4.4 La storia sui muri: Terzo di San Martino

(Seconda parte)

Il bando contro le meretrici in via di Salicotto

La nostra passeggiata parte dal Campo, da dove imbocchiamo via di Salicotto. Proprio in cima alla strada, sulla destra, si scorge un piccolo stemma mediceo con sotto una lapide, murati su un fianco del Palazzo Pubblico. Essa contiene la disposizione emanata il 30 novembre 1641 dall’allora governatore di Siena, il principe Mattias de’ Medici, fratello minore del Granduca di Toscana Ferdinando II, con la quale bandiva le prostitute dall’intera via di Salicotto («ha proibito che nella strada maestra di Salicotto nõ possĩo abitare meretrici pena di cattura e arbitrio»), tanto da trovarne una dello stesso tenore all’altro capo della strada.

Così come la zona di Castelvecchio, anche questa di Salicotto dovette essere frequentata da numerose meretrici sin dall’età medievale, sicuramente attirate dalla conformazione del rione, con il suo fitto dedalo di stradine, corti e vicoli, dove peraltro dimoravano i ceti sociali più poveri, che lo rendeva appetibile per l’esercizio dell’attività, nonostante la prossimità al Palazzo del Comune. Nel 1306, mentre il primo nucleo di quest’ultimo era ancora in fase di costruzione, fu immediatamente vietato a qualunque «femina di malafama» di abitare entro un raggio di cinquanta braccia (poco meno di trenta metri), ma la distanza venne subito aumentata a duecento braccia (quasi centoventi metri), dalla «casa de li signori Nove overo altre case del Comune di Siena», pena una multa pari a 100 soldi di denari per i trasgressori. La norma poi confluì nel Costituto volgarizzato del 1309-10, insieme a quella per cui nessuna «meretrice, ruffiana overo femena di malafama» potesse dimorare «ne la via di Malborghetto», situata sull’altro lato del costruendo Palazzo, ma verosimilmente senza centrare gli scopi prefissi. Qualche tempo dopo, nell’agosto del 1338, il Consiglio Generale deliberò che il Comune dovesse pagare l’affitto di alcune case dove le meretrici potevano esercitare il mestiere, dislocate in zone diverse della città, una ogni Terzo, ossia in Vallepiatta (Terzo di Città), presso la porta di Campansi (Terzo di Camollia) e nella Val di Montone (Terzo di San Martino). Pare evidente l’intenzione di creare dei “postriboli pubblici”, verosimilmente per accaparrarsi un fetta dei cospicui proventi derivanti dall’attività, più che per ragioni morali, igieniche o sanitarie. Sin dalle più antiche disposizioni in materia, infatti, le autorità mostrarono una certa tolleranza nei suoi confronti, considerata alla stregua di un vero e proprio “servizio pubblico” assai utile nell’educazione della gioventù maschile. Ciò emerse, ad esempio, nel 1415, quando lo stesso Consiglio decretò di trovare un’altra collocazione a quello nella Val di Montone perché «e’ giovani non vi vanno per vergogna di essere veduti», trovandosi «dietro il palazo» del Comune. Una preoccupazione non di poco conto, essendo l’unico sopravvissuto, visto che gli altri due avevano avuto vita assai più breve. Probabilmente il postribolo fu spostato nella limitrofa via di Salicotto e nelle stradine ad essa adiacenti, come il vicolo del Vannello e di Coda, le quali, insieme a Castelvecchio e al vicolo degli Orbachi, compaiono fra i luoghi dove le prostitute dovevano avere «ricetto» in un elenco stilato dagli Esecutori di Gabella nel maggio del 1620. Questi, in particolare, «doppo lunga e matura consideratione in riguardo di più particolari» avevano individuato «per publico postribolo […] la Contrada di Salicotto, principiando dall’ostaria del Montone e Porta dell’Ebrei tanto dalle parti dinanzi quanto dalle parti di dietro […] fino alle Scalelle di Salicotto e dalle dette Scalelle vicino a San Giusto […] a mano sinistra passando per la piazza di San Giusto in Realto fino alla casa che fa cantonata e risponde nel chiasso di Coda […], con li due chiassi che vi sono chiamati l’uno del Vannello et l’altro di Coda, e quelle poche di casupole che fussero verso la Porta della Giustitia». 

La presenza delle meretrici, tuttavia, provocava per sua stessa natura disordine e caos, oltre ad offendere la morale comune, e perciò era invisa a buona parte dei residenti nelle vicinanze delle loro abitazioni. Questi, a partire dal primo Seicento, investirono del problema le Contrade, ormai riconosciute come organismi radicati nel territorio di competenza e in possesso di personalità giuridica, veste che consentiva loro di potersi rivolgere alla pubblica autorità per tutelare la moralità del quartiere. La prima a muoversi in tal senso fu l’Onda nel 1613, dopo che era caduta nel vuoto l’istanza avanzata più volte dagli uomini e dal parroco di San Salvatore fra il 1610 e il 1612, la quale supplicò il governo cittadino affinché provvedesse all’allontanamento delle numerose prostitute che abitavano nel rione, chiamato significativamente “Malborghetto” sin dal XIII secolo. Negli anni a seguire, poi, identiche richieste furono formulate dal Bruco, dalla Giraffa e verosimilmente dalla Tartuca. La più attiva, però, fu senz’altro la Torre, che nel 1629 convinse la governatrice di Siena Caterina de’ Medici Gonzaga a bandire le prostitute da via di Salicotto perlomeno «per spatio di braccia quaranta» (poco meno di venticinque metri) dalla chiesa di Contrada, dedicata ai Santi Giacomo e Cristoforo. Ad appoggiarla in questa battaglia si aggiunse il “Conservatorio delle Sperse”, o “Bianche”, un ospizio fondato tre anni prima da don Onofrio de Vecchi per fornire ospitalità a fanciulle orfane, senza casa, famiglia e costrette ad elemosinare per strada, che giusto quell’anno aveva trovato sistemazione in fondo al vicolo del Vannello, dunque a pochi passi dall’oratorio torraiolo. Il rescritto governativo, tuttavia, sortì effetti davvero deludenti, e ancora nel maggio del 1636 la Contrada si rivolse a Leopoldo de’ Medici, fratello minore di Mattias, appena nominato governatore pro-tempore in sua vece, visto che sin dal 1631 aveva dovuto lasciare Siena per combattere nella “Guerra dei Trenta Anni” a fianco dell’esercito asburgico. Neanche stavolta, però, le proteste dei torraioli conseguirono effetti apprezzabili, nonostante fossero sostenute dal capitano di Giustizia Mario Useppi. La mera conferma del rescritto precedente, infatti, ebbe come unico risultato il permanere dello status quo. «La contrada et huomini della Torre» tornarono alla carica nel maggio del 1641, supplicando di nuovo Mattias, rientrato ad aprile in città, di allontanare le meretrici dall’intera via di Salicotto, la strada principale del loro rione, per i continui disordini che provocavano. Con il bando del 30 novembre vennero accontentati, come ammoniscono le due iscrizioni ai capi della strada, ma si trattò di una vittoria di Pirro, poiché le donne si spostarono negli adiacenti vicoli del Vannello, di Coda e in alcune «casette» fino a San Giusto, continuando indisturbate a svolgere il proprio mestiere. La situazione, insomma, era rimasta pressoché inalterata, e quanto risultasse ormai insostenibile, lo dimostra la richiesta addirittura di poter chiudere il vicolo di Coda dal lato di Salicotto, avanzata il 14 settembre 1706 ancora una volta dalla Contrada. La Biccherna bocciò la proposta e, di fronte alle insistenze dei torraioli, incaricò gli Esecutori di Gabella, gli ufficiali comunali che, tra i loro compiti, avevano anche quello di riscuotere le tasse dall’esercizio della prostituzione, di redigere una relazione al governo, rimessa l’8 agosto 1713. Qui si ricordava che sin dai tempi antichi le prostitute avevano abitato in tutta la Contrada di Salicotto, finché con il bando del 1641 erano state relegate nei vicoli di Coda, del Vannello e in altre stradine adiacenti; si aggiungeva, poi, che dopo il 1680, grazie alle reiterate petizioni degli abitanti del rione, il governo aveva accordato che venissero ulteriormente confinate nel solo vicolo di Coda. Si osservava, inoltre, quanto fosse «necessario anche per buon governo» la presenza di «simili donne», e quanto rischiasse di essere controproducente segregarle in un vicolo chiuso come si chiedeva: «per prendere aria» sarebbero andate a passeggiare in Salicotto, con scandalo ancora maggiore dell’attuale. Senza contare che non si poteva sbarrare una strada comunque utile al pubblico transito. La relazione, insomma, non lasciava margini di manovra alla Contrada della Torre, e così le meretrici continuarono ad esercitare nelle stradine del rione. Ancora nel Novecento, una delle più frequentate “case di tolleranza” senesi si trovava in via del Rialto, dove è rimasta fino alla chiusura forzata prevista dalla Legge Merlin n. 75 del 20 febbraio 1958.  

L’antica pescheria di Siena

Proseguendo qualche metro per via di Salicotto, sempre sulla destra, poco sotto gli uffici comunali posti al n. 6, è affissa una targa marmorea dove si legge: «Pesce di fiume. A. D. MDLXXXVIIII». Si tratta, con tutta evidenza, di un’insegna risalente al 1589 che segnalava la presenza, lungo la via allora detta di Malcucinato, dei banchi della “pescheria”, il mercato dove si vendeva il pesce, tra cui anche quello di fiume. La lontananza dal mare, sommata alla carenza di laghi e corsi d’acqua di una certa rilevanza in prossimità di Siena, sin dal Medioevo costituì un serio ostacolo all’approvvigionamento di pesce sul mercato, e soprattutto al suo arrivo fresco in città, al quale si cercò di ovviare con stringenti normative, trattandosi di un bene di largo consumo e molto gradito sulle tavole. Difficoltà sicuramente accresciute dal divieto di pesca, imposto dal Constituto del 1262, nel lago che allora sorgeva sull’area oggi significativamente denominata Pian del Lago, a pochi chilometri dalla città, che prevedeva addirittura la distruzione degli strumenti usati (reti, canne) a carico dei trasgressori. Anche per questo nel Costituto volgarizzato del 1309-10 si deliberava che venissero realizzati «laghi per avere pesci» in più territori della Repubblica. Tra questi il progetto più ambizioso prevedeva lo sfruttamento delle acque del fiume Bruna, che venne ripreso intorno al 1450 e concluso nel 1480. Appena un anno dopo, però, la diga franò e il lago artificiale non fu più ripristinato. 

Ciononostante, nel mercato medievale senese i rivenditori di pesce, che giungeva in città dai fiumi vicini (Arbia, Merse e Ombrone) e dai laghi Trasimeno e di Chiusi, non mancarono mai. Sin dall’inizio del XIV secolo ottennero una postazione fissa nella parte del Campo di fronte alla bisca pubblica, che era sistemata dentro una grande tenda ai piedi del Palazzo della Mercanzia, visto che lì nei pressi doveva esistere un’antica cisterna d’acqua, necessaria per mantenere fresco il prodotto. Anzi, come attesta un documento del 1296, la gabella più redditizia ricavata dal Comune sui beni venduti nel mercato, pari a 435 lire annue, proveniva proprio dalla «pescheria». Nel 1343 l’inaugurazione della Fonte Gaia portò nel Campo una maggiore quantità d’acqua, ciò che indusse ad avvicinare ad essa i banchi del pesce. Tale ubicazione rimase inalterata anche dopo che la fontana fu impreziosita dai marmi scolpiti da Jacopo della Quercia, come confermato dal cronista quattrocentesco Tommaso Fecini. All’epoca il pesce si conservava nel «corso dell’aqua» che traboccava «a pie la fonte del Canpo» e defluiva verso il “gavinone”, la grande “bocca” per la raccolta dell’acqua piovana che ancora oggi esiste all’interno della piazza, davanti al Palazzo Comunale. Come accennato, sulla freschezza del prodotto le norme non transigevano e sin dalla metà del Trecento fu imposto di venderlo esclusivamente prima della fine della giornata («ante sonum campane Comunis Senarum que pulsatur de sero»), in modo da evitare che la mattina seguente venisse rimesso in commercio. Quel momento doveva essere atteso con trepidazione da coloro che non potevano permettersi il suo acquisto, perché qualora fosse avanzato un po’ di pesce, l’ufficiale di Gabella a ciò preposto lo faceva gettare per il Campo e chiunque poteva accaparrarselo liberamente e senza spese. Non sappiamo con esattezza quando i pescivendoli furono allontanati dalla piazza, ma proprio questa targa prova che ciò era già avvenuto alla fine del Cinquecento. Nei due secoli seguenti viene ricordato più volte che i loro banchi in pietra si trovavano in Malcucinato (l’odierna via di Salicotto) «dalla parte delle Stinche», proprio dove è murata la lapide, ossia a fianco del grande edificio costruito dietro la Torre del Mangia fra il 1327 e il 1331 per alloggiare le prigioni comunali. Per questo da quel momento la strada si chiamò pure via di Pescheria, come riferisce anche Bernardino Fantastici nel Campione di tutte le Fabbriche, Strade, Piazze, Fonti, Acquedotti, Canali e Cloache pubbliche appartenenti alla Comunità di Siena compilato nel 1789. Qui si legge: «la Strada denominata di Malcucinato […], oggi comunemente detta la Strada di Pescheria dalla vendita che vi si fa del pesce, la quale si estende fino al primo Vicolo che s’incontra dalla parte destra, detto il Trapasso, che scende nel Foro Boario a lato delle Pubbliche Carceri delle Stinche, oggi ridotto per uso di Pescheria». Egli aggiunge che a quel tempo «dalla parte di Pescheria ed al Piano della Strada» si trovava «uno stanzone ad uso di magazzino, davanti al quale v’esiste un banco di pietra che serve per la vendita del pesce dall’Affittuario del Lago di Castiglioni».

Un altro dettaglio assai interessante lo offre anche l’erudito senese Giovanni Antonio Pecci, che racconta come a metà del Settecento i banchi dei pescivendoli non fossero disposti solo in Malcucinato, ma anche in un vicoletto lì vicino oggi non più esistente. Fra il 1339 e il 1343 l’edificio del carcere era stato sopraelevato di due piani per realizzare la grande sala dove tenere le riunioni del Consiglio Generale, che dopo la caduta della Repubblica senese di metà Cinquecento fu adibita a teatro, oggi dei Rinnovati. Per collegare questo locale con l’ala del Podestà di Palazzo Pubblico e consentire ai consiglieri di accedervi direttamente dal Campo, si pensò di edificare un ponte sostenuto da un arco di notevole ampiezza, sotto il quale passava un vicolo che univa Malcucinato alla sottostante piazza del Mercato, alla cui quota doveva trovarsi una piazzetta. Ebbene il Pecci racconta che ai suoi tempi una parte della “pescheria” si localizzava proprio nel vicolo e nello spazio sotto il ponte, dove è presumibile che i venditori di pesce trovassero riparo soprattutto nei mesi invernali. Oggi il passaggio la vediamo tamponato, anche se l’arcata di sostegno della terrazza soprastante è tuttora perfettamente leggibile sia da piazza del Mercato sia da Salicotto. Non sappiamo quando fu chiuso, anche se è probabile che ciò sia rientrato tra le opere di consolidamento eseguite dopo il terremoto del 26 maggio 1798, che colpì pesantemente l’edificio delle carceri; sicuramente la tamponatura era già stata compiuta a metà dell’Ottocento, come risulta da una raffigurazione di Alessandro Romani. Come testimoniato dal Fantastici, comunque, sin dalla fine del Settecento oltre che dal vicolo chiuso, pian pian i banchi dei pescivendoli furono eliminati anche da Malcucinato, per essere trasferiti nel passaggio coperto a fianco delle Stinche, che per questo si chiamò via di Pescheria, nome ancora vigente. In passato, invece, si denominava vicolo del Trapasso, collegando piazza del Mercato a Salicotto, e talora anche via delle Prigioni. Ancora in una carta topografica del 1862 esso viene indicato come «Vicolo del Trapasso oggi nuova Pescheria», segno che lo spostamento era relativamente recente. Nel 1886, quando fu approvato il definitivo trasferimento del mercato ortofrutticolo dal Campo alla sottostante piazza del Mercato, sotto la struttura coperta in seguito appellata “tartarugone” per la forma a testuggine della sua copertura, venne anche stabilito che la vendita del pesce fosse mantenuta esclusivamente in via di Pescheria, dove è rimasta fino ad anni recenti, per un totale di dodici postazioni. Ad esse si aggiungevano in un angolo i venditori di trippa da gatti e quelli di granchi e ranocchi.     

La comunità ebraica di Siena

Compiuti ancora pochi passi, sulla sinistra imbocchiamo il vicolo delle Scotte, risalito il quale, dopo una breve scalinata, sorge la sinagoga ebraica, progettata in stile neoclassico dall’architetto fiorentino Zanobi Filippo Del Rosso, coadiuvato nei lavori dal figlio Giuseppe, e inaugurata nel 1786. Accanto all’ingresso ci sono due grandi lapidi, che ricordano momenti diversi, ma ugualmente drammatici, della persecuzione subita dalla popolazione israelitica senese.

Quella sottostante fu apposta dal Comune il 28 giugno 1999, essendo «ancora vivo a Siena un commosso ricordo» della terribile giornata vissuta duecento anni prima, quando il movimento antifrancese sanfedista del “Viva Maria” devastò il ghetto, profanò il tempio e arse nel Campo «tredici cittadini ebrei». La loro presenza a Siena è attestata sin dal 1228 (quando un ebreo combatté nelle milizie comunali come soldato a cavallo e un altro, barattiere, fu incaricato di frustare i ladri per le vie della città), anche se la notizia che nel 1229 già esistesse una «universitas judeorum» è frutto solo dell’errata lettura di un documento. Nella prima metà del Trecento il governo dei Nove (1287-1355) tenne un atteggiamento piuttosto guardingo nei confronti degli israeliti, mentre quello dei Dodici consentì loro di esercitare l’attività creditizia sia nei confronti dei privati che del Comune stesso, riconoscendone il diritto prima a Vitale di Daniele (1355) e poi a Consiglio di Dattaro di Consiglio (1358). Nel corso del XV secolo, invece, il prestito ebraico subì un inasprimento, con una temporanea proibizione imposta nel 1412. Nel 1428 fu concessa agli israeliti libertà di culto, con l’obbligo, però, di astenersi da qualunque traffico e di tenere chiuse le botteghe nei giorni festivi cristiani, mentre nel 1439 gli fu ordinato di appuntare sul petto la rotella gialla come segno distintivo. La situazione precipitò dopo il concilio di Trento, quando prima nello Stato pontificio e poi nel resto d’Europa, gli ebrei vennero segregati all’interno di ghetti (nome che deriva dal più antico, quello di Venezia istituito nel 1516, così denominato perché si ubicava nelle vicinanze di una fonderia in disuso, dunque di un “geto”, o “getto”, che indicava la “colata” in dialetto lagunare). Di norma, questi vennero individuati nei quartieri più malsani e degradati delle città, dove erano costretti a dimorare coattivamente, senza potersi spostare, se non in casi eccezionali, e non potendo risiedere altrove, neppure per un tempo limitato. Ben presto si adeguò anche la Toscana, dove il Granduca Cosimo I de’ Medici e il principe reggente, il figlio Francesco, emanarono due bandi contro il prestito degli ebrei, prima nello “Stato vecchio” di Firenze (26 settembre 1570), e poi nello “Stato nuovo” di Siena (19 dicembre 1571); dalla loro entrata in vigore essi avevano a disposizione appena sei mesi per sistemare e chiudere gli affari in corso. Inoltre chi avesse voluto «rimaner nel Dominio Sanese, per habitare e far mercanzie, traffico, o esercitio alcuno, e vivere con sua famiglia in questo stato», aveva «facultà, e piena licentia d’habitar nella città di Siena», ma esclusivamente «in quelle contrade e luoghi, e in quel modo e con quelle conditioni e obligationi che saranno in breve tempo altra volta dichiarate da loro Altezze». Allo stesso modo si ordinava per «l’advenire» che qualunque famiglia ebrea si fosse trasferita nello Stato senese, poteva abitare solo in città, sempre «in quel modo e forma e con quelli oblighi e a condizioni, che S.A. altra volta dichiarerà come di sopra è detto».

Di fatto Cosimo e Francesco de’ Medici avevano avvertito gli israeliti senesi che presto sarebbero stati confinati all’interno di un ghetto, come stava succedendo in altre città, e, in effetti, il 3 febbraio 1572 la Balìa nominò quattro suoi membri affinché individuasse il rione più adatto come «luogo et habitatione degli Ebrei». Appena un mese dopo ne avevano già selezionati alcuni, indicando come migliore il «ristretto di San Martino», peraltro già abitato da diverse famiglie ebree, ossia l’area compresa tra via di Salicotto e del Porrione, dove furono collocati i due portoni che chiudevano il ghetto, e tra il vicolo delle Scotte e del Vannello. Questa indicazione venne condivisa anche dal governatore di Siena, il conte Federigo Barbolani da Montauto, poiché il luogo in questione era «molto comodo e vicino alla Piazza pubblica», con «in mezzo una piazza e commodità d’acque e da fare botteghe e con poco tempo altri commodi». Sembrava, dunque, «quasi per ciò accomodato», e si stimava che le spese per adattarlo a «serraglio» non sarebbero state «molte». Su proposta del governatore, queste ultime vennero addebitate ai suoi nuovi abitatori, e così il 6 aprile 1573 la “nazione ebrea” versò 30 scudi «pel Serraglio». Forse proprio ai lavori di sistemazione effettuati in questa occasione, si riferisce una piccola lapide sormontata dallo stemma dei conti Barbolani (un’aquila monocefala coronata, eretta sulle zampe e ad ali spiegate), difficilmente visibile perché murata all’altezza dell’ultimo piano del fabbricato all’angolo fra via di Salicotto e vicolo del Contradino, dove si ricorda che quelle vecchie e malridotte strade comunali erano state ricostruite e ammodernate grazie al volere del governatore. A quell’epoca gli ebrei residenti a Siena non arrivavano a cento unità. Secondo i registri della parrocchia di San Martino, un secolo dopo, nel 1685, la comunità contava su 371 persone, suddivise in 68 nuclei familiari. Nel 1697 era ascesa a 408 membri, mentre da un censimento del 1766 ne risultano 350; nel 1777 la popolazione israelitica era poco sopra le trecento unità, risalita a 431 nel 1793. 

Pur dovendo vivere all’interno del ghetto, nel XVIII secolo le condizioni di vita degli ebrei senesi cominciarono a migliorare, anche grazie alla mitigazione di alcune norme vessatorie. Come quando nel 1735, su tutto il territorio granducale, fu vietato di maltrattarli, deriderli e usare contro di loro qualsiasi forma di violenza, ivi compresi i tentativi di sottrarre i minori a scopo di conversione. La costruzione della splendida sinagoga testimonia la maggiore apertura di questi anni, tragicamente turbata dagli eventi del 1799. Quell’anno, in ritardo rispetto a buona parte degli altri Stati della penisola, anche la Toscana cadde in mano francese. Il 29 marzo il generale Vignolle entrò in Siena alla testa del primo nucleo dell’esercito transalpino, composto da cinquecento fanti e cinquanta ussari a cavallo. Ad attenderli a porta Camollia c’era una folla festante di giacobini, israeliti, democratici e repubblicani, agli occhi dei quali essi si presentavano come «i salvatori dei popoli, i liberatori d’Italia». L’esultanza si protrasse per diversi giorni e culminò il 7 aprile con l’innalzamento in piazza del Campo dell’albero della libertà (un ciliegio rubato dagli studenti universitari nel giardino del nobile Donusdeo Malavolti, in pieno spirito anti-aristocratico). I francesi consideravano questa festa assai importante per far comprendere al popolo i nuovi principi democratici. Perciò fu preparata con estrema cura, anche se non pochi dovettero parteciparvi con qualche imbarazzo, a partire dall’arcivescovo Anton Felice Zondadari. Purtroppo la gioia della comunità ebraica durò appena qualche mese. L’occupazione francese, infatti, suscitò un crescente malcontento popolare con tumulti e insurrezioni, come quelli provocati del movimento aretino del “Viva Maria”. Nel pomeriggio del 28 giugno 1799 le sue truppe entrarono in Siena da porta Romana, capitanate da don Giuseppe Romanelli, e invece di dirigersi alla Fortezza medicea, dove erano asserragliate le guarnigioni transalpine, puntarono verso il ghetto, con l’intenzione di punire la comunità ebraica, rea di aver parteggiato per gli ideali francesi. Secondo le più recenti ricostruzioni, prima di arrivarvi trucidarono Abramo Coen e uccisero a pugnalate Angiolo Orefici sul sagrato della Collegiata di Provenzano. Sulla scalinata della chiesa di San Martino, invece, vennero brutalmente ammazzati Michele Valech e sua moglie incinta, che era accorsa per difenderlo. Dopodiché irruppero nel ghetto, danneggiando e saccheggiando più di quaranta case e botteghe, oltre alla sinagoga, dove massacrarono tre ebrei rifugiatisi all’interno. Almeno altri tredici furono prelevati, condotti nel Campo e arsi vivi insieme all’albero della libertà e ad un soldato francese che avevano catturato; le cronache dell’epoca riferiscono nei minimi dettagli l’atrocità dell’azione. I francesi caduti negli scontri furono una trentina, mentre appena due sanfedisti rimasero feriti. Al termine della carneficina, fu portata in processione l’immagine della Madonna del Conforto, protettrice degli aretini, e sul rogo ormai spento fu innalzata una croce. Due giorni dopo l’eccidio, e di nuovo il mese seguente, la comunità ebraica senese fu sottoposta al pagamento di un pesante tributo finanziario, cui cercò di far fronte non senza gravi difficoltà. Nella tarda serata del 5 luglio i pochi soldati francesi rimasti in città, capeggiati dal generale Ballet, abbandonarono la Fortezza senza opporre resistenza e presero la strada per Lucca. Il 9 luglio 1799 in piazza del Campo, vicino a dove era stato collocato l’albero della libertà, fu celebrata la festa della restaurazione, con tavoli imbanditi per offrire ai poveri un lauto pranzo; nel frattempo in tutte le chiese cittadine venivano officiate messe solenni. In memoria della tragedia del 1799, per molti anni la comunità ebraica ha praticato un giorno di digiuno ogni 25 di Sivan, corrispondente al 28 giugno del calendario cristiano.

La targa soprastante, invece, fu apposta il 5 dicembre 1948 per commemorare i quattordici ebrei senesi, elencati con nome, cognome ed età, deportati nel 1943 ad Auschwitz-Birkenau e uccisi nelle camere a gas, nonché ad imperitura memoria di quei «campi di spietato annientamento incredibili strumenti di disumana prepotenza» dove morirono sei milioni di israeliti. La politica antisemita della Germania nazista conobbe una violenta accelerazione fra il 9 e il 10 novembre 1938, passata tragicamente alla storia come la “notte dei cristalli” (Kristallnacht). Vennero distrutti oltre un migliaio di negozi, incendiate centinaia di case e sinagoghe, uccisi o gravemente feriti quasi un centinaio di ebrei; ma soprattutto ne vennero deportati 20.000 nei campi di concentramento di Dachau, Buchenwald e Sachsenhausen. Nel giro di pochi giorni il regime fascista italiano, alleato di Hitler, si adeguò al nuovo clima, emanando il R. D. n. 1728 del 17 novembre, che conteneva una serie di «provvedimenti per la difesa della razza italiana». Le nuove direttive, come ovvio, furono applicate anche a Siena, dove nel mese di agosto gli ebrei ivi residenti erano già stati censiti. La comunità locale era piuttosto esigua: in quel 1938 su 270.500 abitanti nella Provincia, le famiglie israelitiche erano appena 81, per un totale di 269 persone, di cui 71 abitavano in città, per complessive 247 unità. Da quel momento dovettero fronteggiare un periodo di vessazioni, umiliazioni e enormi difficoltà quotidiane di natura materiale e morale, che ebbero il proprio culmine cinque anni dopo, nell’autunno del 1943. Con l’armistizio dell’8 settembre e la nascita della Repubblica sociale italiana (RSI), infatti, per gli ebrei si aprì una fase drammatica e feroce, con rastrellamenti sistematici, deportazioni e stermini nei campi di concentramento nazisti, anche di donne, anziani e bambini. La più grande retata fu condotta a Roma il 16 ottobre, durante la quale vennero catturati oltre mille ebrei, fra i quali duecento bambini. Nei giorni seguenti i reparti speciali delle SS, guidati dal capitano Theo Dannecker, ne eseguirono altre a Bologna, Genova e in Toscana, dove nella notte fra il 5 e il 6 novembre agirono contemporaneamente a Firenze, Montecatini e Siena. Qui i fascisti locali, dotati di elenchi con gli indirizzi di residenza, arrestarono una quindicina di ebrei, non riuscendo a catturare tutti quelli che avrebbe voluto grazie all’aiuto prestato loro da alcuni concittadini. Dopo aver trascorso la notte in caserma, furono trasferiti a Firenze e poi a Bologna, dove subirono un interrogatorio. Il 9 novembre in quattordici salirono sul treno n. 3 per il loro ultimo viaggio, direzione Auschwitz: il 14 novembre 1943, appena arrivati, furono subiti giustiziati. I loro nominativi sono scolpiti nel marmo a fianco della sinagoga senese. Tra essi, oltre al rabbino, prof. Giacomo Augusto Hasdà, e alla moglie Ermelinda Bella Segre, spiccano i due giovinetti Graziella Nissim, quattordicenne, e Ferruccio Valech, di tredici anni, ucciso insieme al padre Mosè Davide, alla madre Livia Forti, allo zio Michele e alla sorella Morosina. A Bologna, invece, fu rilasciata l’altra sorella Alba, all’epoca ventisettenne, essendo nata a Milano il 9 maggio 1916, grazie al matrimonio “misto” contratto con Ettore Capozzi, anch’egli liberato. Di nuovo arrestata a Milano nell’aprile seguente, Alba fu deportata ad Auschwitz, dove rimase quasi un anno, venendo liberata dagli americani il 1 maggio 1945. Rientrata a Siena, nel 1946 pubblicò uno dei primissimi memoriali di ebrei deportati nei lager e scampati alla morte, dal titolo evocativo A 24029, il numero di matricola ricevuto nel campo di sterminio, dove in poche ma dense pagine raccontava le sue vicissitudini. A partire da quella terribile notte, quando fu prelevata con tutti i suoi familiari dalla villa dei Cappuccini, dove abitavano. Alba Valech è morta a Genova l’8 febbraio 1999. 

 

L’itinerario non è finito!
Scopri le altre tappe nella versione cartacea che puoi trovare all’Ufficio Informazioni in Piazza del Campo, 7 

Testi a cura di Roberto Cresti

I Comuni di Terre di Siena