9.2 La battaglia di Montaperti: i luoghi del territorio

La battaglia di Montaperti: i luoghi del territorio

«Lo strazio e ‘l grande scempio

che fece l’Arbia colorata in rosso,

tal orazion fa far nel nostro tempio».

Dante Alighieri

Inf. X, 85-88

3 SETTEMBRE 1260: MONTAPERTI, LA VIGILIA

Il 3 settembre del 1260 l’esercito senese è già pronto alla partenza. A Siena, nella chiesa di San Cristoforo, in piazza Tolomei, è stato deliberato di rispondere alla minaccia fiorentina dato che ormai è certo che le loro manovre non servono a portare rifornimenti a Montalcino assediata ma ad attaccare la nostra città e, come vuole la leggenda, Salimbene de’ Salimbeni era arrivato con una carrettata di monete d’oro per finanziare l’impresa. Siamo alla vigilia della battaglia di Montaperti e l’esercito senese-ghibellino esce da Porta San Viene (attualmente compresa nel complesso fortificatorio di Porta Pispini), diretto al Poggio delle Ropole, in prossimità dell’accampamento fiorentino-guelfo che, nel frattempo, si era spostato sul Poggio delle Cortine, da dove poteva controllare i movimenti dei ghibellini. La leggenda nata dalle cronache racconta che la “mossa” dell’esercito di Siena fu fulminea: il bando di convocazione delle truppe venne promulgato nelle prime ore del 3 settembre e l’intera armata si radunò in un batter d’occhio. All’alba del 4 settembre, dopo aver atteso che facesse giorno presso al bivio che dalla strada principale portava alla località di Vignano, l’esercito svevo-senese avrebbe attraversato il torrente Bozzone andando poi ad accamparsi dalle parti di un poggio detto “Ronpoli” (Le Ropole, appunto).

Ciò appare veramente difficile da credersi. Ve lo immaginate tutto un esercito, tutto insieme che esce dalla città? La realtà è che ci furono alcuni giorni di preparativi e che la partenza dell’esercito e la sua uscita da Porta San Viene venne organizzata in scaglioni, per evitare un ingorgo enorme e dannoso. Inoltre anche le modalità di reclutamento del Comune hanno tempi specifici: vengono chiamati a combattere i cittadini e gli abitanti del contado abili all’uso delle armi tra i 16 e i 70 anni; fanti e cavalieri; il corpo scelto di balestrieri, fiore all’occhiello della milizia senese; i pavesari, incaricati di riparare gli arcieri sotto il pavese, che abbiamo detto essere un grande scudo di legno a forma rettangolare, al momento di scagliare i dardi e soprattutto di ricaricare le balestre. Non mancano maestri di pietra, legname e mannaia, necessari per innalzare le opere d’assedio e gli zappatori utili per scavare trincee e fossati mentre i suonatori sono chiamati per assicurare la circolazione delle comunicazioni marziali.

La leggenda continua e racconta che i senesi, una volta giunti in prossimità dell’accampamento, fecero sfilare il proprio esercito davanti ai nemici per ben tre volte, cambiando ogni volta le sopravvesti con i colori dei Terzi di Siena. L’obiettivo era far credere che le proprie forze fossero il triplo rispetto alla realtà numerica.

Ma se tutto è leggenda che cosa successe “davvero” in quella vigilia? Non vi resta che seguire lo stesso percorso dell’esercito senese.

PORTA SAN VIENE: si parte per la battaglia

Posta in fondo in via dei Pispini, ormai resa interna dalla costruzione delle mura, Porta San Viene in origine si apriva sulla strada che andava verso la spianata di Sant’Eugenia che prendeva il nome dalla vicina chiesa cardinale, attestata fin dal 1059. Da questa Porta uscirono le truppe senesi alla volta di Montaperti, e del resto i fili, leggendari o meno, che legano il territorio del Nicchio al mitico scontro, sono molti. Secondo la tradizione, infatti, la Contrada si fregia del titolo di Nobile anche per il valore dimostrato sul campo dagli uomini delle sue Compagnie Militari (che al tempo non esistevano ancora, come detto nel primo percorso, perché verranno istituite dal governo guelfo dei Nove diversi decenni dopo. Ma la tradizione e le cronache tramandano anche questo), senza contare che per le sue strade passarono, sia nel viaggio di andata che in quello ben più euforico di ritorno, i militi senesi.

Per quanto riguarda Porta San Viene già lo Statuto dei Viari del 1290 la definisce  brutta e vicina alla rovina. Così, quando gli fu eretta di fronte la monumentale Porta Pispini, venne dismessa e ridotta a semplice arco, assumendo la veste che la contraddistingue ancor oggi. Il nome “particolare” le viene dalla volgarizzazione operata dal popolo sull’intitolazione della vicina chiesa di Sant’Eugenia, trasformando così il latino “Sancti Eugenii” prima in “Sancti Geni” e poi in “Sancti Veni”.

E POI COSTRUIRONO PORTA PISPINI

Nel terzo decennio del XIV secolo anche il borgo dell’Abbadia Nuova, sorto lungo via dei Pispini e le vie adiacenti fino a Porta San Viene, fu definitivamente assorbito dentro la città, con la costruzione della cerchia muraria tuttora esistente. In particolare si edificò la monumentale Porta Pispini che fece retrocedere Porta San Viene a porta interna del rinnovato sistema fortificato. Come già appurato per i secoli precedenti, venne edificata prima la Porta (Pispini) del relativo muro di collegamento: nel 1326, infatti, fu affidato all’architetto Moccio di Rinaldo il compito di erigerla. L’opera poderosa fu terminata intorno al 1328. Anche Porta Pispini, tuttavia, nel corso del tempo si deteriora e in uno dei tanti interventi di restauro viene staccato ciò che resta del notevole affresco che vi era stato dipinto dal Sodoma tra il 1530 e il 1531, il quale raffigurava una Natività con una gloria di angeli. Attualmente il residuo dell’opera (cioè una parte della gloria degli angeli) è collocato sulla parete della facciata interna della basilica di San Francesco. Soltanto dopo si portò a compimento la cerchia di mura: il tratto che da Porta Romana giungeva alla “nuova porta San Viene” era stato progettato nel 1346 ma i tragici eventi legati alla peste del 1348 avevano bloccato i lavori e solo in epoca posteriore si riuscì ad attuare il completamento (vedi percorso relativo alla città fortificata).

ACQUA BORRA

Uscendo da Porta Pispini, dopo circa 10 km da Siena, ci troviamo presso le “miracolose” sorgenti termali dell’Acqua Borra.

Siamo in località Santa Maria a Dofana, presso Montaperti, luogo che prende il nome proprio dalla battaglia.

Le terme dell’Acqua Borra sono note fin dall’epoca romana. Claudiano, poeta latino che visse nel 400 d. C., narra di averle visitate: erano un lago di acqua calda con una parte che entrava in una piccola grotta, passando attraverso la quale le acque correvano rapidissime sotto volte oscure piene di fumo e, quando il vento disperdeva il fumo, si scopriva l’arco di entrata di una caverna e si vedevano i suoi corridoi interni. In epoche non lontane, un gruppo di contadini del luogo con molto lavoro tolsero tutto il fango e la terra che, con i secoli, aveva ostruito l’ingresso e così poterono entrare nella grotta narrata da Claudiano. Videro all’interno avanzi di muraglie e avanzi di stucchi che ne ornavano la volta, la quale si allargava penetrando sotto terra. Procedendo al suo interno, la grotta si divideva e da una parte vi era una porta chiusa con cancelli di ferro, vicino a questa una gran vasca a forma di conchiglia marina. Credettero che sotto la vasca vi fosse un tesoro e a colpi di piccone la ruppero: ecco che ne uscì con gran fragore una copiosa sorgente di acqua bollente che inondò il suolo e riempì la grotta di fumo, sicché agli esploratori non rimase che darsi a una repentina fuga. L’acqua continuò a sgorgare e a sviluppare vapori, riempiendo a poco a poco di fango tutto il luogo: nessuno così poté mai più penetrarvi. Ma le terme sono ancora visitabili.

Acqua Borra

MONTAPERTI: il cippo commemorativo dell’epico scontro

Vicino all’Acqua Borra troviamo Montaperti, oggi una piccola frazione del Comune di Castelnuovo Berardenga. Il borgo, di recente urbanizzazione, non è comunque da confondere col sito omonimo, più conosciuto e famoso, dove il 4 settembre 1260 si consumò quello “scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso”, per raccontare lo scontro con le parole dell’ Alighieri.

Il sito della battaglia, per quanto discusso, è ricordato da un cippo commemorativo a forma di piramide che sorge, circondato da cipressi, alto, sull’omonimo poggio e lo si può raggiungere partendo dal lago dell’Acqua Borra e seguendo una deviazione a sinistra che, dopo poche centinaia di metri, si diparte dall’asfalto. Sulla sommità del colle di Montaperti si dice esistesse un castello, databile all’XI secolo e di proprietà della famiglia Berardeghi, dove si sarebbero scontrati i due eserciti (sebbene, come vedremo, gli studi ipotizzano, ormai, un luogo diverso almeno per l’inizio dello scontro).

Bisogna sottolineare, inoltre, che legata al cippo a piramide (innalzato alla fine del XIX secolo) esiste ancora una tradizione popolare che ha intessuto un immaginario fatto di scheletri di morti in battaglia ancora dentro le loro armature, di voci, lamenti e suoni di armi in un crescendo neogotico che “prende forma di notte”.

Pievasciata – Credit LigaDue

Una di queste leggende narra che una donna di nome Usilia di mestiere vivandiera o treccola, mossa a compassione, salvò da morte sicura 36 fiorentini. In che modo? Grazie all’esistenza di un tunnel sotterraneo sotto il cippo piramidale che sbuca oltre i torrenti Malena e Biena. La donna, così si narra, avrebbe condotto i 36 soldati ghibellini attraverso il tunnel senza farli passare dal campo di battaglia; poi si sarebbe diretta a Siena fingendo che fossero schiavi al suo servizio, per liberarli prima dell’ingresso in città. Tutto ciò, però, contrasta con la tradizione che vuole la stessa Usilia portarli come prigionieri di guerra in città, a dorso del suo mulo e, per i quali, ottenne una cospicua somma in denaro dal Comune che la fecero vivere agiatamente.

PIEVASCIATA

Dal lago dell’Acqua Borra ci spostiamo per alcuni chilometri verso una diversa località divenuta comunque simbolo della battaglia: Pievasciata (o Pieve Asciata).

La particolare pieve, ormai in rovina ma degna di essere visitata, è caratterizzata sulla facciata da una torre medievale utilizzata per farne il prospetto della pieve dedicata a San Giovanni Battista.

Si capisce, tuttavia, che in origine la struttura religiosa doveva avere più di una navata. Si vedono ancora gli altari barocchi realizzati dal pievano Giovan Battista Lucchi nel XVIII secolo; i muri conservano le lapidi; brandelli di copertura presentano decorazioni ricercate. Nelle nicchie rimangono una Madonna con bambino a dimensione naturale e un angelo che guida per mano un bambino. Colpisce, soprattutto, il pulpito ligneo, decorato che campisce sulla parete di sinistra con una maestosità che impressiona per ampiezza e finezza nelle decorazioni.

Lo stesso ingresso ha negli stipiti e nella volta decorazioni policrome, dorate e fresche in foggia di connesso a imitazione dell’arte musiva tardoantica e alto-medievale (anche se queste sono chiaramente del Novecento) che rinviano a un uso della pieve dismesso non poi così tanto tempo fa.

I locali adiacenti della pievanìa (oggi difficilmente accessibili) che ospitavano la canonica, ricavati da quella che era in origine la seconda torre dell’insediamento, con le pareti esterne sulle quali sono stati murati a mo’ di decorazione frammenti di ceramica e altri “resti”, alludono a una dimensione di contiguità fra vita “ordinaria” quotidiana e vita spirituale. Nel corridoio che porta alle case di chi abitava nel circuito murario all’interno della pieve, un forno ci fa immaginare gli odori del pane sfornato, della carne che cuoce, della quotidianità di un luogo vissuto. Nel cortile c’è addirittura un piccolissimo abitacolo: una cuccia di un cane, ornato da una croce.

Il nome originale di questa che è una sede pievanile fra le più antiche della Berardenga è “Plebs Sciatae”, dove “sciata” potrebbe quasi certamente essere una derivazione di “ischiata”, tant’è che proprio un toponimo Ischia si trova poco lontano da lì. Non parliamo di “Ischia”, la famosa isola ma di un toponimo molto comune che deriva da “iscla” che è, a sua volta, una corruzione di “insula”. Che ci fa un’isola in mezzo al paesaggio del Chianti? Quel che dice: l’isola nel senso di terra che rimane all’asciutto durante le esondazioni di un vicino fiume (Isola d’Arbia, Ischia d’Ombrone, ad esempio). E qui siamo nel regno dell’Arbia e dei suoi corsi d’acqua.

Quindi Pievasciata è un insediamento molto antico. La prima testimonianza come pievania risale al 1086 e viene citata nel “lodo di Poggibonsi”, quell’accordo fra Siena e Firenze che, nel 1203, tracciò la frontiera fra i territori delle due città e che sarebbe rimasta pressoché immutata fino alle riforme territoriali e amministrative granducali di metà Settecento.

Qui intorno si combatterono senesi e fiorentini nella guerra del 1229, quando finì saccheggiata e bruciata da questi ultimi. E forse fu teatro di guerra non solo in quell’occasione.

La pieve, in età medievale, è giuspatronato di alcune importanti famiglie senesi: i Ciampoli, prima, e i Cerretani in seguito, e stende la sua giurisdizione sui territori che da Catignano vanno a Pontignano, Pontignanello, Cellole, su fino a Vagliagli, arrivando ad avere fino a sei chiese suffraganee.

Nel 2004, Carlo Bellugi, noto studioso di storia locale, postulò la possibilità che la battaglia di Montaperti avesse avuto come scenario più Pievasciata che la collinetta su cui sorge il cippo commemorativo contornato di cipressi.

È un fatto, argomentava Bellugi, che i documenti notarili dell’esercito fiorentino (quelli poi artificiosamente ricomposti in un pezzo unico denominato “Libro di Montaperti”, prontamente rimandato a Firenze dal governatore mediceo Barbolani di Montauto dopo l’annessione di Siena alla corona ducale) dicono chiaro e tondo che, la sera del 3 settembre, i guelfi sono accampati proprio presso Pievasciata. Come ci sarebbero arrivati la mattina del 4 a Montaperti? Con una perigliosa marcia notturna di svariati chilometri, con i cavalli, i carri, le salmerie, attraverso la campagna, con strade che sono solo sentieri impervi e attraversando almeno due fossi, per spostarsi da qui a Montaperti? È più probabile che lo scontro sia cominciato non lontano da Pievasciata e poi terminato a Montaperti nel cui castello si sarebbero rifugiati i fiorentini sconfitti. E se lo scontro fu altrove ciò dissacra il luogo tradizionale? Niente affatto. Che si siano battuti e ammazzati tre chilometri più in qua o tre chilometri più in là è uguale. E la memoria identitaria di quella giornata resta sintetizzata da quella piccola piramide sul cucuzzolo. Tutto il resto è questione serissima afferente alla ricerca storica e archeologica che, nel nostro caso, è secondaria perché ormai, in quel 3 settembre, i due eserciti erano pronti alla battaglia leggendaria di Montaperti.

Monselvoli: ERA QUI il carroccio dei fiorentini?

Monselvoli, a metà strada tra Pievasciata e Montaperti, è citato in molte cronache come centro dell’accampamento fiorentino (dove secondo alcuni tenevano il Carroccio, mentre secondo altri questo era “al sicuro” a Colle Val d’Elsa). Monselvoli fu un fortilizio senese con annessi una chiesa che esiste ancora e l’ospedale di San Giacomo. Conosciuto fin dal XII secolo fu sottoposto al monastero di Passignano e poi, con Bolla di Papa Onorio II, all’abate Ambrogio (del medesimo Ordine), preso sotto la protezione della Sede Apostolica nel 1128. Erano ancora attivi (sia la chiesa che l’ospedale) nelle decime di Arezzo alla fine XIII secolo.

Le loro vicende seguirono di pari passo quelle del Monastero di San Michele di Passignano in Siena (Piazza dell’Abbadia) fino a quando tutta Monselvoli passò in Commenda alla famiglia Petrucci.

Dunque ospedale e chiesa si ritrovarono al centro della battaglia di Montaperti. Le cronache, infatti, lo citano come luogo tra i più importanti in cui si svolsero gli eventi del 4 settembre. Una cronaca senese (Kalendarium ecclesiae metropolitanae Senesis), attribuita al XIII secolo, riporta, addirittura, che la battaglia fu fra la torre di Monselvoli e il castello di Montaperti. Un’indicazione che ricolloca più vicina a quest’ultima località il campo di battaglia. Paolo di Tommaso Montauri, nella sua cronaca di fine XIII e inizio XIV secolo, racconta come nell’esercito senese si danno le disposizioni di schieramento; si affida al conte di Arras l’incarico di mettere la sua cavalleria a riparo dietro il poggio di Monselvoli da cui dovrà attaccare di sorpresa e al momento opportuno: cosa che avverrà e risulterà determinante per mettere in rotta i fiorentini. Ed è proprio Montauri che racconta l’attacco “a sorpresa” dei senesi. Inserendoci la “cronaca in diretta” che, dall’alto della torre di palazzo Marescotti, a Siena, nel frattempo sta facendo il “tamburino” Cerreto Ceccolini. È lui a gridare al popolo di Siena che al tramonto gli ormai provati fiorentini si vedono spuntare da dietro il poggio di Monselvoli la cavalleria e la fanteria fresche e riposate del conte di Arras, il quale, per parte sua, si slancia contro il “capitano generale de’ Fiorentini, el quale avea nome Uberto Ghibellino” (nome del tutto di fantasia dello scrittore), sfondandogli l’armatura con un colpo di lancia. Per i guelfi è la rotta: intorno al carro fiorentino si accende una sanguinosa zuffa a conclusione della quale lo stendardo viene strappato dalle antenne e gettato a terra. L’esercito si sbanda e i soldati non pensano ad altro che a fuggire e a cercare di scampare a quella strage in cui “erano tanti omini e cavali morti che non si poteva andare da l’uno a l’altro, e andavasi a guazo per lo sangue cuperto el piè”.

Bibliografia: Duccio Balestracci, “La battaglia di Montaperti”, Laterza 2017

I Comuni di Terre di Siena