6.1 Dei delitti e di Siena

Piazza del Campo

Per il primo capitolo di questo racconto ho pensato ad una visione insolita della nostra bella Siena, che troppo spesso viene ritenuta priva di stimoli; una visione che potesse raccontare qualcosa di inedito ed interessante al contempo. Ho così pensato ad un percorso sugli assassinii storici che hanno avuto come sfondo le strade di questa città; i protagonisti dei misfatti in questione sono le famiglie nobili, il Barbicone, il “Magnifico” Pandolfo Petrucci e molti altri! Come è noto, l’epoca d’oro dell’orgogliosa Repubblica di Siena è il XIII secolo, più comunemente denominato “Dugento”. È il periodo, solo per citare i fatti più noti, della vittoria dei ghibellini senesi contro la guelfa Firenze nella famigerata battaglia di Montaperti, o dell’affermazione della scuola pittorica senese, che vede nella decorazione della Cripta del Duomo (datata agli anni ’70 del secolo) una testimonianza straordinaria d’arte, con esiti davvero unici nei primi decenni del secolo seguente, quando Duccio di Buoninsegna, Simone Martini e i fratelli Lorenzetti domineranno la scena artistica della città.

È in questo contesto culturale che vediamo a affermarsi, dal 1287, il Governo dei Nove, un governo “giusto”, formato da nove membri della “mezzana gente”, con carica bimestrale, che passavano il periodo della loro carica segregati nel Palazzo del Comune per evitare ogni forma di corruzione. Quello fu il governo che commissionò alcune fra le più famose opere edili e artistiche di Siena, come la Piazza del Campo, lo stesso Palazzo Pubblico e gli affreschi ivi conservati – come il Buono e il cattivo governo e i suoi effetti in città e in campagna, ciclo realizzato da Ambrogio Lorenzetti, la Maestà fatta da Simone Martini nella Sala del Mappamondo e il ciclo mariano di Taddeo di Bartolo.

In questa fase storica il governo doveva essere esclusivamente di parte guelfa, dal momento che il partito ghibellino aveva già subito diverse sconfitte (in ultimo, nella battaglia di Colle Val d’Elsa del 1269). In quanto composto solo dalla classe media, dal governo erano esclusi i nobili, gli avvocati, i notai e i medici: insomma, chiunque avesse sufficiente cultura o soldo per poter fare delle leggi al fine di avvantaggiare se stesso a discapito della comunità. Questo è uno dei motivi per cui il sommo governo non riuscirà a resistere oltre il 1355, anno della discesa in Italia di Carlo IV di Lussemburgo, detentore del titolo di imperatore del Sacro Romano Impero.

Nel suo viaggio lungo lo stivale, il monarca invade diversi territori, da Nord – per esempio Milano – a Sud, attraversando la Toscana. Il passaggio della corte imperiale divenne l’occasione per le famiglie nobili di Siena, a cui era preclusa l’esperienza di governo, di approfittarne guadagnandosi posizioni di maggior rilievo nel tessuto cittadino. Non tutti i nobili però erano d’accordo nel voler destituire il governo dei Nove, ma Carlo li convinse facilmente, garantendogli protezione e privilegi. Accade allora che famiglie come i Tolomei, i Salimbeni, i Malavolti, i Saracini e i Piccolomini, trovarono l’accordo e destituirono il governo, fomentando la creazione di un comitato che riformasse gli statuti e prevedesse l’integrazione della classe nobiliare. Si viene allora a formare il Governo dei Dodici – dal numero dei membri in concistoro: sei nobili e sei mercanti –, ma, nonostante questo, la classe nobiliare non si sentiva ancora soddisfatta e pretendeva più spazio.

Tra le famiglie trainanti di questo malcontento, i Salimbeni guarda caso sono in testa, e questo sia perché la casata aveva giocato un ruolo chiave nella rivolta contro il Governo dei Nove, sia perché, con il Governo dei Nove fuori dai giochi, se ne avvantaggiava per il cospicuo patrimonio che vantava tra i possedimenti del contado. Nel 1368, a seguito di un colpo di Stato, vengono destituiti anche i “Dodici”, e ciò che accadde fu l’introduzione di una nuova forma di governo: quella dei “Difensori”. La suddetta amministrazione si viene a formare in un momento di grande malcontento cittadino, dovuto anche alla peste nera, terribile epidemia che aveva colpito a più riprese dal 1348 e che aveva portato alla scomparsa del 60-70 % della popolazione europea.

A complicare le cose ci si mise anche una prolungata siccità, che provocò un’impennata dei prezzi dei viveri di base.
In tale contesto, è dunque facile immaginare lo stato di disagio in cui versava la popolazione nella seconda metà del Trecento. E se, ad aggravare il tutto, si aggiungessimo lo sfruttamento a carico dei salariati, già esistente all’epoca? Sono questi i presupposti storici in cui matura una delle prime rivolte della classe operaia – antecedente di sette anni al più famoso tumulto dei Ciompi fiorentino, verificatosi anch’esso a causa della situazione precaria dei lavoratori della lana, che non aveva una rappresentanza politica.

La cronistoria dei fatti ci viene illustrata da Donato di Neri, che ci immerge nella realtà sommossa della Piazza del Campo del 1371, dove il protagonista fu un certo Francesco d’Agnolo, detto “il Barbicone”, delegato per la Compagnia dei lavoratori della lana – precorritrice della Contrada del Bruco moderna – che, in una pubblica manifestazione, chiese di implementare le paghe della classe da lui rappresentata. L’insurrezione arrivò a coinvolgere l’intera cittadinanza; nonostante i buoni intenti del Barbicone, la sua “alzata di testa” venne intesa come una sfida, e per questo venne catturato, imprigionato all’interno del Palazzo Pubblico e torturato. Le angherie ed i soprusi subiti lo portarono ad ammettere una fasulla congiura ai danni dei gerarchi dell’Arte della lana. Il clima della rivolta si faceva sempre più incandescente, tanto che il Capitano del Popolo, capendo che non si sarebbe potuta fermare nessuna sommossa con questo atteggiamento, chiese la liberazione del Barbicone, atto volto a dimostrare i buoni intenti della classe dirigente.

A discapito di quanto pronosticato però, la popolazione comprese così di avere un considerevole peso politico e, aizzata da anni di sottomissioni, con l’aiuto di alcune famiglie nobili e del Capitano del Popolo, riuscì a penetrare nel Palazzo Pubblico ed a evacuare i governanti; secondo la tradizione, per espellere i rappresentanti di governo non furono usate né scale né porte, bensì furono cacciati defenestrandoli e gettandoli nel marasma della folla inferocita.

Saranno i Salimbeni, famiglia di cui già detto sopra, a capitanare un esercito di oltre 2000 uomini per porre fine alle rivolte, trucidando i ribelli – comprese le famiglie, le donne e i bambini di Ovile, quartier generale della Compagnia dei lavoratori della lana – e i loro complici, compreso lo stesso Capitano del Popolo, che verrà decapitato sulla piazza pochi giorni dopo.

 

Piazza Quattro Cantoni

Uno dei grandi timori che attraversa la storia politica di Siena tra il tre e il Cinquecento è il cadere vittima del controllo fiorentino, motivo per cui la città del Palio va a cercare alleanze anche presso le corti più impensabili, come ad esempio nel Ducato di Milano.

Ebbene, nel 1389 Gian Galeazzo Visconti accetterà di proteggere Siena, ma, ahimè, dal 1399 questa alleanza si tramuterà in una sottomissione che porterà quest’ultima a scacciare i potenti eserciti del Biscione nel 1403. Nemmeno Milano dunque può aiutare Siena, poiché è solo un’altra potenza che cerca di metterle le grinfie addosso. L’instabilità in quel tempo è padrona: ogni famiglia con un nome cerca la supremazia sull’altra, e, ancora una volta, i Salimbeni sono in prima linea nel proporre la loro egemonia di governo.

Negli anni ottanta del Quattrocento al potere sale il Monte del Popolo che si impone contro il Monte dei Nove allontanandolo dalla città. Nonostante l’esilio, il “Monte dei Nove” riesce ad organizzare rivolte cercando alleanze nei sempre più numerosi cittadini scontenti; in questo clima di gran confusione, la figura che indubbiamente risalta sopra ogni altra è quella di Pandolfo Petrucci, colui che, da lì a pochi anni, diventerà il Magnifico. Di sicuro l’appellativo è più che meritato, dal momento che egli sarà in grado, in una Siena sconvolta dalle continue lotte tra classi e famiglie, di instaurare una criptosignoria e di destreggiarsi fra gli altri stati dello scacchiere politico europeo della fine del secolo, come ad esempio la Francia di Carlo VIII – e poi del suo successore Luigi XII – che fece la sua discesa in Italia nel 1494 con l’intento di riconquistare il trono di Napoli.

Nella Penisola di quel periodo possiamo vedere l’ascesa politica di Ludovico il Moro, il quale riuscì a prendere il comando del Ducato di Milano sottraendolo all’ ingenuo nipote Gian Galeazzo; Firenze il potere è ormai concentrato nelle mani della famiglia Medici, che con Lorenzo il Magnifico vivrà una delle congiunture artistiche e letterarie tra le più alte nella storia della città gigliata.

La sua egemonia su Firenze durerà fino al 1492, anno della sua morte; da quel momento, il potere passerà nelle mani del figlio Piero che, nel caso in cui vi stiate domandando se sarà un uomo di successo o meno, vi anticipo subito che l’appellativo che guadagnerà negli anni a venire sarà “lo sfortunato”, proprio perché non sarà in grado di mantenere il controllo su Firenze a seguito dell’invasione di Carlo VIII, lasciandola cadere nelle mani del frate domenicano Girolamo Savonarola.

A quell’epoca, il papa in carica era Alessandro VI Borgia: un nome, una garanzia. Di fatti, il cardinale Rodrigo, chiamato al soglio pontificio, rispettòl’anti convenzionalità della propria casata: ha un figlio – tale Cesare detto il Valentino – di cui il papa non fa segreto ma, anzi, lo pone a capo di un esercito che spadroneggia nei territori circostanti e sottomette con la forza chiunque non lo faccia di propria sponte.

Al conteggio delle grandi potenze in atto in questo momento storico, non può di certo mancare il Sacro Romano Impero, guidato prima da Massimiliano I e poi da Federico III d’Asburgo.

Nel qui delineato quadro mondiale, è chiaro che Siena non sembra avere nessuna possibilità di competere, eppure, proprio grazie al MagnificoPandolfo, Siena guadagna una posizione importante. Il Petrucci comprende che l’unica possibilità per Siena è di smettere di considerare la politica come affare di alleanze familiari, iniziando una campagna di un’unione fra tutte le famiglie rivali ed individualiste di Siena sotto un’unica bandiera; egli intuì che, solo mantenendosi coese, esse avrebbero potuto preservare l’indipendenza. Pandolfo discute con i rappresentanti del suo stesso partito, fra cui si ricordano i Bellanti, famiglia dapprima alleata del Magnifico, ma che presto si pone in antitesi a questo nuovo concetto di comunità. Egli ottiene un’alleanza anche con Luigi XII istituendo un capo delle milizie cittadine francesi, inoltre garantisce aiuto politico al Valentino nella conquista del territorio di Piombino, mentre segretamente aiuta e osteggia i territori conquistati dal Borgia a ribellarsi.

Il Valentino si accorge del doppio gioco del Petrucci e cerca di esiliarlo dalla città, bruciando la campagna circostante e minacciando di fare lo stesso con i centri abitati della Repubblica senese, ma lo scaltro Pandolfo, come già ricordato, è protetto dal re di Francia, e il Valentino, per quanto potente, non può nulla.

Il Magnifico sarà uno dei primi a Siena a intraprendere rapporti pacifici con Firenze che, insospettita dal potere e dall’astuzia di Pandolfo, invia Niccolò Machiavelli, consigliere della Repubblica, a Siena, per scoprire i piani del di Pandolfo.

L’autore de il Principe, una volta conosciuto il Magnifico, ne rimane affascinato, al punto da diventarne amico e parlare di lui come «un uomo di assai prudenza in uno stato tenuto da lui con grande riputazione, e senza drento o fuora capi nimici di molta importanza per averli morti o riconciliati» […] (egli) principe di Siena, reggeva lo stato suo più con quelli che li furono sospetti che con li altri». È certo comunque che non si può essere grandi ed arrivare a posizioni di supremazia senza farsi dei nemici, e il Petrucci ha rivali molto vicini: i già citati Bellanti e il suocero Niccolò Borghesi, i quali non riuscendo proprio a tollerare la politica innovativa del Magnifico, si alleeranno per eliminarlo definitivamente.

Faranno diversi tentativi in altrettante modalità, con soldati e con sicari, ma Pandolfo sarà sempre in grado di sventare l’attacco.
Nel 1499, stufo delle continue minacce alla propria persona, egli passa alla controffensiva e fa assassinare dapprima i componenti ostili della famiglia Bellanti, e poi, nel 1500, si occupa del suocero, al quale prepara un agguato proprio in Piazza della Postierla (altresì nota come Piazza Quattro Cantoni), proprio sotto la casa di Niccolò.

La tradizione vuole che al povero Borghesi vennero inflitte diverse coltellate che lo lasciarono esanime, ma con voce e volontà sufficiente per chiedere ai suoi di recidere completamente il braccio, e di inviarlo a Roma, presso le spoglie mortali di Santa Caterina, ancora oggi conservate presso la Basilica di Santa Maria Sopra Minerva. A memoria di questa illustre morte, in questa piazza è stata apposta una mattonella nella pavimentazione, recante una piccola croce nera in campo bianco, proprio lì dove la storia ci riporta sia avvenuto l’omicidio: riuscite a trovarla? Il Magnifico riuscirà a mantenere il controllo della criptosignoria fino al 1512, anno della sua morte.

 

Piazza Tolomei 

Proseguendo negli intrighi di questo tour di giallo vestito, percorrendo via dei Fusari e poi via Diacceto, si giunge in piazza Tolomei, che prende il nome dall’omonima famiglia guelfa che nel palazzo qui ubicato visse dal 1205. Le origini di questa ricca casata sono secondo alcuni da ricercare nella dinastia Tolemaica, che governò in Egitto dal 300 a.C. al 30 a.C. e di cuiCleopatra ne fu la più illustre rappresentante.

Uno dei membri di questa casata fu Giovanni, noto con il nome religioso di Bernardo, fondatore, della comunità benedettina olivetana. Sulla destra di Palazzo Tolomei è presente una delle lapidi cittadine che riportano alcuni passi della Divina Commedia, direttamente connessi con le turbolente vicende di personaggi senesi. Secondo la tradizione, anche la sventurata Pia de’ Tolomei apparteneva a questa famiglia, così come descritto dal sommo poeta nel V canto del Purgatorio: « […] Ricorditi di me che son la Pia, Siena mi fè, disfecemi Maremma»; così la nostra gentil donna si rivolge a Dante, chiedendogli di essere ricordata fra i vivi in modo che le preghiere dei terreni le possano far guadagnare il paradiso. È difficile trovare un riscontro storico con questo personaggio, ma la tradizione vuole che Pia fosse la sposa Nello dei Pannocchieschi, podestà di Volterra e di Lucca della seconda metà del XIII secolo. Sembra che il marito, trovando più convenienza nel riproporre un matrimonio con Margherita degli Aldobrandeschi, accusò ingiustamente la moglie di adulterio, quindi la confinò presso uno dei suoi possedimenti maremmani e la assassinò spingendola giù dal balcone dell’alta torre del castello. Secondo un’altra versione invece, Nello lasciò la sorte della Pia nelle mani del fato, costringendola in esilio – sempre presso un castello della Maremma- verso una zona dove il morbo della malaria imperversava. Lo scaltro Pannocchieschi riuscì in pieno nel suo intento, dal momento che la poverina contrasse la terribile malattia e morì prima di raggiungere la destinazione.

 

Via di Pantaneto 

Ma non solo nobili senesi trovano spazio nel mio racconto: tra le belle torri medievali e i maestosi palazzi rinascimentali, scendendo per via di Calzoleria e seguendo a destra per via di Banchi di Sotto, si può incontrare anche la misteriosa Torre degli Assassini.

Su questa sorta di confraternita, si è detto tanto, troppo, e come sempre accade, il troppo ha storpiato. Di ispirazione per il famoso videogioco Assassin’s Creed – che per altro ha delle stagioni ambientate proprio qui in Toscana –, gli Assassini dovevano essere qualcosa di simile ad una setta di sicari, precisi e letali come il veleno.

Quale miglior modo di terminare il nostro tour sugli omicidi storici di Siena se non proprio innanzi a questo enigmatico edificio?

Gli Assassini ebbero la loro origine in Persia e in Siria nell’XI; divennero presto noti per la loro macabra caratteristica di giustiziare in maniera efferata alla luce del sole, senza cercare di nascondere il proprio gesto e scegliendo anzi luoghi pubblici ed affollati. Noti anche per la loro devozione e sottomissione al capo – maestro e al contempo discendente di Dio –, la loro fama (e non solo) arrivò presto anche in Europa. Siamo abituati a pensare che il nome assassini derivi dalla loro professione, ma secondo diversi studi (la radice del nome Hasan) potrebbe voler significare al – Hashishyyun, cioè coloro che sono dediti all’hashish; altre interpretazioni vedono una derivazione da Asan che significa guardia, e secondo ancora altre versioni, seguaci di Hasan (Hasan-i Sabbah) il loro capo che conquistò la loro fortezza più importante sul monte Alamut. L’imponente fortezza è stata citata in diverse cronache del tempo, compreso il Milione di Marco Polo che, nel suo viaggio verso Oriente, ci parla di un uomo come del “vecchio / capo dellamontagna”. Voleva riferirsi l’autore del Milione proprio ad Alamut?

Ma cosa ha che fare tutto questo con Siena?
La torre in questione, ad angolo fra via di Pantaneto e via di Follonica, è denominata come proprietà degli assassini in diversi registri cittadini del XIII secolo: “Turris de Assassetta”. Pare dunque evidente che in quell’epoca essi fossero presenti in Toscana.
Ma non è tutto: esiste un atto della Repubblica di Siena, datato 1262, che attesta un accordo fra governo e setta per l’affitto di uno stabile proprio dove abbiamo la torre oggi. Il documento riporta: «De contractu facto occasione Societatis Templariorum et Assaxinorum observando». Pare lampante che, non solo la Repubblica si impegnasse a stipulare un contratto con questa setta, ma addirittura che Templari ed Assassini fossero ufficialmente in società e svolgessero talune attività di interesse per il nostro comune; quali fossero però queste attività, non è dato sapere. Le ipotesi variano dal commercio alla fornitura di armi, e dall’addestramento militare alla detenzione dei prigionieri: i misteri non sono stati ancora svelati del tutto.
Ecco la fine del primo capitolo di questa Siena inedita; come avete avuto modo di verificare, nella nostra bella città, c’è molto più di quel che sembra.

 

 

 

 

Testi a cura di Ambra Sargentoni (Ambra Tour Guide) Coordinamento editoriale: Elisa Boniello e
Laura Modafferi
Foto: Archivio Comune di Siena, Leonardo Castelli Grafica: Michela Bracciali

I Comuni di Terre di Siena