9.6 I LUOGHI DELLA GUERRA DI SIENA (1554-1555)

La guerra di Siena: la fine della Repubblica

Nell’aprile del 1555, dopo quasi quattordici mesi di assedio, Siena scende a patti con gli assedianti. La fame e le malattie hanno avuto la meglio. La città, con a fianco i francesi, patteggia la resa con spagnoli e fiorentini.

Inoltre, dato che Cosimo I de’ Medici aveva prestato tantissimi soldi all’Imperatore Carlo V proprio per questa guerra, consapevole che egli non era in grado di restituirli, pretese la sub-infeudazione di Siena.

E del resto i Medici sapevano bene che Siena non era una città che avevano sottomesso: Siena si era arresa all’Impero (non a Firenze) e quindi, di fatto, era confederata (cioè sotto la stessa corona) con Firenze. Per capirci, il ducato (presto granducato) di Toscana è istituzionalmente come la Spagna oggi: due Stati, una Corona.

Grazie alle concessioni fatte in base al trattato di resa, Siena riesce a mantenere gran parte dei suoi assetti: leggi, istituzioni e regole di mercato. Nonostante questo, le conseguenze della caduta della Repubblica e il governatorato mediceo si fanno sentire: una delle prime decisioni prese da Cosimo I fu quella di sancire la demolizione di tutte le strutture militari superstiti fuori Porta Camollia (quelle che in mesi e mesi di assedio non erano riusciti a sfondare) e della Castellaccia (avamposto fortificato costruito quasi completamente in legno e non in muratura) dove si trovano circa ottocento case, probabilmente danneggiate in modo irreparabile durante l’assedio.

Nel 1580 vengono abbattuti il Torrazzo di Mezzo e tutti gli edifici esistenti fino a Palazzo Diavoli, con la sola eccezione della chiesa di Sant’Antonio (oggi di San Bernardino al Prato), di Porta Camollia e dell’Antiporto.

Delle case, dei baluardi difensivi, delle chiese e dei monasteri costruiti nel corso dei secoli, nel giro di qualche anno non rimane più nulla ed è questa immagine desolante e spoglia dell’area esterna a Porta Camollia che caratterizza la celebre veduta di Siena disegnata da Francesco Vanni (1595-1604). All’epoca rimane solo l’Antiporto, da cui passa il tratto della Francigena che attraversa Siena, ormai ridotto a sentiero, e una porta Camollia diroccata e chiusa, inagibile a causa delle macerie che ancora la ingombrano. Per entrare in città è stata praticata nelle mura una modesta apertura laterale, sulla destra dell’accesso principale, significativamente denominata da Vanni “Porta Camullia”. Per il resto, oltre ad alcune attrezzature per esercitazioni militari montate nel “Prato di Camollia” (oggi Piazza Amendola), le altre strutture superstiti sono la chiesetta di Santa Croce (demolita nel 1603), la colonna celebrativa dell’incontro tra l’imperatore Federico III d’Austria e la futura sposa Eleonora di Portogallo (raffigurata da Pinturicchio in uno dei celebri affreschi dedicati a papa Pio II che si possono ammirare nelle Libreria Piccolomini in Cattedrale); un piccolo arco che probabilmente è ciò che rimane di una porta che si apriva sul lato orientale della Castellaccia, verso le fonti di Pescaia, versante opposto. La storia e il volto di Siena sono ormai mutate con i tempi.

Prato di Camollia, oggi Piazza Amendola

LA CHIESA DI SANT’ANTONIO: la superstite

La chiesa di Sant’Antonio, edificata qualche metro oltre l’Antiporto, è stata voluta dal mercante napoletano Alessandro Miraballi poco dopo la metà del XV secolo. Questi, su intercessione della famiglia Piccolomini, ricevette la cittadinanza senese con l’obbligo di spendere 5.000 fiorini in opere di muratura. Decise così di costruire appena al di fuori del “Portone Dipinto” (l’Antiporto, appunto) una chiesetta con annesso ospedale dedicata anch’essa al Santo Sepolcro, ben visibile nella copertina di Biccherna del 1498. In questo stesso anno, però, Iacopo Piccolomini, in rappresentanza dei frati di Sant’Antonio, convinse il Concistoro a cedere il tempietto all’Ordine, in modo da ricostruire al suo posto una chiesa dedicata al Santo. Da alcuni anni, proprio lì vicino, i frati avevano ottenuto dall’Arcivescovo un ospedaletto, fondato nel 1450 da Aldobrandino Tolomei dove sorgeva (nel Medioevo) il monastero cistercense di Santa Maria Novella, luogo di assistenza dei malati affetti dal cosiddetto “fuoco di Sant’Antonio”. Chiesa e ospedale furono incendiati e lesionati durante la Guerra; ciò che restò venne acquistato dalla famiglia Accarigi che, nel 1685, la concesse alla compagnia di San Bernardino, la quale restaurò la chiesa intitolandola al Santo. La veste odierna dell’edificio sacro è frutto di un ulteriore restauro avvenuto nel 1926.

BICCHERNA 46 con “L’ARRIVO DI UN’AMBASCERIA”

Il Museo delle Biccherne si trova presso l’Archivio di Stato di Siena a Palazzo Piccolomini (in via Banchi di Sotto al civico 46, accanto a Piazza del Campo). La collezione delle Tavolette di Biccherna è costituita dalle copertine dei registri di amministrazione della più importante e antica magistratura finanziaria del comune di Siena: la Biccherna appunto. Le copertine venivano dipinte anche da pittori famosi e offrono spaccati della Siena di un tempo. Come in questo caso. La Biccherna di cui stiamo parlando risale al 1498 ed è intitolata genericamente “L’arrivo di un’ambasceria”. Sebbene non si sappia “quale ambasciata”, visto che è raffigurata in un libro di amministrazione del Comune, sarà stata di certo importante. La maggior parte dello spazio della tavola è occupato dall’arrivo di un gruppo di cavalieri armati presso Porta Camollia e l’atteggiamento di stupore degli uomini in atto di varcare le mura ha fatto ipotizzare si trattasse dei membri di un’ambasceria straniera. Tuttavia a noi interessa ciò che il dipinto raffigura “fisicamente”: si scorge di scorcio il Torrazzo di Mezzo; si vedono da destra due costruzioni, una di queste è proprio l’oratorio di Sant’Antonio, con l’ospedaletto annesso, detto oggi San Bernardino al Prato. Si vedono, poi, l’oratorio del Santo Sepolcro (non più esistente) e, in lontananza, le mura, il Duomo e una torre (forse quella del Mangia?). Queste testimonianze iconografiche sono fondamentali per comprendere le trasformazioni degli edifici di ieri e per scorgere cos’è rimasto del “mondo antico”.

IL SANTA MARIA DELA SCALA: i bambini abbandonati diventano “le bocche inutili”

Furono tanti gli episodi drammatici avvenuti durante il lungo assedio della città. Tra questi, uno dei più tragici riguarda le cosiddette “cacciate delle bocche inutili” (cioè di tutti coloro da sfamare ma che non erano “utili” alla difesa della città). Per affrontarlo dobbiamo ritornare in piazza del Duomo, all’ospedale di Santa Maria della Scala. Il 5 ottobre 1554, all’inizio dell’assedio, il blocco nemico non è ancora totale e alcune strade sono percorribili. A settembre, infatti, dopo un braccio di ferro estenuante con la magistratura cittadina e Pietro Strozzi, fiorentino fuoruscito e comandante dell’esercito, circa un migliaio di persone deve abbandonare Siena, in questo caso con esito positivo. Due giorni dopo, si fa un secondo tentativo per allontanare altre 200 persone, ma le cose non vanno nel verso giusto. Gli imperiali si sono accorti di quanto è successo e, la mattina dopo l’espulsione, i poveracci sono sotto la porta da cui sono usciti a implorare di poter rientrare. Inutilmente. Il commissario di campo mediceo, Lione Ricasoli, scrive al duca di Firenze che “li lascian lì, e sebbene se ne faccia ammazzare, alla fine si sbandano in qua e là e passan via perché dentro non son lasciati tornare in alcun modo”. Da parte sua, ordina ai capitani di usare, nei confronti degli sfollati, ogni “stranezza” perché serva da esempio e da dissuasione per il futuro. Non basta.

Nell’occhio del ciclone ci sono i “gittatelli” (i bambini abbandonati) dell’ospedale di Santa Maria della Scala: consumano viveri e non servono a nulla. “Buttateli fuori”, impone lo Strozzi, perché i depositi dell’ospedale devono essere aperti a chi combatte, non a chi è solo di peso.

È il primo atto di un dramma che avrà i fanciulli come protagonisti principali di questa tremenda pagina di storia senese che si riproporrà ancora il 31 ottobre, quando altri 45 bambini fra i 10 e i 15 anni, verranno fatti uscire nella speranza che possano raggiungere un possedimento dell’ospedale a una quarantina di chilometri da Siena, ma saranno intercettati, malmenati e spogliati. Infatti torneranno indietro vestiti delle sole camiciole.

Santa Maria della Scala, Sala del Pellegrinaio

Il pellegrinaio del Santa Maria della Scala racconta la vita dei gittatelli

Il Santa Maria della Scala merita la vostra attenzione: entrate e visitate le opere meravigliose che contiene, passeggiate all’interno di questo edificio immenso, museo di se stesso e quando arrivate nel “Pellegrinaio” ammirate il ciclo di affreschi che raffigurano la storia e la vita dell’ospedale. Per capire come vivevano i bambini abbandonati accolti dall’ente caritativo cercate quello di Domenico di Bartolo dal titolo: Accoglienza, educazione e matrimonio di una figlia dello spedale (1441-1442). Gli ultimi due affreschi della sala, Cinquecenteschi realizzati da Pietro di Giovanni d’Ambrogio, invece, raffigurano infatti il momento del pagamento del salario alle balie, corrisposto attraverso una certa quantità di grano proveniente dalle “grance” (le fattorie dell’ospedale) o in denaro.

LE ULTIME ORE DELLA LIBERTÀ SENESE IMPRESSE IN UN DIPINTO

Sempre dentro il Santa Maria della Scala, nella Sala San Pio, c’è un quadro particolare che raffigura il dramma che vive la città in questo momento tragico della sua storia: si tratta dell’opera intitolata Le ultime ore della libertà senese (1882) di Pietro Aldi (1852-1888). La città è allo stremo delle forze e il 27 marzo 1555 la Signoria di Siena, d’accordo con il comandante francese Biagio di Monluc, decide di avviare la trattativa di capitolazione inviando Alessandro Gugliemi come ambasciatore. Cosimo de’ Medici, che lo riceve, a sua volta dovrà fare da intermediario con l’imperatore Carlo V affinché Siena possa arrendersi nel modo meno disastroso possibile.

Pietro Aldi, “Le ultime ore della libertà senese” 1882

IL PRIMO “GOVERNO” DOPO L’ASSEDIO: LE MIRE DI COSIMO E LO STEMMA MEDICEO SU PALAZZO PUBBLICO

In Piazza del Campo, al centro di Palazzo Pubblico campeggia lo stemma mediceo.

Il 23 maggio 1555, a un mese dalla resa, dato che le cariche erano scadute mentre Siena trattava la capitolazione, nasce il “primo governo”. Arriva a Siena Agnolo Niccolini, giurista e uomo di grande accortezza e tatto che svolge le “funzioni” di governatore. Si presenta alla Signoria senese con rispetto sia pure facendosi latore della disposizione ducale che invitava i governanti senesi a darsi una nuova Balia, da scegliersi, col benestare di Cosimo dei Medici e del legato imperiale, fra i cittadini senesi meno sospetti di simpatie filofrancesi. La magistratura degli Otto di Guerra fu immediatamente abolita; i territori di Lucignano, Casole, Monteriggioni e Massa Marittima vennero scorporati dal distretto senese e aggregati a quello fiorentino; le armi vennero confiscate (in realtà chi non le poteva più tenere preferì distruggerle piuttosto che subire l’umiliazione di cederle). Il disegno di Cosimo, del resto, non era quello di garantire la serenità dei vinti. Le sue mire non passarono inosservate a Siena: quel che Medici voleva fare era chiaro e di questo proposito il governatorato di Niccolini mostrò quello che da Siena venne visto come un sinistro biglietto da visita. Nel 1560, infatti, fa apporre sulla facciata di Palazzo Pubblico lo stemma con le sei palle medicee: un vero e proprio sfregio e una brutale riaffermazione di chi aveva vinto. A Siena si decise, a quel punto, di provare a ricucire i rapporti con l’Imperatore anche a costo di rinunciare a quei privilegi che la resa del 21 aprile aveva garantito. La manovra ebbe un esito sostanzialmente positivo e la città fu affidata a Filippo, il figlio dell’Imperatore stesso, in qualità di Vicario del Sacro Romano, con il riconoscimento del diritto di infeudarla a proprio piacimento. Per Cosimo era uno smacco, ma il signore di Firenze era troppo astuto per farsene accorgere. Fece buon viso a cattivo gioco e, anziché smarcarsi, si dette da fare ancor più di prima contro la resistenza degli esuli di Montalcino, non dubitando che in un modo o in un altro, avrebbe potuto portare all’incasso la sua alleanza alle armi imperiali. E così fu perché il de’Medici vantava un credito di due milioni di scudi (una cifra da capogiro) nei confronti dell’Imperatore. La sua tenacia fu premiata: il 3 luglio 1557 Cosimo otteneva la sub-infeudazione di Siena. Con il ‘600 e con l’arrivo di governatori di casa Medici, tuttavia, la città vide rispettate le condizioni con le quali si era arresa e alcuni esponenti di questa famiglia, molto legati alla città, la governarono in maniera saggia. Qualcuno di loro l’amò persino profondamente.

Stemma dei Medici sul Palazzo Pubblico di Siena

LA COLLEGIATA DI PROVENZANO: erigere un santuario mariano per “ingraziarsi” il popolo senese

In cima a via Lucherini si apre la visione più suggestiva del secondo santuario mariano più importante di Siena: l’Insigne Collegiata di Santa Maria in Provenzano.

Prima che la chiesa di Santa Maria della Visitazione, questa la sua vera titolazione, venisse costruita, il rione di Provenzano era uno dei quartieri più malfamati di Siena. Abitato da poveri, malati, ladri, mendicanti e meretrici, nel vicino convento dei Frati Minori di San Francesco vi è acquartierato anche un contingente di soldati di Carlo V; eppure siamo nelle strade dove, fino a pochi secoli prima, aveva abitato la potente famiglia Salvani che dette i natali al celebre condottiero Provenzano, eroe della battaglia di Montaperti (1260). I fatti che portano in pochi decenni alla venerazione di un’immagine mariana e alla costruzione dell’edifico sacro iniziano alla metà del ‘500. Una sera, secondo la tradizione, un soldato, uscendo da un postribolo, spara a una delle molte immagini della Madonna che si trovano murate sulle facciate delle case e ne riporta una nemetica punizione nel momento in cui l’archibugio gli esplode in faccia. Un’altra tradizione racconta che il soldato, dopo aver sparato, non morì ma si inginocchiò, pentito, diventando devoto alla Vergine. La narrazione dei fatti è parte di un mito fondativo del culto. Non dimentichiamo che l’episodio viene tramandato fra il 1551 e il 1552, durante l’ultimo periodo della presenza a Siena della guarnigione inviata da Carlo V, che sarebbe stata cacciata dalla città a furor di popolo proprio nel 1552 e che fu l’episodio scatenante della Guerra di Siena. Si narra che il sacrilego è un soldato spagnolo (legando così indissolubilmente la storia della Collegiata a quella di Siena) e il fatto che l’archibugio sia realmente scoppiato è, quanto meno, da mettere in dubbio perché i lavori di restauro effettuati al busto della Madonna di Provenzano (nel 2000) hanno evidenziato che un foro d’ingresso nella statua c’è e dunque, dato che l’arma ha funzionato, è difficile che sia esplosa. Tuttavia, proprio questa constatazione ha determinato la veridicità dell’episodio che fece diventare l’immagine mariana immediatamente un’icona di culto e, quando cominciano a diffondersi le voci di miracoli da essa compiuti, quando decine e decine di persone iniziano ad arrivare da ogni luogo per invocare il suo aiuto e la sua benedizione, si rende necessaria la costruzione in suo onore di un santuario. Papa Clemente VIII, già nel 1594, aveva concesso l’autorizzazione a continuare la devozione dell’icona e questo apriva la strada alla creazione di una chiesa per ospitarvi all’interno l’immagine e i fedeli che volessero andare a renderle omaggio. Il 20 dicembre del 1594 la Congregazione Cardinalizia dei Sacri Riti, riunitasi a Roma, esaminando i registri nei quali vengono annotate le grazie decretò la libertà di innalzare “una chiesa o una cappella” che dovrà essere (si precisa) decorosa. I Medici, che comprendono come questa edificazione possa diventare il tramite per farsi accettare dal popolo senese dopo la caduta della Repubblica, all’inizio dell’agosto del 1565 indicono un “concorso” tra architetti e ingegneri di fama. Tra i progetti proposti, il granduca sceglie il modello elaborato dal monaco senese Damiano Schifardini, matematico e precettore dei figli del granduca (coincidenza?).

Collegiata di Provenzano

I lavori di costruzione di questa maestosa chiesa, anche se occorreranno molti decenni affinché venga completata, giungono al tetto già nel 1602, e a questo punto si pone il problema di quale forma dare alla cupola. Schifardini nel frattempo era morto e il granduca, il 4 giugno, viene a Siena con il fratello Giovanni de’ Medici, esperto di architettura (era stato architetto della cappella medicea di San Lorenzo a Firenze: se si mettono a confronto i disegni le due cupole sono identiche). Giovanni suggerisce le modalità di innalzamento della cupola che sarà costruita a calotta semplice, e gli espedienti tecnici per eseguirla, oltre a proporre l’idea di aprire una piazza davanti alla facciata per darle maggiore risalto. I consigli vennero accolti e il 22 ottobre 1604 anche la parte strutturale della cupola (l’unica esistente a Siena) risulta terminata. I Medici davvero non badarono a spese per renderla meravigliosa: già nel 1614 venne istituito un Rettorato per completare i lavori mentre i pellegrini ormai provenivano da ogni parte d’Italia; nel 1634 era già insignita del titolo di Collegiata e dal 2 luglio 1644, giorno di Santa Maria della Visitazione, in suo onore si correrà un Palio alla tonda, in Piazza del Campo: il primo vero Palio, antenato di quello arrivato a noi.

FORTEZZA MEDICEA: ancora un simbolo della vittoria

Per rendere inoffensiva la città conquistata, oltre al decastellamento, i fiorentini, determinati a dissuadere ogni possibile opposizione politica futura, costruiscono il poderoso maschio che è il simbolo materiale, e ben percepibile, della deliberata volontà di controllo di Siena e dei suoi abitanti. Giocando così su ingannevoli motivazioni di pubblica e condivisa sicurezza, Cosimo de’Medici, fra il 1561 e il 1563, fa costruire l’imponente Fortezza in deroga ai patti di resa che avevano espressamente escluso l’erezione di un edificio del genere.

È l’8 marzo 1561 quando dal lato verso San Domenico viene posta la prima pietra di quella che oggi è nota come la Fortezza Medicea. L’inizio dei lavori si tiene alla presenza delle autorità, dopo aver celebrato una messa solenne, come si legge in una lettera inviata dal Governatore, Angelo Niccolini, al granduca Cosimo I. Il progetto fu affidato a Baldassarre Lanci, mentre il sito ritenuto più idoneo per l’opera fu individuato da maestro Taddeo da Monterchi, lettore dello Studio senese.

La nuova fortificazione, eretta per assicurare “quiete e sicurezza ai Senesi”, come si legge in un’iscrizione in latino al lato del cancello di ingresso, viene terminata nel 1567. A forma rettangolare e completamente in laterizio, essa poggia su una base a scarpa sormontata da un grosso cordone anch’esso in mattoni. Ai quattro angoli sono addossati enormi bastioni arrotondati (nominati di San Filippo, La Madonna, di San Domenico e di San Francesco) mentre sui fianchi si aprono le cosiddette “piazze basse” per tirare i pezzi di artiglieria al coperto. L’accesso alla struttura viene garantito da un ponte levatoio che scavalcava un fossato pieno di acqua, il quale si sviluppava lungo l’attuale viale della Vecchia e lungo il lato che arrivava fino allo sperone detto di San Domenico, per essere rivolto verso la basilica.

Fortezza Medicea di Siena

FUORI PORTA TUFI: LA LAPIDE CHE RICORDA COME TUTTO INIZIÒ

Siamo partiti dalla fine per raccontare la guerra e l’assedio di Siena: e l’inizio? Il conflitto iniziò con la cacciata delle truppe spagnole del 1552. Nel gioco di alleanze tra Impero e Francia in atto nel XVI secolo, Siena aderì inizialmente alla parte imperiale ricevendo anche la visita dello stesso Carlo V nel 1536. Accolto in maniera trionfale perché la città sente “i venti di guerra” e cerca l’alleanza dell’Impero, Carlo V si reca al Duomo, a Palazzo Pubblico e assiste al gioco delle pugna nel Campo. Ma la storia andrà diversamente: Carlo V non sarà il difensore della città bensì vorrà controllarla e sottometterla tanto che l’adesione al partito imperiale ben presto si trasformerà in una vera e propria occupazione esercitata dalla guarnigione di soldati (soprattutto spagnoli) alle dirette dipendenze di don Diego Hurtado de Mendoza, acquartierati nella basilica di San Francesco (vicino all’attuale Collegiata di Provenzano). I Senesi ne prenderanno piena coscienza quando inizierà la costruzione della cosiddetta “Cittadella spagnola”, una fortificazione che reputano pericolosa. Cambiano allora le alleanze. Una parte dei senesi dà vita a un movimento che si avvicina alla Francia e la cittadella (vicino a dove sorge la Fortezza Medicea oggi) viene distrutta quando, nel luglio del 1552 la città insorge, dopo aver aperto Porta Tufi ai fuoriusciti anti-imperiali. Sul muro di Porta Tufi, la Contrada della Tartuca ha fatto apporre una lapide per ricordare che il 27 luglio 1552 i senesi, guidati da Enea Piccolomini e Giovanni Maria Benedetti, irruppero nella città con i fuoriusciti a “sostegno della rivolta in atto vittoriosamente conclusasi con la cacciata delle milizie ispano medicee opprimenti la patria libertà”. Ma questo, di fatto, fu l’inizio della fine della Repubblica Senese perché le truppe imperiali, alleate con i Medici, tornarono e dettero vita alla vendetta con il terribile e lungo assedio che abbiamo raccontato dall’inizio.

Porta Tufi

LA DISTRUZIONE DELLA CITTADELLA SPAGNOLA

Sempre al Museo delle Biccherne dell’Archivio di Stato di Siena, la tavoletta numero 58, opera di Giorgio di Giovanni, si intitola proprio “La demolizione cittadella spagnola”. La scena mostra, oltre ai metodi di costruzione dell’edificio militare che gli spagnoli stavano approntando, il momento in cui la folla esce dalla città liberata e, armata di pale e picconi, apre due brecce nella muraglia, mentre nel cielo cosparso di nere nuvole cariche di pioggia si vede Gesù Bambino che si rifugia spaventato tra le braccia della Vergine Madre. Forse anche l’autore presagiva che questo “golpe” non sarebbe stato privo di conseguenze.

Un’ulteriore testimonianza di dove sorgeva la Cittadella e del motivo del suo abbattimento la troviamo in via Rinaldo Franci, dove campeggia una lapide inaugurata nel 1952 in occasione dei 400 anni dalla cacciata da Siena degli spagnoli, avvenuta il 4 agosto 1552. A quell’evento venne dedicato anche il Palio del luglio del 1952, vinto dalla Contrada della Lupa e dipinto da Aleardo Paolucci (se volete vedere il Drappellone approfittatene per visitare il bel museo della Contrada della Lupa, in via Vallerozzi, 53)

I Comuni di Terre di Siena