provenzano, el quale s’intese co Franceschi” [gli angioini]. 

Provenzano, di fatto, non tradì mai e in Palazzo Pubblico, nella Sala del Consiglio, si conserva il dipinto di Amos Cassioli (1832-1891) che raffigura l’episodio sopra ricordato, dal titolo: Provenzan Salvani che chiede l’elemosina nel Campo. Opera che verrà premiata all’Esposizione di Vienna del 1873.

Lapide con i versi di Dante Alighieri

 

 

 

 

 

 

 

 

CHIESA DI SAN GIORGIO: da dove si radunò davvero l’esercito

Chiesa di San Giorgio, interno

Sarà di fronte alla chiesa di San Giorgio che iniziò davvero a radunarsi l’esercito per andare in battaglia: da lì sarebbero scesi lungo via dei Pispini per uscire da Porta San Viene. Non si trattava di un contingente sterminato, ma di un esercito che comunque si stava muovendo per la battaglia con uomini con armamenti, cavalli e Carroccio: siamo intorno alle 15.000 unità che stavano per scontrarsi con un esercito di ben 35.000 fiorentini (numericamente più del doppio).

La chiesa di San Giorgio così come la vediamo è dovuta alla ristrutturazione completa effettuata agli inizi del Settecento, voluta dal Cardinale Anton Felice Zondadari e terminata grazie alla sua eredità (morirà nel 1739 quando non era ancora compiuta) con l’intervento del fratello, l’allora arcivescovo Alessandro Zondadari. Del primitivo impianto (attestato dal 1081), oggi resta solamente il campanile romanico-gotico, caratterizzato da 38 finestre che si aprono lungo i suoi quattro lati e che secondo la tradizione, peraltro di nessun fondamento, rimandano al numero delle Compagnie Militari Senesi che presero parte alla battaglia di Montaperti. Ma le Compagnie Militari, però, all’epoca di Montaperti di fatto non erano ancora state istituite: saranno un’invenzione del Governo dei Nove (1287-1355), in periodo di governo guelfo.

Invece è vero che a seguito della vittoria ottenuta proprio in quel 1260, dato che San Giorgio, dopo la Madonna, era stato invocato come protettore dell’esercito ghibellino, il Comune di Siena nel 1262 stabilì di costruire una nuova chiesa in luogo della precedente. Il campanile, poi, si dice che venne eretto come voto per “grazia ricevuta”. Il libro di Biccherna (la magistratura finanziaria del Comune) del 1263, tuttavia, riguardo al campanile, fornisce un’altra suggestione. Si legge che in quell’anno il Comune di Siena verso una bella somma in denaro all’abate del vicino monastero di San Filippo e Giacomo (i cui resti oggi si trovano nell’area dell’ex Distretto Militare, in via di Santa Chiara, come nel tempo si chiamerà l’abbazia stessa, davanti alla Cinquecentesca fonte dei Pispini). Il motivo? A risarcimento delle spese sostenute per aver risistemato le campane del monastero che, in precedenza, proprio il Comune aveva fatto togliere affinchè fossero usate dall’esercito nello scontro. Potrebbero essere addirittura quelle poste sul Carroccio senese? Mah, forse per quello erano troppo pesanti. Ma ogni tradizione che si rispetti deve essere misteriosa e affascinante.

MADONNA DEL BORDONE: BASILICA DI SANTA MARIA DEI SERVI

Nella basilica San Clemente in Santa Maria dei Servi, viene conservato un dipinto anch’esso ammantato di leggenda: La Madonna del Bordone.

Madonna del Bordone, basilica dei Servi

Questa, si dice, essere opera del celebre pittore fiorentino Coppo di Marcovaldo “per riscattarsi” dopo essere stato catturato sul campo di battaglia di Montaperti (l’artista nacque a Firenze intorno al 1225 e morì a Siena nel 1276 circa). Considerato il maestro più importante di Firenze, egli viene arruolato come palvesario, cioè fante armato di picca e grande scudo, il palvese appunto, che deve proteggere il balestriere. Coppo di Marcovaldo, di fatto, risulta nell’elenco dei prigionieri incarcerati a Siena all’indomani della battaglia e, per pagarsi la libertà, avrebbe dipinto così la grande tavola raffigurante una Vergine in maestà, la Madonna del bordone, appunto, firmata e datata 1261, anno in cui fu consegnata alla chiesa del convento dei Servi. Tutto tornerebbe. Nel 1948, durante il restauro, peraltro, emersero due particolari che sembravano confermare questa tradizione: le aquile imperiali, emblema del vincitore Manfredi e di Siena imperiale, dipinte sul velo della Vergine, e la scritta: “A.D. MCCLXI Coppus de Fiorentia me pinxit”. Poi si è ipotizzato che i Servi di Maria, che si erano da poco insediati sul poggio di Montone e stavano costruendo la basilica, venivano dal convento di Firenze e possono essere stati il tramite per la liberazione di Coppo dalle carceri senesi dove languivano migliaia di fiorentini fatti prigionieri a Montaperti. La realtà, come sempre, è molto meno romantica: gli storici dell’arte, in base ai documenti, hanno stabilito che a Coppo di Marcovaldo venne fatto un regolare contratto e fu pagato per dipingere la splendida opera. Semplice committenza, dunque.

Bibliografia: Duccio Balestracci, “La battaglia di Montaperti”, Laterza 2017

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