4.7 Le Lapidi dantesche
Le celebrazioni senesi in occasione del sesto centenario della morte di Dante Alighieri
Nel 1921 in tutta Italia venne celebrato il sesto centenario della morte di Dante Alighieri, morto a Ravenna fra il 13 e il 14 settembre 1321. Ovviamente anche a Siena si tennero varie iniziative per commemorare il Sommo Poeta, organizzate dal nutrito comitato che il Comune cittadino nominò per l’occasione, nel quale comparivano i rappresentanti di tutte le principali istituzioni locali. A farne parte, infatti, erano stati chiamati: il Sindaco di Siena Avv. Angelo Rosini, che ne era anche il presidente, il Rettore dell’Università degli Studi prof. Pietro Rossi (vice-presidente), l’Assessore comunale all’Istruzione avv. Francesco Ponticelli, il vice-presidente della sezione senese della società Dante Alighieri prof. Domenico Barduzzi, Fabio Bargagli Petrucci, cultore di storia locale e futuro podestà di Siena, il prof. Giambattista Bellissima, il capo console del Touring Club Giuseppe Camaiori, il Soprintendente ai Monumenti per le Province di Siena e Grosseto arch. Gino Chierici, il Provveditore agli Studi prof. Carlo Corsi, l’artista Fulvio Corsini, il Direttore della Biblioteca comunale Fabio Jacometti, Alessandro Lisini, ex Direttore dell’Archivio di Stato ed ex Sindaco, Vittorio Lusini, grande esperto di storia senese, il Direttore dell’Archivio di Stato prof. Guido Mengozzi, Guido Pignotti, il Direttore dell’Istituto di Belle Arti prof. Arturo Viligiardi e Andrea Vegni, nelle vesti di segretario. Il comitato si pose come obiettivo di programmare una serie di iniziative che, «rifuggendo da tutto quello che potesse avere aspetto e forma di pura teatralità e di semplice sollazzo […] avesse invece contenuto di serietà e di dignità e […] assumesse, per questo, carattere eminentemente educativo ed istruttivo, lasciando durevole traccia di sé», come dichiarò il Sindaco Rosini il 7 agosto 1921 durante il discorso inaugurale delle «Feste Dantesche nel Palazzo del Comune». Aggiungendo, poi, che Siena, la quale «più d’ogni altra Città italiana ha saputo conservare il suo carattere medioevale, ed il cui nome è legato a numerosi episodi della Divina Commedia, non poteva rimanere soltanto spettatrice, ma doveva sentire, come ha sentito, il bisogno di rendere il suo tributo di omaggio e di ammirazione al Sommo Poeta che vissuto in un periodo di grandezza e di floridezza di questa Città, non poté non rimanerne colpito e non poté fare a meno di ricordare, nella opera sua maggiore, cose e persone Senesi di quei tempi»; le quali, in effetti, sono le più presenti nella Commedia, ovviamente dopo Firenze e i fiorentini.
Il programma commemorativo si articolò su tre linee di indirizzo. Con la prima si intendeva recuperare e valorizzare edifici e luoghi cittadini dell’epoca di Dante, e alla fine si concretizzò nel restauro della parte absidale e del meraviglioso chiostro della chiesa di San Cristoforo (sotto la direzione e «l’opera intelligente» del Soprintendente Chierici), il quale, «liberato dai muri pieni e dalla terra che lo ricoprivano», si presentava finalmente «in tutta la sua bellezza, come il più bello ed il più puro monumento romanico» conservato a Siena. L’inaugurazione del chiostro restaurato avvenne nel pomeriggio dello stesso 7 agosto. La seconda, invece, si incentrò nella ricerca di documenti storici sull’Alighieri e le sue opere, nonché su luoghi, fatti e personaggi senesi ricordati nella Commedia. L’apertura della «Mostra dei Documenti Danteschi nel R. Archivio di Stato», dove furono esposti anche alcuni codici delle sue opere custoditi presso la Biblioteca comunale, fu programmata per la settimana seguente, 14 agosto. Infine era prevista la pubblicazione di un ponderoso volume che avrebbe raccolto vari contributi di alcuni dei componenti del comitato su episodi e figure locali dell’epoca di Dante, illustrato i documenti danteschi conservati in Archivio di Stato e alla Biblioteca comunale, ma anche approfondito la vita cittadina e l’assetto urbano del XIII secolo. Il volume uscì con qualche settimana di ritardo rispetto alla solenne apertura delle «Feste Dantesche» con il titolo Dante e Siena, e fu impreziosito da diverse illustrazioni di Arturo Viligiardi. Oltre a ciò il Comune di Siena concesse un contributo per la fusione di una campana di bronzo e argento che, su iniziativa dei Sindaci di Roma, Firenze e Ravenna, venne collocata presso la tomba del Sommo Poeta, ma soprattutto dispose l’apposizione di otto lapidi «in tutti i luoghi della Città ricordati da Dante. Così, dalla casa che conobbe le chiassose feste della brigata spendereccia, a quella di Sapia, moglie di Ghinibaldo Saracini, da Fontebranda al pozzo della Diana, alla casa di Pier Pettignagno, dal Palazzo Tolomei, legato al dolce ricordo della Pia, alla Piazza Provenzano, che nella sua quiete raccolta, dà ancora l’impressione del tempo in cui il sommo ghibellino “fu presuntuoso a recar Siena tutta alle sue mani”, dalla superba conchiglia del campo all’estremo limite di Camollia, le case, le Chiese, le fonti ricorderanno, con le parole del poeta, la storia meravigliosa del loro tempo e della loro fortuna». La decisione di collocare le iscrizioni fu deliberata dalla Giunta Comunale il 10 febbraio 1921 («nei luoghi citati da Dante nella Divina Commedia saranno opportunamente inscritti i relativi versi danteschi») e il 10 maggio il comitato selezionò le terzine e i relativi siti dove apporle.
Il presente percorso si snoderà proprio alla ricerca di queste otto lapidi, che vennero realizzate tutte dello stesso formato. Ciascuna riporta la terzina della Commedia dove è menzionato un personaggio o un luogo cittadino, sotto la quale a sinistra fu inserita la Balzana, simbolo del Comune di Siena, mentre a destra l’indicazione della cantica, del canto e dei versi ivi citati.
Gli scialacquatori della “Brigata Spendereccia”
Partiamo da via Garibaldi, dove ai numeri 47-49-51 sorge il cosiddetto “Palazzo della Consuma”, passato alla storia per essere stato il luogo di incontro della famigerata “Brigata Spendereccia”. Sulla facciata sono murate addirittura due lapidi a ricordo delle imprese compiute dalla medesima, quella affissa nel 1921, che si trova accanto al portone segnato al n. 47, sull’angolo dell’edificio, ed un’altra preesistente, più grande, visibile alla sua sinistra. Quest’ultima, forse murata in occasione delle celebrazioni del sesto centenario della nascita del Sommo Poeta (1865), si limita a rammentare, senza alcun riferimento alla citazione dantesca nella Commedia, che «in questa casa già detta La Consuma una brigata di giovani senesi in feste e conviti non più che per venti mesi sprecava duecentomila fiorini d’oro», pari a 4.374.000 lire di allora. Cifra talmente spropositata, e per questo opportunamente convertita nella moneta corrente all’epoca, da meritare l’ironia di Dante sulla proverbiale vanità dei senesi, addirittura maggiore di quella, altrettanto risaputa, dei francesi («e ne fu dal divin poeta di giusto biasimo colpita» recita l’iscrizione). Il palazzo, già individuato come la sede della brigata da Sigismondo Tizio ai primi del Cinquecento, si trova quasi al termine dell’odierna via Garibaldi, l’antica strada di San Lorenzo; in età medievale era una sorta di percorso campestre contornato da vigne e coltivazioni di vario genere, pur all’interno delle mura urbane, che conduceva al complesso conventuale per l’appunto dedicato a San Lorenzo. Ancora nella veduta di Siena raffigurata da Francesco Vanni alla fine del XVI secolo, in effetti, la via è pressoché priva di edifici, e il palazzotto è una delle rare eccezioni. Nel frattempo quest’ultimo aveva mutato decisamente destinazione già all’inizio del XIV secolo: con atto del 28 novembre 1302, poco dopo le “imprese” della brigata, era stato donato dai suoi proprietari di allora, Niccolò di Uguccione Malavolti e la moglie Cecca, al vescovo di Siena Rinaldo Malavolti, fratello del donatore, affinché venisse trasformato in un ospedale «per i poveri malati», intitolato a Sant’Orsola. Più tardi, e fino al 1785, il fabbricato ospitò la piccola chiesa dei SS. Crispino e Crespignano, officiata dall’Arte dei Calzolai; una volta sconsacrata fu ridotto a magazzino. In una mappa risalente all’inizio dell’Ottocento è già denominato «La Consuma», segno che, nonostante i successivi mutamenti di destinazione, era ancora prevalente e ben viva la memoria della brigata lì ospitata tanti secoli prima. Poco prima della metà del XIX secolo la via di San Lorenzo fu oggetto di una corposa ristrutturazione, operata mediante il rialzamento del livello stradale e un notevole allargamento della carreggiata, poiché in fondo alla stessa si stava realizzando la stazione ferroviaria. A patirne fu anche il “Palazzo della Consuma”, che fu parzialmente demolito, anche per le cattive condizioni statiche, e ricostruito nella forma che vediamo oggi; si salvò la parte sinistra del fronte, che conserva ancora tracce delle tre trifore gotiche.
La lapide del 1921, invece, riporta la terzina in cui Dante menziona due dei componenti della brigata: «e tra’ne la brigata in che disperse Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda, e l’Abbagliato suo senno proferse» (Inferno, canto XXIX, vv. 130-132). Dante e Virgilio sono nella X Bolgia dell’VIII Cerchio dell’Inferno, dove si trovano i falsari di metalli, ossia gli alchimisti. Due di loro sono appoggiati l’uno all’altro e si stanno grattando con violenza per il terribile prurito, essendo coperti di croste e scabbia. A prendere la parola per primo è un personaggio unanimemente riconosciuto come Griffolino d’Arezzo, il quale racconta di essere morto sul rogo a causa delle pressioni di Albero da Siena, ma non per il peccato che sta scontando all’Inferno, appunto aver esercitato l’alchimia, ma perché scherzando, e approfittandosi dell’ingenuità del senese, gli aveva detto di saper volare e che gli avrebbe insegnato a farlo. Albero, allora, gli aveva ordinato di mostrargli se fosse vero, e siccome Griffolino aveva fallito, lo sciocco senese, pieno di risentimento, si adoperò affinché l’aretino venisse incolpato di magia e condannato al rogo come eretico, agevolato in ciò da qualche figura eminente della città, che lo considerava come suo figlio («“Io fui d’Arezzo, e Albero da Siena”, rispuose l’un, “mi fé mettere al foco; ma quel per ch’io mori’ qui non mi mena. Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco: ‘I’ mi saprei levar per l’aere a volo’; e quei, ch’avea vaghezza e senno poco, volle ch’i’ li mostrassi l’arte; e solo perch’io nol feci Dedalo, mi fece ardere a tal che l’avea per figliuolo”»; Inferno, canto XXIX, vv. 109-117). Un Albero da Siena è effettivamente documentato tra il 1288 e il 1294, come abitante nel popolo di San Martino e figlio di un tal Bernardino. Ciò confuta l’opinione comune che suo padre fosse il vescovo senese Bonfiglio, che l’avrebbe aiutato a condannare Griffolino, del quale, semmai, poteva essere un nipote, o più probabilmente un protetto; considerato, tra l’altro, che questi occupò la cattedra episcopale tra il 1216 e il 1252, quando morì. Udite le parole del noto alchimista di Arezzo, la cui condanna al rogo risale certamente a prima del 1272, Dante prende spunto dalle parole di Griffolino sulla stoltezza e la presunzione dimostrate da Albero, per osservare quanto i senesi siano un popolo di incredibile vanità, maggiore persino di quella, pur proverbiale, dei francesi. Interviene, allora, l’altro dannato, il quale afferma sarcasticamente che tra gli abitanti di Siena devono essere salvati almeno alcuni personaggi, in realtà degli autentici campioni di frivolezza, a conferma del giudizio di Dante. Come Stricca (da molti plausibilmente ritenuto un Salimbeni, mentre altri lo riferiscono ai Tolomei), che si diede a spese folli, Niccolò (per alcuni fratello del primo, ipotesi in realtà poco probabile, o forse un Buonsignori), che introdusse l’uso in cucina dei costosissimi chiodi di garofano, e tutta la cosiddetta “brigata spendereccia”, di cui fecero parte Caccianemico di Trovato dei Cacciaconti, conti della Scialenga, il quale dissipò tutte le proprietà fondiarie di sua proprietà, e Bartolomeo Folcacchieri, detto l’Abbagliato. Alla fine del discorso il dannato si presenta come l’alchimista Capocchio, aggiungendo che Dante dovrebbe riconoscerlo, essendo stato in vita un ottimo e ben noto imitatore. In effetti il tono confidenziale con cui si rivolge al Sommo Poeta fa pensare che i due si siano conosciuti, forse perché erano stati compagni di studi in fisica o in filosofia naturale, probabilmente nei corsi di tecnologia chimica che l’Alighieri dovette frequentare per iscriversi all’Arte dei Medici e degli Speziali. Capocchio, da alcuni autori ritenuto fiorentino, da altri senese, fu arso sul rogo a Siena con l’accusa di alchimia il 15 agosto 1293, come risulta dal pagamento di 38 soldi di fiorini effettuato dal Comune a tre “ribaldi” affinché lo giustiziassero («E io dissi al poeta: “Or fu già mai gente sì vana come la sanese? Certo non la francesca sì d’assai!”. Onde l’altro lebbroso, che m’intese, rispuose al detto mio: “Tra’mene Stricca che seppe far le temperate spese, e Niccolò che la costuma ricca del garofano prima discoverse ne l’orto dove tal seme s’appicca; e tra’ne la brigata in che disperse Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda, e l’Abbagliato suo senno proferse. Ma perché sappi chi sì ti seconda contra i Sanesi, aguzza verme l’occhio, sì che la faccia mia ben ti risponda: sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio, che falsai li metalli con l’alchìmia; e te dee ricordar, se ben t’adocchio, com’io fui di natura buona scimia”»; Inferno, canto XXIX, vv. 121-139).
Nel XXIX canto dell’Inferno, dunque, Dante prende spunto dalla stoltezza di Albero per definire i senesi della sua epoca come “vani”, addirittura più dei francesi, epiteto che rivolgerà loro anche nel XIII del Purgatorio. Come esempio formidabile di ciò l’Alighieri porta, attraverso le parole ironiche di Capocchio, una «brigata» che buona parte dei commentatori più antichi appellerà “spendereccia”, e talora “godareccia” o “spendarina”. Come narra il più prodigo di notizie tra di loro, Benvenuto da Imola nel Comentum super Dantis Aldigherii Comoediam, composto tra il 1375 e il 1380, essa avrebbe riunito dodici ricchi e giovani senesi, che il Tizio aumenterà a diciotto senza addurre alcuna evidenza, che nella seconda metà del XIII secolo, in un anno non esattamente precisabile fra il 1270 e il 1280, decisero di versare ognuno la somma di 18.000 fiorini da spendere insieme in feste e banchetti luculliani, avendo pattuito di non usarli a fini personali, pena l’espulsione dal gruppo. Il luogo di ritrovo di questo sodalizio, di cui, peraltro, si trovano altri esempi coevi in più parti della penisola, fu il palazzotto della Consuma, che aveva il pregio di essere in città, ma in una zona scarsamente urbanizzata, e quindi a carattere rurale. Qui la brigata si sarebbe riunita per quasi due anni una o due volte al mese; al termine dei banchetti vi rimanevano anche a dormire, avendolo dotato di camere comode e riccamente arredate per ognuno di loro. Benvenuto prosegue raccontando che ad ogni convivio c’erano tre servizi: il primo veniva raccolto dai servi e gettato completamente dalle finestre, con gli ornamenti, i vasi e le posate d’oro e di argento; durante il secondo si mangiava tutto ciò che imbandiva la tavola, con una particolare predilezione per fagiani e capponi arrostiti su una brace di garofani, riprendendo le parole di Dante su Niccolò; il terzo, destinato al lavaggio delle mani, veniva conservato. Sempre secondo l’imolese i dodici rampolli si divertivano a mescolare dei fiorini d’oro nelle salse mentre erano in cottura, che poi sputavano una volta messi in bocca come fossero ossa, e a ferrare i loro cavalli con ferri d’argento, che poi venivano lasciati di proposito per la strada. Ad eccezione di Benvenuto, i commentatori più vicini a Dante non forniscono particolari per illustrare concretamente gli sprechi esagerati della brigata. Ciò fa pensare che non fossero a conoscenza dei dettagli e si siano limitati ad enfatizzare genericamente il testo dantesco. Lo stesso imolese, d’altra parte, è costretto ad avvertire che delle “vanità” descritte aveva solo sentito parlare e, quindi, potrebbero non essere vere. Anche Francesco da Buti nel Commento sopra la Divina Commedia di Dante Alighieri, su cui lavorò fra il 1385 e il 1394, parla di «novelle e istorie moderne» con riguardo alla brigata senese e ai suoi eccessi. Le gozzoviglie della “Brigata Spendereccia” durarono venti mesi, ossia finché non vennero scialacquati i 216.000 fiorini raccolti dai giovani. A quel punto caddero in miseria, narra sempre Benvenuto, ma sembra confermarlo anche il testo dantesco, specie in relazione a Caccianemico dei Cacciaconti, divenendo oggetto dello scherno popolare, visto che si erano ridotti a mendicare per strada o, addirittura, a ricoverarsi all’ospedale.
Anche riguardo ai componenti del gaudente sodalizio non vi sono certezze, e le molteplici discordanze fra le chiose antiche della Commedia non contribuiscono a chiarire la questione. Pare certo che appartenessero alla brigata Caccia e l’Abbagliato, essendo nominati espressamente dal testo dantesco, mentre diversi dubbi sorgono sull’includervi anche Stricca e Niccolò, a differenza di quanto ritengono molti autori. Un’attenta analisi delle terzine dantesche, in effetti, sembra escludere tale eventualità, considerato che il termine «brigata» viene introdotto solo al verso 130, dopo la citazione di Stricca e Niccolò, e soprattutto visto lo stretto legame sintattico stabilito dal pronome relativo «in che», il quale sembra togliere ogni dubbio sul fatto che solo Caccia e l’Abbagliato facessero parte della compagnia. Riguardo a quest’ultimo, occorre sottolineare che il soprannome di «abballiato» compare in diversi documenti senesi dell’epoca (forse da intendere come “l’ingannato” o “l’illuso”, meno probabilmente come “l’accecato”), anche se il suo vero nome era Bartolomeo di Ranieri dei Folcacchieri, fratello del noto rimatore Folcacchiero. Nonostante qualche irrequietezza giovanile, confermata da una multa di 20 soldi comminatagli nel 1278 perché sorpreso a bere in un luogo proibito, alla quale se ne aggiunse un’altra di pari entità nel 1285, essendo stato trovato per strada in ore notturne, egli fu figura di rilievo nella vita cittadina. Oltre a sedere in Consiglio Generale più volte fra il 1277 e il 1300, fu cancelliere del Comune nel 1279, gonfaloniere del Terzo di Camollia, dove risiedeva, nel 1278 e nel 1280, rettore del castello di Campagnatico nel 1288, capitano degli «stipendiarii» in Maremma dal 1289 al 1292, anni in cui fu anche al servizio del comune di San Miniato e capitano della Taglia Guelfa in Toscana, podestà di Monteriggioni nel 1290 e di Monteguidi nel 1300, quando se ne perdono le tracce, verosimilmente a causa della morte.
Se l’esame del testo dantesco sembra escludere la possibilità che anche Capocchio appartenesse alla brigata, come avanzato da Pietro Alighieri, figlio secondogenito di Dante, Giovanni Boccaccio e Francesco da Buti, doveva farne parte un altro senese, Lano, incrociato da Dante e Virgilio nel II girone del VII cerchio dell’Inferno fra gli scialacquatori. Egli, insieme all’altro dannato Iacopo da Sant’Andrea, sta correndo a gran velocità per sfuggire a delle fameliche cagne nere, dimostrando una rapidità che gli era mancata nella battaglia di Pieve al Toppo (26 giugno 1288), dove aveva perso la vita («Ed ecco due da la sinistra costa, nudi e graffiati, fuggendo sì forte, che de la selva rompieno ogni rosta. Quel dinanzi: “Or accorri, accorri, morte!”. E l’altro, cui pareva tardar troppo, gridava: “Lano, sì non furo accorte le gambe tue a le giostre dal Toppo!”»; Inferno, canto XIII, vv. 115-121). Secondo quasi tutti i commentatori, Lano va identificato con Arcolano di Squarcia Maconi, ricco esponente di uno dei casati più eminenti di Siena, il quale, dopo aver partecipato a varie spedizioni militari nel 1285 e a quella contro Arcidosso del 1287, l’anno seguente prese parte anche al fallito assedio di Arezzo da parte di un numeroso contingente di guelfi, cadendo poi nell’imboscata che i ghibellini aretini tesero all’esercito senese lungo la strada del rientro presso il valico di Pieve al Toppo. Fu un’autentica carneficina, in cui perirono circa trecento uomini, alla quale molti tentarono di sottrarsi dandosi inutilmente alla fuga; fra questi ultimi, probabilmente, anche il Maconi, spiegandosi, così, il riferimento di Dante: «Lano, sì non furo accorte le gambe tue a le giostre dal Toppo!». Secondo un’altra versione, meno credibile, Lano, dilapidato ogni suo avere, invece che vivere in miseria preferì una fine onorevole, gettandosi di proposito contro il nemico.
L’itinerario non è finito!
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Testi a cura di Roberto Cresti