4.8 Lapidi dell’epopea risorgimentale

Il plebiscito per l’annessione al Regno di Sardegna del 1860

La nostra camminata ha inizio dal Campo. Entriamo all’interno del Palazzo Comunale, dal lato di via Dupré, e fermiamoci nell’atrio d’ingresso, dove sulla parete di sinistra sono affisse due grandi targhe in bronzo: la prima riporta il “Bollettino della Vittoria” nella Prima Guerra Mondiale firmato dal generale Armando Diaz il 4 novembre 1918; la seconda, invece, reca i risultati finali del plebiscito tenutosi l’11 e 12 marzo 1860, con il quale i toscani votarono a larghissima maggioranza per l’annessione del Granducato al Regno di Sardegna di Vittorio Emanuele II, un anno prima dell’Unità d’Italia. Come recita l’epigrafe, del tutto analoga ad altre collocate nei vari municipi della Regione (a Firenze, ad esempio, si trova sulla facciata di Palazzo Vecchio a sinistra dell’ingresso principale), a spoglio avvenuto e ufficializzato dalla Corte di Cassazione, riunita in seduta plenaria il 15 marzo 1860 proprio nel Comune fiorentino, i risultati furono i seguenti: Toscani votanti 386.445; voti per l’unione alla monarchia costituzionale: 366.571; voti per il Regno separato: 14.925; voti nulli: 4.949. Il popolo toscano, pertanto, aveva scelto plebiscitariamente per «l’unione alla monarchia costituzionale del re Vittorio Emanuele», con una percentuale di favorevoli pari a quasi il 95%. Il Comune di Siena contribuì grandemente al raggiungimento di tale esito: dei 6.057 aventi diritto al voto, ossia i cittadini maschi sopra i ventuno anni residenti nel territorio comunale da almeno sei mesi, votarono in 5.617, dunque il tanto temuto astensionismo di parte del clero, della nobiltà e dei contadini ebbe un peso quasi risibile, di cui ben 5.509 furono favorevoli, per una percentuale pari al 98%, la più alta della Regione, 67 contrari, mentre 41 voti furono dichiarati nulli.

Un esito clamoroso ma certo non sorprendente, poiché il sentimento patriottico che pervadeva la città in quel periodo si era abbondantemente manifestato già l’anno precedente, quando il 27 aprile 1859 il Granduca Leopoldo II di Lorena aveva abbandonato la Toscana. A Siena la notizia si propagò immediatamente, come rese conto L’Indicatore senese del 14 maggio, con una cronaca a firma del collaboratore Luciano Banchi, futuro Sindaco della città. «La buona novella» giunse con il treno proveniente da Empoli intorno alle due di quel pomeriggio; «in alcuni luoghi si videro inalberare le bandiere dei tre colori; moltissimi del popolo posersi in petto le coccarde; manifesta sul volto di ognuno la gioja del cuore; grande l’entusiasmo, ma né sfrenato, né tampoco insolente». Quattro ore dopo la notizia «dei moti del popolo fiorentino e dell’esercito, non che dell’abbandono del Principe» fu ufficializzata per telegrafo, rassicurando gli animi dei più titubanti. All’alba del giorno dopo arrivò da Firenze l’avvocato Piero Puccioni per comunicare che, in assenza di disposizioni lasciate dall’ormai ex Granduca, a Palazzo Vecchio era stato costituito un Governo Provvisorio composto dagli esponenti del movimento liberale moderato Ubaldino Peruzzi, Vincenzo Malenchini e Alessandro Danzini. Immediatamente, alle sette del mattino, fu convocato il Magistrato Comunicativo, presieduto dal primo priore Orazio Ballati Nerli (il Gonfaloniere Celso Bargagli Petrucci era assente poiché la sera prima aveva partecipato alla riunione fiorentina), che deliberò all’unanimità l’adesione di Siena al Governo Provvisorio appena formatosi, riconoscendolo come autorità suprema dello Stato toscano, e approvò l’indirizzo a Vittorio Emanuele II «per l’immediata annessione»; tale decisione venne ufficializzata con votazione unanime il successivo 17 giugno, prima comunità toscana a muoversi in tal senso. A spingere verso questa scelta concorse anche una raccolta popolare di firme, che in poche ore toccò le oltre seimila adesioni per l’annessione; così ai primi di luglio, dopo la battaglia di Solferino e San Martino (24 giugno 1859), il tricolore già sventolava a Palazzo Pubblico. Dopo la pace di Villafranca (11 luglio 1859), il barone Bettino Ricasoli, ministro dell’Interno e, di fatto, responsabile del nuovo governo toscano, organizzò l’elezione di un’assemblea di rappresentanti, che l’11 agosto dichiarò decaduta la dinastia dei Lorena e optò per l’unione al Regno di Sardegna. Dal 29 agosto in poi i ministri toscani iniziarono a governare in nome di Vittorio Emanuele II, «re eletto». A giudizio del cosiddetto “barone di ferro” il voto di quasi tutti i Comuni toscani già costituiva un’adeguata manifestazione della volontà popolare, per cui non gradì la decisione di indire un plebiscito a suffragio universale maschile dove si sarebbe dovuto decidere o per l’annessione della Toscana al regno sabaudo oppure per la creazione di un nuovo regno separato da questo, che fu presa alla fine di quel 1859. Ciononostante la dovette accettare, e nei pochi mesi che gli rimanevano a disposizione preparò sapientemente la consultazione popolare, di cui temeva il suffragio universale maschile (mentre nelle precedenti consultazioni elettorali il diritto al voto era basato sul censo e, quindi, riguardava una percentuale molto bassa della popolazione) e, di conseguenza, soprattutto il voto del ceto contadino. Pur di centrare l’obiettivo, nei giorni precedenti fece diffondere tramite il giornale che aveva fondato, La Nazione, le schede per votare a favore dell’unione, mentre quelle per un regno separato dovevano essere predisposte dall’elettore stesso. Nessun rischio, invece, intravedeva per Siena, come dimostra lo scambio epistolare intrattenuto con il Prefetto della città, il conte Francesco Finocchietti. Il 12 dicembre 1859, Ricasoli indirizzò una lettera a quest’ultimo, manifestandogli «reale compiacimento» per la «saviezza di concetti e la fermezza d’animo» mostrati da «codesta illuminata popolazione» di fronte alle dirompenti novità di quell’anno. Il Prefetto rispose al barone nell’imminenza del plebiscito, facendogli presente che a Siena l’entusiasmo popolare era indescrivibile e lui si sarebbe uniformato «ad ogni suo eccitamento», garantendo, comunque, che «questo egregio popolo» non ne aveva alcun bisogno. L’ultimo appello a votare per l’unione al Regno di Sardegna arrivò dal Gonfaloniere Tiberio Sergardi, che il 5 marzo 1860 emanò un avviso del seguente tenore: «Concittadini, col Regno Italico unito, potenza, libertà, e prosperità; con un Regno separato incertezza continua, pericoli ognora crescenti e finalmente oppressione straniera e rovina irreparabile della Finanza pubblica e privata. A voi la scelta; il vostro patriottismo, ed il vostro senno ne assicurano che sarà tale quale la esigono l’onore e l’interesse della patria». Come visto, i votanti della città non delusero le enormi aspettative riposte su di loro, e la sera del 15 marzo si riversarono in gran numero nella piazza del Campo per attendere l’annuncio dei risultati. Invano, poiché la buona novella giunse a Siena solo il mattino seguente, preannunciata dai rintocchi di “Sunto”, come i senesi chiamano affettuosamente la campana della Torre del Mangia. «La città fu sempre in moto e in festa, pavesata tutta dalle bandiere nazionali, e percorsa da allegri drappelli acclamanti all’unione ed al magnanimo Re», si legge ne L’Indicatore Senese del 17 marzo 1860, che nelle pagine interne riportava gli eccellenti risultati ottenuti, commentandoli con toni trionfalistici e i consueti picchi retorici. «Le urne erano assediate già prima che si aprisse la votazione […] Dei sei mila cinquantasette iscritti, dalle otto antemeridiane alle quattro pomeridiane due terzi avevano deposto il voto loro. Due centinaja ne vennero fino alla chiusura cioè alle otto di sera. La mattina già prima dell’ora ritornava la folla. Le arti seguitavano a votare nella mattinata. Un buon numero di Ecclesiastici uniti al Capitolo dell’Insigne Collegiata di Provenzano venne in corpo a votare, e fu accolta all’entrare ed uscire dai vivi e cordialmente sinceri applausi del popolo». E dopo i «pubblici Uffici» e «pressoché tutti i Professori» e gli studenti dell’Ateneo, intorno all’una si presentarono al voto ottantaquattro poveri dell’Ospizio di Mendicità, a favore dei quali i militi e gli addetti di servizio al seggio, insieme ad altre persone presenti, donarono un’elemosina di due paoli. Dopo aver reso il meritato tributo alle «genti di campagna», ingiustamente calunniate alla vigilia del voto, per essersi pronunciate a favore dell’unione «d’accordo con noi come fratelli e cittadini anch’essi», l’articolo si chiudeva con queste trionfali parole: «Il voto è dato. Viva Italia! Siamo salvi! Nei più parlò l’Idea Italiana, in molti l’amor dell’ordine, alcuni videro che la comune volontà era il partito necessario a prendesi. In somma il voto è dato e siamo salvi! Viva Italia!!».

Re Vittorio Emanuele II nel loggiato di piazza Indipendenza

Usciamo da Palazzo Pubblico e, dopo aver attraversato il Campo, imbocchiamo il vicolo di San Paolo. Giunti in cima, svoltiamo a sinistra, prendiamo a destra via delle Terme ed entriamo in piazza Indipendenza, dove all’interno del loggiato che le fa da sfondo, sono collocati i busti di Carlo Alberto di Savoia, sulla parete sinistra, di Umberto I, su quella a destra, e di Vittorio Emanuele II al centro. Sotto quest’ultimo, il 3 settembre 1961, in occasione del Centenario dell’Unità d’Italia, il comitato cittadino nominato per le sue celebrazioni fece affiggere una lapide «a ricordo e conferma di libertà di progresso e di pace».

Il Consiglio Comunale intestò l’antica piazza San Pellegrino alla memoria dell’indipendenza italiana con atto del 1° agosto 1879, perché di lì a poco avrebbe ospitato il Monumento ai caduti per l’Indipendenza italiana appartenenti alla Provincia di Siena, commissionato allo scultore senese Tito Sarrocchi nel 1875 e ormai ultimato. La statua, oggi non più presente nella piazza poiché nel 1958 fu spostata per motivi di pubblica viabilità al centro del giardino tra le vie Fruschelli e Pannilunghi, nel quartiere residenziale di San Prospero, venne solennemente inaugurata il 20 settembre 1879. Nel frattempo l’architetto Archimede Vestri aveva edificato sullo sfondo, a ridosso dell’antico palazzo dei Gallerani, un loggiato a tre arcate, curando anche il restauro della nuova facciata dei due fabbricati laterali. Davanti alla loggia venne realizzata una gradinata di accesso, anch’essa non più esistente, dove venne collocato il monumento del Sarrocchi; questo raffigura una donna, appunto l’Italia, che stringe sulla mano sinistra lo scettro, mentre con la destra fa l’atto di deporre una corona sopra un leone, ferito e morente, disteso ai suoi piedi, dove è scritto «Ai prodi senesi per me caduti». I nominativi di quest’ultimi, provenienti dall’intera Provincia di Siena, sono incisi ai lati del basamento. 

Forse perché l’interno della loggia era spoglio, e certamente per tributare il doveroso riconoscimento ad uno dei principali artefici dell’indipendenza italiana, alla quale era dedicata la piazza, qualche anno dopo l’Amministrazione Comunale accordò il permesso di collocare nella parete centrale un busto bronzeo raffigurante il primo Re d’Italia Vittorio Emanuele II. L’opera fu fusa nel 1890 dalle officine Conversini di Pistoia, su un modello dello stesso Sarrocchi, e venne inserita all’interno di una decorazione disegnata da Giuseppe Catani, oggi purtroppo perduta e visibile solo in qualche fotografia d’epoca. In una di esse si può anche notare che sotto al busto si trovava una lunga iscrizione, certamente a memoria dell’iniziativa ed inneggiante al Re Galantuomo, anch’essa rimossa e poi sostituita nel 1961 dalla lapide attuale. A proporre l’iniziativa era stata l’Associazione Popolare Monarchica Senese, che il 18 aprile di quell’anno avanzò apposita istanza al Comune. Ottenuto il placet della Giunta nella seduta del successivo 31 maggio, il 18 giugno il Consiglio approvò definitivamente e all’unanimità la collocazione del busto, dopo che il Sindaco Luigi Valenti Serini aveva rassicurato il consigliere liberale Carlo Sciarelli Arditi che le spese sarebbero state a totale carico dell’Associazione, con il Comune chiamato solo a concedere il permesso per l’installazione. Per completare la serie dei Savoia che avevano maggiormente contribuito al Risorgimento italiano, nel 1900 fu costituito un comitato cittadino per aggiungere nella loggia anche i busti di Carlo Alberto, Re di Sardegna dal 1831 al 1849 e padre di Vittorio Emanuele, che era stato il primo tra i capi degli Stati italiani preunitari a concepire il disegno di unificare la penisola in nome dei nuovi valori di libertà e nazionalità, e di Umberto I, figlio e successore di Vittorio Emanuele, appena ucciso (29 luglio 1900) da Gaetano Bresci a Monza. Nel 1901 la giuria del concorso, formata da Raffaello Romanelli, Giuseppe Cassioli e Alessandro Franchi, proclamò vincitori Fulvio Corsini, per il busto di Umberto, e la coppia composta da Luigi Sguazzini ed Ezio Trapassi per quello di Carlo Alberto; entrambe le sculture vennero inaugurate per le feste d’agosto di quello stesso anno. 

Il conte “cospiratore” Girolamo Spannocchi

Proseguiamo il cammino per via delle Terme e imbocchiamo via della Sapienza. Giunti in cima alla strada, di fronte alla chiesa di San Domenico, si staglia il Palazzo Spannocchi, dove nacque e trascorse gli anni senesi il conte Girolamo, come ricorda la lapide che fu posizionata a lato del portone d’ingresso (oggi n. 39 di via della Sapienza) «dalla famiglia e dalla patria» in occasione del «cinquantenario della gloriosa assemblea» costituente della Repubblica Romana (1849), e dunque nel 1899, di cui il conte era stato «valoroso rappresentante della città di Siena in Roma». In particolare fu il marito della figlia secondogenita Laura, Federigo Raffa, a farsi promotore dell’iniziativa, quando ormai la moglie era morta da venti anni.

Girolamo Spannocchi nacque a Siena il 10 aprile 1781 da Giuseppe e dalla contessa Caterina Piccolomini di Modanella, che si erano uniti in matrimonio nel 1774; ebbero cinque figli di cui sopravvissero solo due maschi, il secondogenito Pompeo e, appunto, il terzogenito Girolamo. Nel 1799 quest’ultimo, appena diciottenne, decise di abbandonare gli studi universitari e arruolarsi nell’esercito austriaco, seguendo le orme dello zio Lelio, che in gioventù aveva lasciato Siena per lo stesso motivo e probabilmente lo supportò nella difficile scelta, visti i vani tentativi dei preoccupati genitori di farlo desistere dal partire per il fronte di guerra. Undici anni più tardi fu trasferito d’ufficio nei ruoli dell’armata francese di stanza in Toscana, e con la Restaurazione del 1815 entrò nei ranghi dell’esercito granducale. Ormai rimpatriato e raggiunto il grado di tenente colonnello, nel 1820 avanzò istanza di congedo anticipato adducendo improbabili motivi di salute. Si trattava, con ogni probabilità, di un espediente per convincere il recalcitrante Granduca a concedergli quanto richiesto, considerato che all’epoca non aveva compiuto quaranta anni; alla fine ebbe la meglio, ottenendo una ricca pensione di 760 scudi annui. La sua malcelata intenzione, scapolo e senza alcun assillo di natura economica, era quella di vivere in tranquillità il resto della vita a Firenze, ma proprio la sua invidiabile posizione convinse gli anziani genitori (il padre Giuseppe morirà di lì a poco, nel 1825, mentre la madre Caterina spirerà nel 1833), il fratello maggiore Pompeo e gli zii Pandolfo e Giovanni Bonaventura a sceglierlo affinché proseguisse la linea familiare, trasferendogli tutti i loro beni attraverso atti di vendita, rinuncia o donazione, in cambio del riconoscimento di congrui vitalizi. Girolamo, così, intorno al 1823 dovette tornare a Siena, essendo divenuto proprietario e amministratore unico del patrimonio Piccolomini Spannocchi. Oltre a ciò, la continuazione della linea familiare prevedeva anche il matrimonio, e il 14 maggio 1828 sposò Maria Benedetta Dini, ereditiera di Colle Val d’Elsa appartenente alla piccola nobiltà di provincia. Dall’unione nacquero cinque figli, tre maschi e due femmine, Caterina e Laura, le uniche che superarono l’infanzia, anche se Caterina morirà nel 1857 ad appena ventuno anni; il primogenito Giuseppe, nato nel 1829, spirò intorno al 1838, e identica sorte toccò agli altri due, entrambi chiamati Giovanni Bonaventura, il primo morto in fasce e l’altro all’età di quattro anni. 

Fino ad allora Girolamo si era tenuto ben lontano dalla politica, anche se lo status di colonnello dell’esercito austriaco in pensione lo qualificava un conservatore, come, d’altronde, lui stesso pare si professasse pubblicamente. L’estate del 1847, però, fu particolarmente agitata anche a Siena, dove si registrarono atti di insubordinazione di matrice liberale e “rivoluzionaria”, culminati nell’uccisione dello studente universitario Ludovico Petronici ai Giardini della Lizza da parte di due carabinieri, e in diverse proteste popolari per la mancanza di pane e i prezzi troppi alti praticati dai fornai. Queste rivendicazioni sociali andarono a saldarsi con le istanze patriottiche e liberali, originando l’inedito compattamento di una vasta e composita opinione pubblica che premeva sul governo, seppur per ragioni diverse. La situazione convinse il Governatore Giulio Ragnoni e il Gonfaloniere Emilio Piccolomini Clementini della necessità di formare anche a Siena una Guardia Civica per provare a ristabilire l’ordine pubblico, che fu istituita il 4 settembre 1847 con motuproprio granducale. Girolamo, vista la vasta esperienza e la formazione specifica in campo militare, riteneva di essere il profilo migliore per il comando del nuovo corpo e, al fine di accreditarsi come liberale e democratico, cominciò a frequentare gli ambienti patriottici, dove già godeva di grande seguito il suo principale rivale, Augusto Gori Pannilini, direttore del giornale Il Popolo. Come spesso succede in queste circostanze, tuttavia, fra i due litiganti spuntò il terzo incomodo nella figura del giovane e inesperto Alessandro Saracini, che peraltro non dovette gradire particolarmente il rognoso incarico. La scelta indignò lo Spannocchi, che decise di schierarsi apertamente contro i Lorena, rinunciando addirittura al titolo di conte e diventando uno dei principali leader dei liberali senesi. Tanto che il 15 dicembre 1848 fondò nella sua casa di via della Sapienza la «Società popolare democratica del Rione di Fontebranda» al fine di «ammaestrare ed all’ordine ricondurre il popolo». Nella prima riunione fu stabilito che fosse affiliata al «Circolo popolare fraterno senese [che era stato costituito il precedente 21 novembre da Scipione Bichi Borghesi], onde essere tutti uniti come tutti tendenti al medesimo scopo della Italiana indipendenza». Come recita l’iscrizione, la congrega si aprì anche al mondo delle Contrade e in particolare «alle cospiranti […] Drago Oca e Selva», essendo il colonnello protettore della prima, come diversi suoi avi, e vedendo nel vessillo tricolore della seconda un potente richiamo per tutti i democratici e i repubblicani senesi. In quel periodo, non a caso, cominciò provocatoriamente a girare per le strade della città con un cappello ornato da una vistosa coccarda bianca, rossa e verde. Sempre nel mese di dicembre del 1848 il colonnello fu nominato commissario del circolo politico di Siena, e in tale veste, sin dai primi giorni di gennaio del 1849, partecipò a riunioni e firmò appelli pubblici in favore dell’«attuazione della Costituente Italiana», entrando a far parte del comitato dei circoli toscani costituitosi allo scopo. Questo spiega perché la lapide lo ricorda fieramente come rappresentante senese a Roma «per la grande idea della Costituente Italiana», la quale, radunatasi il 5 febbraio 1849, il giorno 9 proclamò decaduto il potere temporale, con papa Pio IX rifugiatosi a Gaeta già da qualche mese, e proclamò la Repubblica Romana. Girolamo, comunque, non fece parte dei deputati dell’assemblea, eletti a suffragio universale maschile tra il 21 gennaio e il 18 febbraio 1849. Nel frattempo, anche in Toscana il vento del cambiamento spirava con forza, e l’8 febbraio il Granduca Leopoldo II, che il 31 gennaio aveva già lasciato Firenze proprio per riparare a Siena, fuggì anch’egli a Gaeta; al suo posto fu eletto un triumvirato composto da Domenico Guerrazzi, Giuseppe Montanelli e Giuseppe Mazzoni. Si trattò, tuttavia, di un fuoco di paglia, sia a Roma, con i francesi che entrarono in città il 3 luglio, sia in Toscana, dove le truppe austriache arrivarono già il 5 maggio. Qui si insediò un governo presieduto da Giovanni Baldasseroni, fedele esecutore della linea del Granduca, che il 28 luglio fece il suo rientro a Firenze.

Con il ritorno di Leopoldo II ebbe inizio una stagione repressiva contro coloro che si erano maggiormente distinti nei circoli politici di matrice democratica e repubblicana, e proprio Girolamo Spannocchi finì per pagare un prezzo altissimo. Curiosamente il primo sentore di quanto gli sarebbe capitato lo avvertì in qualità di capitano del Drago, carica alla quale era stato eletto dall’assemblea della Contrada il 19 maggio 1850 con trentaquattro voti favorevoli e quattordici contrari, venendo poi confermato nei due anni successivi. Dietro segnalazione della Prefettura datata 5 giugno 1852, infatti, il giorno 9 il Gonfaloniere di Siena Angelo Piccolomini Clementini annullò le nomine a capitano effettuate per quell’anno da cinque Contrade. E se per Selva e Lupa si trattava di meri problemi di incompatibilità tra cariche contradaiole, mentre Giuseppe Torricelli della Torre risultò carente dei requisiti necessari una volta verificati i «Protocolli Criminali ed Economici del Tribunale di Prima Istanza», per Istrice e Drago le motivazioni furono prettamente politiche («Atteso che sotto altri rapporti sembrino non prudenziali l’elezioni dei Signori Conte Girolamo Spannocchi e Francesco Bernardi a Capitani respettivi delle Contrade del Drago e dell’Istrice»). Il priore dragaiolo, dopo un’adunanza convocata d’urgenza, presentò un lungo memoriale a difesa della Contrada e dello Spannocchi, al fine di far recedere il Comune dalla deliberazione assunta, ma il 16 giugno arrivò inesorabile la conferma dell’annullamento. La situazione precipitò ai primi d’agosto quando la polizia arrestò una sessantina di liberali, democratici e repubblicani senesi, dando inizio ad un lungo dibattimento denominato «processo Spannocchi» dal nome dell’imputato senz’altro più in vista, anche se non mancavano altre personalità «non volgari», come le definì Tommaso Pendola in una lettera indirizzata a Raffaello Lambruschini, come il citato Francesco Bernardi, Francesco Carpellini, Piero Cerretani, Carlo Landi, Odoardo Lodoli ed Enrico Pantanelli. Da notare che tre di loro compaiono anche nella lapide di via della Sapienza (dove Lanzi è da intendere Landi), che cita anche Francesco Guerri, mazziniano della prima ora arrestato nel 1833 e condannato al confino in Maremma l’anno dopo, e Deifebo Brancadori. Il conte Girolamo fu arrestato nella notte del 12 agosto 1852 e condotto alla Fortezza da Basso di Firenze. Il giorno 20 fu trasferito temporaneamente nel manicomio di San Giovanni Battista «per essere opportunamente curato», avendo riscontrato una «vera e propria alienazione mentale». Il 14 dicembre, diagnosticato un miglioramento delle sue condizioni, fu trasferito nell’infermeria del carcere delle Murate. Il processo iniziò a marzo del 1853. Durante gli interrogatori Spannocchi ammise di essere stato per due anni il cassiere della «Società popolare democratica del Rione di Fontebranda» e di aver conosciuto Pantanelli e Carpellini, ma sostenne con forza che essa non aveva alcuna finalità politica. Non fu creduto e venne condannato per cospirazione a diciotto mesi di carcere, così come gli altri, oltre alla perdita del grado militare e della pensione. Negli incartamenti di polizia allegati agli atti processuali sono elencati gli attentati politici avvenuti a Siena nel triennio precedente, tutti addebitati alla società, a partire dal più grave, verificatosi il 29 luglio 1852, ossia l’uccisione del Capo Commesso di Pubblica Sicurezza Antonio Falconi e il ferimento del Prefetto Lorenzo Mori, che portò agli arresti di agosto. Data l’età avanzata e il precario stato di salute, la pena detentiva inflitta allo Spannocchi fu commutata in altrettanti mesi di confino a Livorno, dove si trasferì il 18 maggio 1853, non appena uscito di prigione. Raggiunto dalla moglie e dalle due figlie, non tornò mai più a Siena, rimanendo nella città labronica fino alla morte, che lo colse nel 1861, non prima di essere stato riabilitato dal governo provvisorio filo-piemontese nel 1859, e di aver ricevuto la nomina a capitano onorario del Drago. Alla biblioteca livornese lasciò oltre tremila volumi a stampa e cinquantaquattro manoscritti, costituenti il cosiddetto “fondo Spannocchi”. Le autorità ne rifiutarono la sepoltura in “terra consacrata” poiché, poco prima di morire, aveva reso pubblica l’adesione alla Chiesa valdese; venne quindi tumulato nel locale Cimitero degli Inglesi, dove tuttora si trova la sua tomba.

 

L’itinerario non è finito!
Scopri le altre tappe nella versione cartacea che puoi trovare all’Ufficio Informazioni in Piazza del Campo, 7 

Testi a cura di Roberto Cresti

I Comuni di Terre di Siena