9.9 A SIENA LE TRACCE DELLE GUERRE MONDIALI
A Siena le tracce delle due Guerre Mondiali prendono forma in monumenti dedicati alla memoria di chi vi ha partecipato, epigrafi o ricostruzioni dovute ai bombardamenti, pochi per fortuna, come la basilica dell’Osservanza o la stazione ferroviaria. Può sembrare strano, ma i decenni tra le due Guerre vengono ricordati attraverso le Contrade e il Palio.
LA GUERRA È FINITA: DOPO CINQUE ANNI NASCERÀ LA “SBANDIERATA DELLA VITTORIA”
Nel luglio del 1919, dopo 5 anni di assenza e con grande emozione di tutti i senesi, torna il tufo in Piazza del Campo. Si corre di nuovo il Palio. Il Drappellone, dedicato anch’esso alla fine dell’evento bellico, viene dipinto da Aldo Piantini ed è vinto dal Leocorno (conservato nel Museo della Contrada, posto in piazzetta Virgilio Grassi) con Ottorino Luschi, detto Cispa, sulla cavalla Giacca. Per la prima volta, al termine del Corteo Storico, un tamburino e un alfiere di tutte le Contrade, comprese quelle escluse dalla Carriera, eseguono una sbandierata dedicata ai soldati reduci dalla guerra davanti a Palazzo Pubblico (erano ospitati in un palco accanto a quello delle comparse). Il gesto commosse così tanto che venne ripetuto ad agosto e poi l’anno successivo e di Palio in Palio è arrivato fino a noi: era nata la Sbandierata della Vittoria.
Per la cronaca questo sarà anche il primo Palio al quale prenderanno parte i carabinieri a cavallo come rievocazione della battaglia di Pastrengo del 30 aprile 1848, ma anche per ricordare i dragoni granducali che così sgombravano la pista prima della Carriera.
Sbandierata della vittoria
L’ASILO MONUMENTO DEDICATO AI CADUTI SENESI DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE
Il 28 settembre 1924, alla presenza di re Vittorio Emanuele III, accompagnato dalle figlie Iolanda, Mafalda e Giovanna, viene inaugurato l’Asilo Monumento in viale Rinaldo Franci, accanto ai giardini de “La Lizza”.
Dopo la Prima Guerra Mondiale, in molte città italiane si decise di dedicare opere scultoree alla memoria dei loro caduti. A Siena, già nell’aprile del 1919, il sindaco Pannocchieschi D’Elci aveva pensato a qualcosa di diverso e che potesse essere utile alle famiglie. L’iniziativa per commemorare i caduti della guerra del 1915-18 divenne così degna di nota: si stabilì di costruire un edificio per l’infanzia, “un Istituto destinato ad offrire ai bimbi del popolo, luce, spazio, gaiezza, nutrimento adeguati al corpo ed allo spirito”. Il progetto venne affidato all’architetto Vittorio Mariani (1859-1946) che, per la realizzazione, si ispirò all’architettura senese del Quattrocento. Nasce così “l’Asilo Monumento” e la posa della prima pietra viene effettuata dal principe ereditario Umberto di Savoia il 2 luglio 1922.
LE STANZE DELLA MEMORIA
Se da La Lizza ci spostiamo verso via Malavolti al civico 9 troviamo un luogo particolare, un luogo “del ricordo” che non a caso si chiama “Le Stanze della Memoria”: un museo di storia e memoria del Novecento. L’edificio è un palazzo a due piani come tanti, però con una lapide commemorativa che ricorda le drammatiche vicende vissute da coloro che, durante la repubblica sociale, furono condotti in questo edificio, interrogati e torturati. Delle grandi vetrate colorate raccontano, con il linguaggio dell’arte di fascismo e antifascismo, quando in quei locali si trovava la famigerata Casermetta, sede della Polizia politica fascista. Un portoncino e una scala stretta accompagnano i visitatori al percorso museale composto da dodici stanze disposte su due piani che ripercorrono le vicende senesi del periodo che va dalla fine dell’Ottocento fino al secondo Dopoguerra. Ogni stanza, dedicata a un argomento, utilizza linguaggi scenografici e informativi: pannelli fotografici, manifesti del tempo, visione di documenti filmici d’archivio, strumenti informatici che con voce fuori campo, fonti orali e musiche del periodo, vogliono creare un intreccio tra storia locale, nazionale e sovranazionale.
MONUMENTO AI CADUTI DEI DIPENDENTI DELLE POSTE E TELEGRAFI
Da via Malavolti ci spostiamo nella vicina Piazza Matteotti e sull’edifico delle Poste Italiane troviamo il bel monumento dedicato ai dipendenti dell’Istituto caduti durante la Prima Guerra Mondiale. Nella cornice in travertino che contorna l’immagine di un angelo in bronzo (la libertà?) si ricordano i nomi e il grado che ebbero nell’esercito. Campeggia il motto “Non tange illos tormentum mortis” (Non fa soffrire loro il tormento della morte) per ricordare il loro sacrificio per la Patria. Realizzò l’opera lo scultore Ettore Brogi (1888-1932) di Serre di Rapolano: artista molto apprezzato a Siena.
Piazza Matteotti – credit Elliott Brown
BOLLETTINO DELLA VITTORIA NELL’INGRESSO DI PALAZZO PUBBLICO
All’ingresso di Palazzo Comunale troviamo la targa in bronzo apposta in ogni città italiana. E’ il “Bollettino della Vittoria” del Comando Supremo dell’Esercito Italiano firmato da Diaz. Fusa dalla fonderia Nelli, riutilizzando in parte il bronzo dei cannoni abbandonati dagli austriaci, riproduce il testo del bollettino voluto appunto dal generale Armando Diaz. Accanto una targa gemella, sempre della stessa fonderia, murata il 15 marzo 1860 ricorda il momento in cui i toscani approvarono l’annessione al Regno d’Italia, confermando la fine del Granducato di Toscana. Targhe analoghe sono apposte nei vari municipi della Regione.
IN PALAZZO PUBBLICO IL MONUMENTO AI DIPENDENTI CADUTI
All’interno del Palazzo comunale, nella “Sala delle Lupe” (a volte è aperta ai turisti nonostante ci siano gli “uffici comunali”) c’è una grande targa in pietra serena, fatta apporre nel 1931 e realizzata sempre dallo scultore Ettore Brogi, che ricorda i dipendenti comunali caduti durante la Prima Guerra Mondiale. Rappresenta il “Compianto” con alcune donne oranti e piangenti sulla bara del caduto. La targa è intonata allo stile della sala, con l’altorilievo che è circoscritto da quattro fasce, di cui quelle laterali si prolungano e portano scolpiti gli stemmi della Balzana e del leone simbolo del popolo senese. La Sala delle Lupe ha questo nome per le due lupe marmoree trecentesche che un tempo servivano come gocciolatoi esterni alla facciata del palazzo.
Bollettino della Vittoria, Siena Palazzo Pubblico
LE CONQUISTE DELL’IMPERO NELL’ICONOGRAFIA DEI DRAPPELLONI
Le tracce più significative delle vicende che vanno dalla Prima guerra Mondiale alla fine della Seconda passano attraverso la storia del Palio e dei drappelloni. La vittoria e la costruzione dell’impero furono celebrate dalle Contrade con cortei e sbandierate davanti alla Casa del Fascio e davanti al palazzo del governo, e i drappelloni di quell’anno lasciano la testimonianza di un avvenimento vissuto dal mondo paliesco. Quello del luglio, autografato dal re Vittorio Emanuele III, presente alla corsa, offre un’allegoria rutilante di simboli: fra due colonne rostrate compare in fantasmatica evanescenza l’immagine della statua di Augusto ai Fori Imperiali, mentre in primo piano spiccano una panoplia di gagliardetti neri, fasci littori, un’insegna imperiale con l’aquila e i medaglioni di Vittorio Emanuele III e di Mussolini. Sotto, in un riquadro intermedio, fra due poderose scuri littorie, la carta geografica delle terre africane in mano italiana, sormontata da un cartiglio che riporta il dannunziano “Teneo te Africa”, titolo dell’ultima opera del vate uscita proprio nel 1936. Il Palio dell’Impero del 2 luglio 1936 venne vinto dalla Giraffa, nel cui museo c’è anche altro da visitare: basti pensare al Palio dipinto da Guttuso.
Non meno carico di allegorie quello dell’agosto, vinto dal Drago (il museo di questa Contrada porta numerosi drappelloni vinti in momenti contrastanti di quei decenni di storia: si trova in Piazza Matteotti) che reca la firma di Pietro Badoglio, tutto giocato sulla verticalità di due colonne littorie intrecciate dal nastro che si ricompone nella corona di Savoia, le quali nascono da uno sfumato paesaggio di vestigia della Roma imperiale. In primo piano, fra gagliardetti, insegne legionarie, gladi, vanghe e picconi (a sottolineare la legittimante motivazione civilizzatrice della conquista coloniale), l’obelisco di Axum, rinvenuto dai soldati italiani nel 1935 e trasportato a Roma nel 1937. Un’iconografia altrettanto evocativa si ritroverà nel drappellone del 2 luglio 1939 (vinto dalla Contrada dell’Aquila: la sede e il museo li potete visitare in via del Casato di Sotto al numero 82), che celebra l’occupazione italiana del Regno di Albania: ancora una volta, sulla carta geografica del paese balcanico sventolano le bandiere italiana e albanese, accompagnate da simboli legionari classici, mani tese nel saluto fascista, gagliardetti neri con la «M» di Mussolini.
IL PALIO IN AFRICA DEL 16 AGOSTO
In via Santa Caterina, oltre all’oratorio, troviamo il museo della Nobile Contrada dell’Oca. Qui viene conservato un “drappellone” di foggia particolare perché è stato “cucito” per un Palio corso in Africa. Era il 17 aprile 1938, era il giorno di Pasqua e un gruppo di giovani legionari senesi che si trovava nel villaggio di Ambaciara in Etiopia, per mitigare la nostalgia di casa, decise di organizzare un Palio straordinario. Vengono rispettate tutte le fasi: estrazione delle contrade, assegnazione, corsa, e tutti i regolamenti vigenti a Siena, solo che, non avendo cavalli, la carriera venne fatta con i muli. Dopo una carriera davvero particolare l’Oca si aggiudicò il primo Palio d’Africa. L’avvincente racconto di questo Palio venne narrata ne “Il Telegrafo” da Dino Corsi, nicchiaiolo, giornalista e corrispondente di guerra. Il Comandante Seniore Giuseppe Mariotti era proprio della Contrada dell’Oca e così fu lui a riportare a Siena il drappellone, dipinto alla meglio su una bandiera, al termine del suo periodo di comando nel febbraio 1939. Nel 2015 è stato donato alla Nobile Contrada dell’Oca che lo conserva, appunto, nel proprio museo.
TORNA LA GUERRA: BOMBE SU SIENA
Bisogna uscire dalle mura della città per andare a vedere la basilica dell’Osservanza. Ricostruita dopo la guerra a causa di una serie di bombardamenti, all’interno è ricca di tesori d’arte. Il duro attacco aereo che la distrusse avviene la domenica del 23 gennaio 1944. L’allarme scatta intorno a mezzogiorno. Gli aerei alleati colpisco la zona che dalla stazione ferroviaria (è il vero obiettivo), attraverso l’Osservanza, si protende fino a Certosa e Sant’Eugenia. I bombardieri scaricarono in tre ondate successive centinaia di bombe. Nessun ordigno cadde all’interno nel perimetro delle mura cittadine e solo grosse schegge furono poi ritrovate negli orti e nei giardini della città. A differenza di ciò che comunemente si crede, gli Alleati non riconobbero mai Siena come città ospedaliera, cioè con lo status di aperta. Il motivo? Le truppe tedesche e fasciste non procedettero alla sua completa smilitarizzazione, condizione indispensabile prevista dalle norme internazionali affinché un centro urbano potesse essere riconosciuto bilateralmente come “aperto”. Perché allora le distruzioni e i lutti a Siena furono inferiori a quelli di altri centri della Toscana? Per una serie di ragioni, in parte casuali: il fatto ad esempio che la stazione, obiettivo principale degli aerei, insieme al comando tedesco in via Ricasoli, si trovava quasi in aperta campagna. Ben altre sarebbero state le conseguenze se fosse stata dove era in origine alla Barriera di San Lorenzo, subito a ridosso delle mura cittadine.
I BOMBARDAMENTI DI UNA CITTÀ NON OSPEDALIERA
Dopo gli eventi del 23 gennaio, seguirono quello del 29 gennaio, quando le bombe colpirono la stazione, e poi gli attacchi avvenuti l’8 e il 16 febbraio, e ancora l’11 e il 22 aprile che provocarono circa una trentina di morti e feriti. Numerosi gli spezzoni delle bombe che caddero dentro le mura cittadine: in Piazza Duomo, in via Diacceto, nel cortile della Pinacoteca, a Porta Ovile e a Porta Pispini. Nel bombardamento dell’11 aprile, in un ulteriore tentativo di distruggere la linea ferroviaria, furono centrati alcuni edifici a nord della città, tra cui uno appena dentro Porta Camollia.
LA STAZIONE FERROVIARIA
La stazione ferroviaria che alla fine venne colpita e danneggiata a più riprese nei primi mesi del 1944 si trova distante dal centro cittadino al quale oggi è collegata con una serie di scale mobili. La sua distanza dalle mura di Siena fu ciò che limitò i danni durante la guerra. Era stata costruita e inaugurata nel 1935 aprendo così un nuovo capitolo di fondamentale importanza per la storia delle vie di comunicazione del territorio. Già ai primi del Novecento la “vecchia” stazione viene ritenuta insufficiente per soddisfare le esigenze di rapidi collegamenti. Nel 1914 le Ferrovie dello Stato approvano il progetto di spostamento nella valle sottostante, già percorsa dalla linea per Chiusi, ormai bocciate le opzioni alternative di Porta Ovile e Porta Romana. Prima di iniziare i lavori, il sito necessitava di interventi di bonifica e consolidamento del terreno, che vengono bloccati dallo scoppio della guerra. Alla fine del conflitto mancano i finanziamenti e il cantiere rimane a lungo inoperoso: lo stesso progetto iniziale viene rimesso in discussione, ritenuto ormai inadeguato alle mutate esigenze della città e nel 1931 l’architetto Angiolo Mazzoni, che in quel periodo aveva progettato altre stazioni, ottiene l’incarico per completare l’opera. La nuova stazione viene aperta al pubblico il 18 ottobre; l’inaugurazione avviene però il 25 novembre alla presenza del ministro Antonio Stefano Benni, delle autorità locali e dei vertici delle Ferrovie dello Stato. La città è imbandierata e vengono coniate perfino monete celebrative dell’evento. Nell’intento di chi l’ha progettata, essa ha l’obiettivo di richiamare, in forme nuove e moderne, le caratteristiche di Palazzo Pubblico. Purtroppo l’elegante complesso ferroviario originale venne snaturato con la ricostruzione post bellica.
LE DEPORTAZIONI EBRAICHE
Una lapide posta il 5 dicembre 1948, accanto all’ingresso della Sinagoga, ricorda i nomi dei deportati senesi che trovarono la morte nel lager nazista di Auschwitz. Il 6 novembre 1943 oltre venti ebrei, tra cui bambini e anziani, vengono arrestati nelle proprie abitazioni e dopo aver trascorso la notte in una caserma in Piazza d’Armi (fuori Porta Camollia, dove si trova l’ex caserma Lamarmora, oggi Caserma Roberto Bandini, un tempo “Prato di Camollia) sono pronti per essere trasferiti. Alcuni vengono rilasciati, forse perché considerati ebrei “misti”, gli altri vengono portati a Firenze mentre nei verbali si registra solo che sono stati “trasferiti in altra località”. A Firenze trovano ad attenderli un treno che, dopo un interrogatorio a Bologna, li porta ad Auschwitz-Birkenau. Quindici di loro muoiono subito nelle camere a gas del lager nazista. Il più giovane ha appena 13 anni e si chiama Ferruccio Valech (nei primi giorni di novembre erano iniziati gli arresti a Bologna, Firenze, Montecatini Terme e Siena). La vicenda senese è narrata da Alba Valech nel libro “A.24029”. Per ricordare i nostri concittadini di religione ebraica sono state poste anche a Siena, di fronte alle loro abitazioni, le “pietre d’inciampo” a futura memoria.
LA SINAGOGA DI SIENA
La Sinagoga di Siena si trova in vicolo delle Scotte a pochi passi da Piazza del Campo, nel cuore dell’antico ghetto ebraico, istituito nel 1571 dal granduca di Toscana Cosimo I de Medici. Progettata dall’architetto fiorentino Giuseppe del Rosso (1760-1831) come ampliamento e rinnovamento di un più antico spazio sinagogale documentato fin dal XVI secolo, la sinagoga fu inaugurata nel 1786. Rappresenta uno dei pochi esempi di architettura tra Rococò e Neoclassicismo in Toscana. La semplice facciata esterna e, in contrapposizione, l’elegante ambiente interno riccamente decorato, sono esemplificativi delle sinagoghe realizzate nell’età dei ghetti, prima dell’Emancipazione degli ebrei italiani, avvenuta con l’Unità d’Italia nel 1861. Utilizzata ancora oggi dalla comunità ebraica locale, ospita argenti e paramenti rituale di grande valore. Particolarmente significativa la sedia di Elia finemente intarsiata con versetti in ebraico donata dal rabbino Nissim nel 1860. La Sinagoga e il museo annesso sono visitabili tutti i giorni tranne il sabato e in occasione delle festività ebraiche.
“NON SPARATE OLTRE IL XVIII SECOLO”
Il generale francese Jean Goislard de Monsabert entrò in Siena con le truppe alleate da Porta San Marco alle 14 del 3 luglio 1944 tra il giubilo dei senesi che sventolano le bandiere delle Contrade e, in contemporanea, gli ultimi reparti tedeschi escono dalla parte opposta, cioè da Porta Camollia. Paolo Cesarini, giornalista e letterato, scrive di essersene reso conto affacciandosi alla finestra della sua abitazione su Piazza del Campo. Da lì, in un silenzio quasi irreale, vede una camionetta tedesca allontanarsi e, poco dopo, una jeep alleata arrivare. Paolo Goretti, un ragazzo che abita a pochi passi da Piazza Salimbeni, sente che qualcosa è cambiato perché nel passare per strada una fila di soldati non fa quasi rumore, a differenza degli scarponi chiodati della Wehrmacht. Quella di Siena fu una liberazione “quasi” senza cannonate, crepitio di mitragliatrici, fucilate di cecchini. “Quasi” perché il 3 luglio a Vicobello dei partigiani caddero in uno scontro; meno distruttiva certo, ma comunque con macerie, morti e lutti. Le motivazioni furono varie tra cui la decisione tedesca di non difendere la città, di difficile gestione e inadatta a costituire il perno di una delle linee di contrasto che avevano predisposto nelle aree in cui la topografia lo consentiva: dall’Amiata al torrente Farma, dal fiume Merse ai Monti del Chianti. Oppure perché il comandante delle truppe francesi era un estimatore del gotico senese. Si racconta, infatti, che nella notte tra il 1° e il 2 luglio, proprio il generale della divisione transalpina De Monsabert, nell’impartire gli ordini al generale Beçancon, comandante dell’artiglieria, gli abbia mostrato una cartina di Siena acquistata a Roma, evidenziando la preziosità e lo splendore della Cattedrale, della piazza del Campo, della casa natale di Santa Caterina, della loggia voluta da Pio II, e più in generale di tutte le case antiche, dei suggestivi vicoli medievali, dei musei e delle chiese. Fatto ciò, si dice per tradizione, che il generale abbia deciso che nessuno di quei monumenti doveva essere distrutto: “Tirate dove volete, ma vi proibisco di tirare al di là del XVIII secolo”, frase riportata sulla lapide posta fuori Porta San Marco dove venne collocata per il cinquantenario. E ogni 3 luglio Sunto, il campanone sulla Torre del Mangia, suona, appunto alle 14, per ricordare l’episodio.
IL PALIO DELLA PACE
Finita la guerra nel 1945 si fa il Palio. Anzi si fa anche un Palio straordinario: quello della pace. Il palio d’agosto si svolgerà regolarmente e, proprio il 15, arriva la notizia che anche il Giappone ha deposto le armi. Tanto basta perché sia richiesto a furor di popolo un Palio straordinario. Il sindaco Carlo Ciampolini è contrario a questo ulteriore sforzo in particolare economico, ma la città non sente ragioni. Nel pomeriggio del Palio ordinario del 16, mentre in Piazza si sta svolgendo il Corteo Storico, dentro il palazzo va in scena uno psicodramma fra priori e giunta comunale, ben compendiato dal modo in cui questo episodio è stato riassunto nel narrato popolare: “o il Palio o me”, avrebbe detto il sindaco. E la risposta fu inequivocabile: il Palio! Si farà il 19 agosto: in fretta e furia si estraggono le Contrade e si riescono a disputare anche un paio di prove. Il pittore del drappellone, Dino Rofi, in così poco tempo, può fornire solo un drappo con un fregio e gli stemmi delle partecipanti, riservandosi di completare l’opera successivamente. Il 19 piove e la Carriera viene rinviata alla sera del 20 quando le Contrade disputano una delle più turbolente corse del dopoguerra. Il Palio che per i “patti” stipulati fra le Contrade doveva essere vinto dal Bruco vede invece trionfare il Drago con il cavallo Folco e Gioacchino Calabrò (giovanissimo studente di Giurisprudenza: sarà poi un celeberrimo giurista) detto Rubacuori (il soprannome dice tutto). Ma il bello deve venire: i brucaioli, delusi, cercano di aggredire Rubacuori e, non riuscendoci, si impadroniscono del drappellone e lo fanno a pezzi. Fra le sanzioni che si abbatteranno sulla Contrada ci sarà anche l’ingiunzione a farlo ridipingere a proprie spese. Rofi, peraltro, vendicherà i dragaioli con una piccola beffa nei confronti del Bruco: nello stemma della contrada vincitrice, sulla punta della lingua di fiamma che esce dalla bocca del drago, si può intravedere la figura di un minuscolo bruco, destinato a bruciare per l’eternità per scontare la prepotenza dei suoi contradaioli. Il celebre Silvio Gigli intitola giustamente il suo articolo sulla Nazione del Popolo: “Ultimo guizzo di guerra: il Palio della Pace”. Non si sarebbe potuto definire meglio quello che era appena accaduto. Il Drappellone lo trovate esposto nel museo della Contrada del Drago in piazza Matteotti.